Thursday, November 23, 2006

Bestseller in Germania

“A Salem abbiamo provato fin
quasi alla fine degli anni Ottanta a mantenere
il controllo sul consumo di droghe, alcool
e sigarette, attraverso lunghe discussioni
con i ragazzi. Abbiamo fallito. Così, quando
sono stati messi a punto procedimenti
chimici che permettevano di risalire a un
eventuale consumo di droga, in particolare
hashish, ci siamo decisi a introdurre l’esame
dell’urina. Da allora tutte le mattine uno studente,
estratto a sorte, deve sottoporsi al test.
Se l’analisi risulta positiva, il ragazzo viene
espulso seduta stante. Già all’atto dell’iscrizione
genitori e ragazzi devono firmare
un documento nel quale si dichiarano d’accordo
con questa procedura”. Salem non è
un collegio per ragazzi difficili. Salem è uno
degli istituti più rinomati ed esclusivi della
Germania, dove, per intenderci, si mandano
a studiare i rampolli delle famiglie bene,
quelle in teoria più propense a una scuola
di tipo steineriano che favorisce lo sviluppo
libero e incondizionato e soprattutto un’educazione
priva di imposizioni. Invece, pare
prevalere l’atteggiamento opposto.
Il libro dal quale è tratta la citazione si intitola
“Lob der Disziplin - Eine Streitschrift”
(Lode alla disciplina - Un saggio provocatorio”,
ed. List) e svetta da diverse settimane
al terzo posto dei bestseller dello Spiegel.
L’autore è Bernhard Bueb, un signore attempato
che dal 1974 al 2005 ha diretto Salem.
Forse non c’era nemmeno bisogno di
aggiungere la parola “Streitschrift”. Sin dalla
prima pagina, dove si legge “dell’educazione
sono andate perse da tempo le fondamenta:
il riconoscimento incondizionato dell’autorità
e della disciplina”, il libro prometteva
un dibattito al calor bianco. E visti
i fiumi di parole pro e contro scritti in proposito,
lo stesso Economist l’ha citato in un
pezzo sulla rinascita di un “sentimento neoconservatore”
in Germania.
“Guidare o lasciar crescere, questi sono i
due poli antitetici dell’educazione – ragiona
l’autore – Dopo l’esperienza di un’educazione
autoritaria sfociata in una dittatura, abbiamo
voluto diventare una nazione di giardinieri.
Lasciamo crescere liberamente i nostri
figli e solo di tanto in tanto interveniamo
con estrema cautela. Ma questo metodo rischia
di non educare affatto. L’esempio giusto
è invece quello del vasaio che modella e
dà forme precise”. All’origine di questa
mancanza di coraggio a educare, questo il titolo
di uno dei capitoli, la generazione del
Sessantotto che ha gettato alle ortiche lo
Struwwelpeter (Pierino Porcospino) e regalato
ai figli “Pippi Calzelunghe”. Sbagliato,
sbagliatissimo, sentenzia ora Bueb. “E’ vero
la disciplina rappresenta tutto quello che le
persone detestano: costrizione, subordinazione,
rinuncia. La disciplina è il figlio sgradito
della pedagogia, ma alla base di ogni
educazione”. Perché solo attraverso la disciplina,
di questo Bueb è convinto, si raggiunge
una vera libertà interiore. I genitori,
gli insegnanti hanno potere e lo devono
esercitare, affiancandolo, ben inteso, all’amore
perché il potere si trasformi in autorità
legittima. Quello a cui si assiste oggi è
invece un paradosso: “Abbiamo democratizzato
la vita dei bambini e dei ragazzi più di
quella degli adulti, i quali al lavoro sono tenuti
a sottomettersi al superiore”. Secondo
Bueb non c’è bisogno di un patentino che attesti
l’idoneità a fare i genitori o eserciti di
supertate professioniste, ma semplicemente
di ridare peso alle virtù secondarie: ubbidienza,
puntualità, ordine “di per sé non sono
valori, ma aiutano a raggiungere le vere
virtù, e cioè giustizia, libertà e onestà”. Ai tedeschi,
stando alle copie vendute, la ricetta
pare piacere.

