Thursday, March 29, 2007

La difficile gestione delle città

Jacques Donzelot è considerato uno dei massimi studiosi francesi delle trasformazioni urbane a partire da quell'osservatorio «speciale» che sono le banlieues. Nei suoi libri alterna una robusta ricostruzione storiografica all'antropologia, alla sociologia. Recentemente ha pubblicato un saggio nel quale ritorna sulle rivolte del novembre 2005 - Quando la città si disfa - proponendo un modello di analisi delle trasformazioni urbane ed una «decostruzione» dell'intervento pubblico nelle banlieues. Un testo che può essere considerato un nuovo capitolo di un libro iniziato a scrivere trent'anni fa e che ha avuto come tappe l'analisi de La polizia delle famiglie, dello Stato animatore. Saggio sulla Politique de la Ville con Philppe Estebe (1994) e di Fare società: le politiche urbane in Francia e negli Stati Uniti (2004). L'intervista è avvenuta a Roma, dove Jacques Donzelot è intervenuto a un seminario organizzato dall'Università di Roma Tre per poi spostarsi a Bari per partecipare a un convegno sulle periferie urbane del Meridione organizzato dalla Cgil.
In Francia, le sommosse del novembre 2005 nelle banlieues sono state interpretate attraverso la griglia di una mai sopita «questione sociale». Ci sono stati invece studiosi che hanno letto la rivolta dei banlieuesard come un fenomeno di rifiuto delle forme di governo della realtà metropolitana. Cosa ne pensa?
Direi che nella rivolta delle banlieues sono presenti entrambi i i fenomeni. Siamo, infatti, di fronte sia alla manifestazione di una «questione sociale» che ha una rivolta specificamente metropolitana contro le forme di governo urbano. Occorre, infatti, essere ciechi per non riconoscere la profonda disuguaglianza che condiziona l'accesso agli studi, all'occupazione e soprattutto ad un lavoro che sia coerente con gli studi compiuti nel caso di una persona che risiede nei cosiddetti quartieri di «relegazione». Allo stesso tempo, non possiamo che partire dal fatto che nelle banlieues si concentra la metà dell'edilizia sociale disponibile in tutto il paese. Sono insediamenti urbani che richiamano sia la forma dell'enclave che il risultato di un eccessivo decentramento amministrazione.
La discriminazione colpisce tuttavia con una precisione agghiacciante: a parità di requisiti, le possibilità di essere assunto per un giovane di banlieue rispetto ad un giovane bianco autoctono e proveniente da un quartiere benestante è di 1 a 2. È innegabile che il colore della pelle di un ragazzo beur sia considerato un handicap da parte di molti datori di lavoro, timorosi che la sua presenza risulti sgradita a molti clienti, se si tratta di un lavoro a stretto contatto con il pubblico. Allo stesso tempo, occorre essere stupidi per non vedere a qual punto e con quale rapidità la città si sia frammentata e che tale frammentazione abbia accentuato una tendenza a costituire insediamenti urbani basati su affinità elettive, sull'omogeneità sociale e di stile di vita che non eterogeneità sociale e la convivenza con il «diverso». Sembra proprio che le classi medie e superiori non vogliano più condividere lo spazio urbano con il «mondo operaio», in tutte le sue complesse articolazioni. Le classi medie e superiore vogliono cioè vivere con i propri simili.
Alcuni sociologi come Marco Oberti (autore insieme a Huges Lagrange di una recente ricerca sulle rivolte del novembre 2005, La rivolta delle Periferie, Bruno Mondadori, 2005) sostengono invece che le classi medie, soprattutto quelle che lavorano nella funzione pubblica, non sarebbero ostili alla mixité sociale. Purtroppo, le loro inchieste si sono concentrate in quei comuni dove gli eletti di sinistra compiono sforzi particolari in questo senso, dimenticando però che sono i comuni dove è altissima la percentuale di scuole private. Si tratta di una logica della separazione molto insidiosa. Nel caso delle banlieue coinvolte dalle rivolte del novembre 2005, va ricordato che hanno visto forme di insubordinazione sorrette spesso da una «logica da ghetto». Mi spiego meglio. Come in una prigione, dove si ha solidarietà esclusivamente in forma di ostilità contro il mondo esterno, nel sentimento condiviso del sentirsi tutti - egualmente - delle vittime, l'ostilità è rivolta all'interno e contro i simboli di tale universo concentrazionario. Allora, in questo caso, si brucia tutto: macchine, negozi, scuole. Dunque, nella rivolta del novembre di due anni si manifesta una «questione sociale» e il rifiuto di una certa politica della città
La banlieue francese è nata come potente meccanismo di coesione sociale, di modernizzazione del sociale per mezzo dell'urbano, per usare una definizione da lei usata. Non le sembra che ci troviamo di fronte al suo fallimento?
Si, siamo di fronte all'esaurimento di quell'esperienza. L'idea di modernizzare la società per mezzo dell'urbano rimanda all'ultimo dopoguerra. La Francia era ancora un paese a forte dominante rurale. La città evocava l'affollamento, la mancanza di comodità ed igiene. Per attirare i lavoratori agricoli nelle città al fine di sostenere il processo di industrializzazione fordista, l'amministrazione statale decise la messa in opera di un grande progetto di urbanizzazione il cui principio fondamentale era quello di costruire dei quartieri che fossero delle anti-città; dei quartieri che in altre parole non comportassero i rischi delle città, liberi dal problema dell'affollamento e dal rischio della violenza urbana; spazi che permettessero alla classe operaia di vivere una vita familiare corretta in una condizione di igiene e di comfort, senza che i bambini giocassero in strada (come succedeva normalmente nei centri storici) o che i capofamiglia spendessero il proprio tempo nei bistros (infatti, niente bistros in banlieue). E' una modernizzazione che promuove l'integrazione della classe operaia. La casa serve al lavoro, questa è la filosofia di base.