Sunday, November 12, 2006

Un punto di vista interessante

Dal Manifesto dell'11 novembre:
Nel dibattito sulla situazione economica italiana Michele Salvati (Corriere della Sera, 25 settembre) ha formulato un'obiezione, seria, alle posizioni della sinistra radicale, cui si deve dare risposta. Né la finanza pubblica né il Patto di stabilità sono il vero problema, lo sono la competitività che si deteriora e la produttività decrescente. La contrazione fiscale non ci è perciò imposta dall'esterno. Va assunta di buon grado per imporre, non il risanamento finanziario in sé e per sé, ma la bonifica della struttura economica reale del paese e uno snellimento del settore pubblico in nome dell'efficienza. Da questo punto di vista, limitarsi a richiedere una Finanziaria meno restrittiva e lasciare nel vago in cosa consisterebbero una diversa politica industriale e una diversa politica di sviluppo renderebbe poco credibile la sinistra radicale. Un mese dopo Martin Wolf sul Financial Times (25 ottobre) formula una diagnosi complementare, in larga misura condivisibile. Non è il costo del lavoro il problema, ma appunto la bassa produttività. La più bassa inflazione consente alla Germania una deflazione competitiva che perpetua il modello neomercantilista che ci vede perdenti. In termini reali le esportazioni italiane di beni e servizi ristagnano dal 2000, e il disavanzo con l'estero si incancrenisce. La bassa capacità di esportazione si accompagna a un livello ridotto di partecipazione al mercato del lavoro, come a un profilo di specializzazione internazionale dell'Italia medio-basso in termini di tecnologia, vulnerabile alla concorrenza dei paesi asiatici. Wolf segnala pure da tempo il rischio a medio termine di un aumento dei tassi di interesse a lunga per le possibili tensioni future, soprattutto tra Usa e Cina, sul finanziamento del doppio disavanzo americano. I tassi europei, e con loro lo spread tra quelli italiani e altri paesi europei, salirebbero: qualcosa che impone cautela sui conti pubblici.
La cura di Wolf è singolare ma intelligente, al di là delle apparenze. Non solo tagli di spesa, ma spingere a lavorare di più gli italiani ovunque, aumentando così il Pil; licenziamenti e innovazioni di prodotto per alzare la produttività nei settori per l'esportazione. Wolf non trascura il problema della domanda effettiva. La risposta è omogenea al modello anglosassone cui si sta adeguando, a suo modo, l'Europa continentale: spingere le famiglie a indebitarsi in modo comparabile con i paesi europei e il resto del mondo - dal 1995 a oggi le famiglie italiane hanno già quasi raddoppiato il loro indebitamento. La logica è trasparente. Mantenere il lavoratore «spaventato», comprimendo il salario e frammentando il lavoro. Tramite il continuo allarmismo sulle pensioni (il risparmiatore «terrorizzato») risucchiare nei fondi pensione il Tfr, e costringere a un maggiore e più lungo tempo di lavoro sociale. Sostenere infine la realizzazione monetaria del profitto dal lato del consumatore «indebitato», che il lavoro deve accettarlo così com'è. Sono argomenti seri e processi pericolosi, del tutto in linea con la via «alta» alla produttività del «nuovo» capitalismo e la sua politica monetaria di complemento, ammorbiditi magari con sussidi al reddito. Vorremmo suggerire un inizio di risposta che non si fermi al pur necessario contro-argomento macroeconomico, ma consideri anche le dinamiche strutturali, e dia qualche esempio di politica industriale come parte di una risposta alternativa di politica economica.
Siamo in presenza di una inaudita centralizzazione del capitale, mediata da una finanziarizzazione esasperata. Non vi si accompagna una crescente concentrazione in unità produttive più grandi di masse di lavoratori omogenei: semmai una riduzione dell'unità tecnica di produzione e una destrutturazione del lavoro. L'accresciuta concorrenza «globale» innesca ovunque una trasformazione generale. Anche l'Italia vive una situazione di crisi, ristrutturazione e riposizionamento dell'industria italiana, con perdenti e vincenti: ma anche i vincenti sono in posizione subordinata nella filiera produttiva integrata. L'azienda «focale» della filiera concentra l'essenziale del know-how e del controllo strategico del processo, e scarica gli oneri delle restanti parti del processo produttivo su altre aziende. Il mercato del lavoro si segmenta di conseguenza quanto a tutele, salari, formazione, e così via. A un certo punto scatta una soluzione di continuità tra insider e outsider, in una generale incertezza che colpisce tutti. Per questo anche, in Europa, il contratto nazionale è sotto attacco. Processi analoghi investono tutte le attività economiche e il settore pubblico.
Se la precarizzazione del lavoro non è medicina universale, anzi le imprese più significative vi fanno modesto ricorso, è però componente importante di tutti i cicli produttivi. Dal punto di vista macrosociale, avanzamento tecnologico e precarizzazione del lavoro (nativo e migrante) sono facce della stessa medaglia.
All'Italia, in particolare, manca un centro strategico e egemonico. In nessun settore, vecchio o nuovo, ha una leadership europea. Non solo per il prevalere di aziende piccole e piccolissime, ma anche per l'assenza di grandi aziende nazionali fortemente internazionalizzate. La grande industria, le concentrazioni bancarie, le strutture chiave della distribuzione commerciale, alcune grandi aziende fornitrici di servizi di pubblica utilità vengono ridimensionate e acquisite da grandi gruppi globali. La parte più avanzata del Nord e del Centro sta diventando risorsa manifatturiera specializzata di servizio per grandi imprese tedesche e francesi. Ovunque gli interessi si sfarinano e le coalizioni sociali si frammentano, con derive regressive.
Una via di uscita passa per una nuova politica industriale, che riequilibri le esportazioni di prodotti tradizionali, e dia vita a un'innovazione profonda della gamma di prodotti. Ma, contro Wolf e Salvati, ciò richiede: 1. un grande impegno finanziario di chi solo lo può garantire come stabile e credibile, lo Stato; 2. un impulso massiccio, deciso e concentrato nel tempo, come richiede ogni intervento che voglia cambiare una traiettoria iscritta nel passato; 3. l'accortezza di sfruttare ora quella finestra di stabilità dei tassi di interesse che non è garantita a medio termine, per l'incerto quadro globale; 4. di individuare le grandi domande inevase della società italiana e europea, qualcosa che solo la politica e la società possono individuare con un'ottica di lungo termine; 5. di definire risposte adeguate che il mercato da solo non è in grado di vedere, per la sua costitutiva miopia; 6. di partire dai punti dove massima e virtuosa può essere l'interconnessione tra questioni economiche, ecologiche, sociali.
Ci limiteremo a un cenno solo sulla questione emblematica della mobilità sostenibile: dai nuovi motori, alla gestione via Ict del traffico nei grandi centri metropolitani, sino alla costruzione di nuovi mezzi di mobilità urbana. Riorientare una parte della capacità produttiva esistente e non utilizzata verso la risoluzione di questo problema è una politica industriale che richiede forte integrazione tra politiche pubbliche nazionali e a scala europea, come anche l'iniziativa privata delle imprese. Ma ragionamenti analoghi si possono sviluppare per l'energia, per l'acqua, per l'istruzione, etc.: cioè per una serie di beni/servizi di natura pubblica o semipubblica che possono diventare il quadro di riferimento di una nuova classe di prodotti/servizi. In questa logica, il lavoro non può costitutivamente essere precario e mal pagato.
Il nostro è un suggerimento, ribadiamo, iniziale, va certamente affinato. E' però, ne siamo convinti, solo prendendo questa strada, e mettendo in campo una nuova capacità di conflitto sociale autonomo, che la sinistra radicale potrà evitare di limitarsi a mettere le note a fondo pagina di politiche social-liberiste.

Friday, November 03, 2006

E questi non sono come e peggio degli evasori fiscali, che almeno lavorano?

Una maestra guadagna all'incirca 1.200 euro al mese. Come un operaio metalmeccanico, che però arriva a questa cifra solo con gli straordinari alla catena di montaggio. La differenza tra i due è che la prima, in un anno lavora, all'incirca 1.200 ore, in fabbrica per portare a casa lo stesso stipendio invece ne servono anche 500-600 in più. Dipende dai settori. Nel pubblico impiego le 36 ore alla settimana sono uno standard fisso da anni, nell'industria invece se ne lavorano 2-3 in più. Ecco la prima grande differenza. Le ferie? Almeno queste sono uguali per tutti, 24 giorni. Ma i maligni possono sempre dire: «Tanto quelli anche quando stanno al lavoro non fanno nulla!».

Il solco vero, tra pubblico e privato, comunque è rappresentato dagli orari e, negli ultimi tempi, anche dai differenti trattamenti salariali. La produttività invece rimane un capitolo oscuro: finora nessuno è riuscito (o ha voluto) misurarla. Ma andiamo per ordine. Stando agli orari contrattuali nell'industria si lavorano in media 1.736 ore l'anno, con differenze impercettibili da un settore all'altro. Nell'ambito pubblico, invece, è una vera cuccagna: la media del comparto «Stato» a fine 2000 era infatti pari a 1.361 ore, coi ministeriali ed i dipendenti delle Regioni che ne lavoravano 1.588, la Sanità 1.609, l'università 1.283, mentre la scuola crolla a 1.170.