Ma con gli anni Settanta assistiamo però anche alla fine di questa peculiare forma di urbanesimo fordista. Lo spazio urbano, nonostante la tanto decantata exception francaise, ha conosciuto ciò che in Francia è stata chiamata una modernizzazione senza modernità....
In un quadro sociale profondamente mutato, gli effetti della «promiscuità» sociale sono apparsi progressivamente intollerabili agli occhi di quei settori di classe media che risedevano in banlieue. Inizia così la fase dello sviluppo «peri-urbano» e del mito della casa individuale nel verde. Questo avviene mentre viene avviato il processo di «relegazione», cioè l'assegnazione degli appartamenti resisi liberi con la fuga della middle class dalle banlieues a nuclei familiari d'origine immigrata prevalentemente provenienti dal Maghreb. Questo ha sì permesso di salvare la vivibilità nelle banlieues più invivibili, ma al prezzo di un confinamento delle componenti più deboli della popolazione in luoghi svantaggiati e lontani - in senso sia spaziale sia sociale - dal mercato del lavoro. Si tratta di una situazione che rimanda a quel processo più ampio di riorganizzazione dello spazio tipico delle società avanzate che ho definito come città a tre velocità. Assistiamo cioè alla coesistenza di tre fenomeni: il costituirsi di questi spazi di «relegazione» dove si ha una sorta di stagnazione degli abitanti in luoghi non connessi ai grandi flussi, dove popolazioni di origine immigrata non si sentono appartenere né al proprio paese d'origine né alla società nella quale essi vivono; l'emergere degli spazi di «peri-urbanizzazione», quelli dominati da agglomerazioni di case individuali sempre più lontane dall'urbanizzazione storica, dove vivono le classi medie per meglio proteggersi dalla racaille di banlieue, ma anche perché i valori immobiliari nei centri urbani sono saliti troppo perfino per una famiglia di classe media; infine, gli spazi della gentrification: spesso vecchi quartieri popolari di grandi città che acquisiscono valore contestualmente al crescere della presenza di esponenti delle professioni legate alla nuova economia dei servizi, con la loro cultura transnazionale e la loro ricerca di servizi - specie ricreativi e culturali - di prestigio.
In Francia assistiamo a un forte interventismo delle strutture pubbliche che sempre più spesso non è coronato da successo. Si tratta, tuttavia, di un discorso pubblico dai contorni neo-coloniali nel quale la banlieue ed i suoi abitanti diventano l'eccezione da ricondurre alla norma, un vulnus del patto repubblicano o la sede di una concreta minaccia «comunitarista»...
Il fallimento dell'intervento pubblico è dovuto a un determinismo urbanistico feroce che ignora gli uomini e le donne che vivono in quello spazio urbano. Da qui, il desiderio di liberarsi di questa «popolazione pericolosa». La cosiddetta «politica della città» è diventata un meccanismo che premia le amministrazioni locali che accettano di demolire la più grande quantità possibile di immobili in cui vivono le minoranze etniche. Questi immobili sono numerosi, almeno quanto gli eletti locali che desiderano farli sparire. L'agenzia nazionale di rinnovo urbano finanzia i progetti in base al numero di demolizioni previste. Non si tratta quindi di una forma di partenariato ma di un meccanismo di ricompensa ed incitamento in stile anglosassone, con in più un autoritarismo alla francese.
Nella discussione francese si aggira il fantasma del legame sociale. Per quanto riguarda la «politique de la ville», il riferimento a una necessaria ricerca di legame sociale è costante. Di fronte al fallimento clamoroso di quanto fatto fino ad ora, lei scrive della possibilità concreta di rifare la città, di ricostruire legame urbano...
Il volume Quand la ville se défait è proprio dedicato a questa possibilità. Rifare la città e re-imparare a fare società significa prima di tutto riequilibrare il rapporto fra luoghi e flussi, limitando il tempo di permanenza in questi ultimi, per esempio. Più in generale, attraverso una combinazione di interventi a sostegno della mobilità delle persone e dell'elevazione di quella che io chiamo la capacità di potere del soggetto sul luogo in cui vive, possiamo forse ritrovare lo spirito della città, la facoltà cioè di slegarsi e legarsi liberamente in uno spazio che offra a ciascuno una dimensione intima e privata che sia però aperta all'esterno ed al movimento. Per quanto riguarda la realtà dei quartieri di «relegazione», è evidente che i grandi programmi di demolizione siano molto amati dal sistema politico, perché è la strada più spettacolare, più mediatica.
E tuttavia la «riqualificazione urbana» tramite demolizioni non funziona se non c'è partecipazione delle popolazioni interessate. Secondo alcune ricerche condotte in Francia abbiamo appreso che i disordini del novembre 2005 hanno avuto luogo specialmente nelle banlieues coinvolte in programmi di demolizione. Sono rivolte che muovono dal sentimento di persone che si sentono ridotte a cose, che si possono spostare senza che abbiano alcun diritto di parola ed espressione. Le operazione di riqualificazione hanno senso solo se sono l'occasione del processo inverso: quello di un'elevazione della capacità di potere delle popolazioni nei loro quartieri, nelle loro città e soprattutto nelle loro vite.

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