E gli stipendi? Dall'accordo del 1993 salari pubblici e privati sono rigidamente ancorati al costo della vita, ma molti dati dicono il contrario. Le ultime cifre diffuse dall'Istat, ad esempio, segnalano che ad agosto 2006, a fronte di un'inflazione pari al 2,2%, i salari dei lavoratori italiani sono saliti del 2,9%. Ma mentre industria (+3%), chimica (+3,3%) ed edilizia (+2,8%) sono stati più o meno nella media, la pubblica amministrazione ha messo a segno un +5%, addirittura +5,5% i ministeri, +6% le Regioni e +5,9% la sanità. Solo militari (+,9%) e Forze dell'ordine (+1,2) hanno dovuto tirare la cinghia. Nel 1995 un lavoratore del settore privato costava in media 25.500 euro l’anno (25.460 euro nell’industria e 25.540 nei servizi) e in 10 anni è arrivato a quota 33-34.400, con aumenti rispettivamente nell’ordine del 29,9 e del 34,7%. I dipendenti pubblici sono invece partiti da 26.940 euro ed in 10 anni hanno raggiunto quota 40.620. Con un balzo del 50,78%. Secondo un studio pubblicato sul sito «la voce.info», se a questi dipendenti fossero stati applicati gli aumenti concessi ai colleghi dell'industria e de servizi non sarebbero andati oltre i 34-34.600 euro. E soprattutto in 10 anni lo Stato avrebbe risparmiato tra i 129 ed i 144 miliardi di euro.

Qualcosa come il 9-10% del Prodotto interno lordo, oppure tre manovre-monstre come quella di quest'anno. «Attenzione a non generalizzare troppo - avverte Paolo Nerozzi della segreteria nazionale della Cgil -. I numeri vanno guardati con attenzione, non si può prendere un anno a caso, ma occorre considerare i trienni contrattuali altrimenti è tutto falsato». E tanta disparità coi privati come si spiega? Secondo i sindacati innanzitutto con salari di partenza più bassi. E poi sarà anche vero che i pubblici lavorano meno ore, ma ad esempio il loro Tfr in valore assoluto è pari alla metà di quello privato. Al di là della demagogia, il tiro sui lavoratori pubblici resta un gioco facile. Non a caso negli ultimi tempi ha riscosso un grande successo la campagna «per cacciare i fannulloni» lanciata dalle colonne del «Corriere» da Pietro Ichino, grande esperto di diritto del lavoro. Cgil, Cisl e Uil hanno subito gridato al linciaggio, ma alla fine anche il presidente del Consiglio Romano Prodi ha dovuto ammettere che «non possiamo permetterci di avere degli intoccabili». Il problema, in effetti, esiste: come dice Ichino nella giurisprudenza degli ultimi 10 anni non c'è un solo caso di dipendente pubblico licenziato. Impossibile farlo? No, lo prevede esplicitamente una legge che risale addirittura al 1957, ma certamente è molto complicato. Nemmeno se vieni sorpreso a rubare vieni cacciato, e poi mancano criteri precisi (e anche la volontà politica) per valutare la qualità del lavoro svolto. Nel settore privato la produttività di un lavoratore alla fine si può desumere dal prezzo dei beni o dei servizi che concorre a produrre o a fornire.

Nel settore pubblico lo stesso procedimento non può funzionare, perché beni e servizi non sono destinati alla vendita. Che parametri oggettivi si possono applicare, ad esempio, per valutare la produttività di un professore universitario oppure di un usciere? Altro tormentone ricorrente: i dipendenti pubblici non solo non fanno nulla ma sono troppi. Qui, le statistiche, danno ragione a chi difende i travet: rispetto alla popolazione ed al Pil molti paesi in Europa hanno valori più alti dei nostri. La Francia, ad esempio, su 58 milioni di abitanti ha ben 5,4 milioni di dipendenti pubblici (pari al 9,3% della popolazione) e per loro spende il 14,6% del Pil. Noi ci fermiamo a 3,4 milioni, ovvero il 6% della popolazione con un costo pari all'11% del prodotto interno lordo. Semmai sono distribuiti male: dalla riforma Bassanini ad oggi sono stati infatti appena 22 mila quelli che hanno accettato di cambiare posto di lavoro e a volte anche città. Una goccia in un mare, un mare di sprechi e di inefficienze.
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