Saturday, September 30, 2006

La scuola italiana ed il suo fallimento

In occasione dell'approvazione della finanziaria, un autentica oscenità per chiunque abbia a cuore il riformismo in questo paese, ostaggio com'è del massimalismo di rifondazione e delle clientele di tutti gli altri, ecco un bell'intervento sul foglio sullo stato della scuola in Italia.
Il tentativo del ministro dell’Economia di racimolare qualche risparmio anche sulla spesa dedicata all’istruzione ha suscitato una reazione colossale, che l’ha costretto all’ennesima ingloriosa ritirata.
Quelli che chiedono di spendere di più nella scuola pubblica hanno vinto, come sempre, ma in realtà l’organizzazione scolastica italiana è una specie di buco nero, che assorbe risorse crescenti producendo risultati sempre meno convincenti. I dati di fondo sono noti: in Italia c’è il maggior numero di insegnanti per addetto fra i grandi paesi industrializzati, e un livello dell’istruzione degli studenti tra i più bassi. Inoltre, al crescere del livello di studi, decresce il risultato ottenuto,che è passabile solo nelle elementari, diventa scarso nella media inferiore, pessimo in quella superiore, per non parlare dell’università, che perde per strada la maggior parte degli iscritti senza che conseguano la laurea. La corporazione scolastica, che si è consolidata come accade sempre in un sistema nel quale non esiste competizione, rifiuta ogni riforma che punti a ricostruire una relazione di efficacia tra la scuola e la società produttiva. Questo obiettivo, con la benedizione dell’attuale ministro della Pubblica istruzione, è stato condannato come aziendalistico o, peggio ancora, efficientistico. Per chi la domina, la scuola non deve rispondere alle esigenze del paese, ma restare se stessa, una “comunità in cammino”, come dice retoricamente il ministro Giuseppe Fioroni, anche se nessuno sa dove vada. La radice dell’inefficienza della scuola italiana è l’assoluta assenza di concorrenza e di valutazione della qualità del “prodotto”. Non si tratta solo della concorrenza tra pubblico e privato, azzoppata dalla inapplicazione dei principi della parità scolastica, ma anche della mancanza di competizione tra istituti pubblici, che non ha senso se non produce alcun esito per chi ottiene risultati migliori. In questo clima di burocrazia dominata dalle corporazioni sindacali, anche gli sforzi degli insegnanti volonterosi, che non mancano, vengono frustrati. In questo modo, peraltro, si viola la sostanza del diritto allo studio, perché la formazione che si offre non è in grado di fornire un bagaglio di conoscenze adatto alla competizione che esiste nel mondo del lavoro, naturalmente a svantaggio di chi proviene dai ceti meno abbienti. E’ giusto che un paese investa nella scuola per preparare il proprio futuro, ma farlo senza riformarla profondamente significa finanziare non l’istruzione ma la burocrazia corporativa.

Friday, September 22, 2006

Al tg si dovrebbe parlare di questo....

Eolo corre in soccorso al clima, articolo sul manifesto

Se il chilowatt più pulito è quello non consumato -il primo giacimento di energia pulita è davvero l'efficienza e il risparmio - certamente ogni chilowatt prodotto con il sole o il vento evita l'emissione in atmosfera di diversi ettogrammi di anidride carbonica. Abbattere le emissioni di gas serra del 50% da qui al 2050 è considerato dagli scienziati il minimo per contenere l'aumento della temperatura terrestre al di sotto di quei due gradi centigradi superare i quali sarebbe fatale. Per arrivare a quest'obiettivo necessario ma lontanissimo occorre puntare con determinazione sull'energia eolica, secondo il rapporto Global Wind Energy Outlook diffuso ieri in Australia da Greenpeace e dal Global Wind Energy Council (Gwec), l'associazione che raggruppa circa 1.500 società e istituzioni in 50 paesi, fra cui i maggiori produttori di turbine eoliche.
Il mercato globale del settore si sta espandendo. In dieci anni, fra il 1995 e il 2005, è cresciuto di dodici volte fino a raggiungere i 59.000 Megawatt alla fine del 2005; è così che i costi di produzione sono scesi in modo significativo. E' anche un bel giro di affari (per il 2006 stimato pari a 13 miliardi di dollari) e quel che più conta crea posti di lavoro: già 150mila occupati in giro per il mondo. Ormai in alcuni paesi la porzione di elettricità prodotta con l'energia eolica sfida le fonti convenzionali. I paesi che hanno maggiormente investito nell'eolico sono Germania, Spagna, India e Danimarca (viene dal vento il 20 per cento dell'elettricità prodotta); segni interessanti vengono da Gran Bretagna, Portogallo, Giappone, Cina, Paesi Bassi e Italia.
Ma, sempre secondo il rapporto, si può fare molto di più e bisogna accelerare; il fabbisogno totale di energia al trend attuale potrebbe crescere del 60% da qui al 2030, secondo l'International Energy Agency (Iea). Fino al 34% dell'energia elettrica mondiale potrebbe realisticamente essere fornito dalle pale entro la metà di questo secolo. Naturalmente il consumo di energia elettrica - comprendente gli usi industriali - è una (rilevante) frazione del consumo globale di energia; rimangono poi il voracissimo e sempre in crescita settore dei trasporti e l'energia per usi termici. Ma anche così, arrivare a produrre con il vento oltre un terzo dell'elettricità globale entro il 2050 significherebbe risparmiare, da qui ad allora, 113 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. E aggiungere dai 480mila ai due milioni di posti di lavoro.
Come arrivare a questo 34 per cento? Il rapporto contiene proposte precise per le politiche nazionali e internazionali. Le prime sono così riassumibili: stabilire, per le energie rinnovabili, obiettivi di crescita vincolanti e non solo auspicabili; operare affinché il prezzo delle energie rinnovabili permetta un ritorno dei rischi quantomeno paragonabile alle altre opzioni; riformare i mercati dell'energia elettrica per rimuovere le barriere alle rinnovabili; eliminare le distorsioni quali in primo luogo i sussidi alle fonti fossili e al nucleare; internalizzare i costi sociali ed ecologici delle forme inquinanti di energia. Quanto alle proposte internazionali: fissare e rendere operativi obiettivi di riduzione delle emissioni anche post-2012 (data di «scadenza» del Protocollo di Kyoto); riformare le operazioni delle agenzie di credito alle esportazioni, delle banche di sviluppo multilaterali e delle istituzioni finanziarie internazionali così da assicurare che una percentuale obbligatoria e crescente dei prestiti vada al finanziamento delle rinnovabili; e via via (ma in fretta) non finanziare più i progetti energetici convenzionali e inquinanti; come invece la Banca mondiale continua a fare, v. terra terra dell'8 settembre 2006.
Naturalmente, non si possono trascurare le obiezioni ambientaliste alla proliferazione di pale eoliche. E il rapporto cerca di affrontare l'impatto visivo, acustico e sulla fauna selvatica locale e migratoria. Non molte parole, invero. L'impatto visivo è considerato controverso (per alcuni le pale sono brutte, per altri «possono essere il simbolo di un futuro meno inquinato». Quanto al rumore: «rispetto al traffico e alle fonti industriali, il suono è generalmente basso», e soprattutto le installazioni vanno poste a distanza dalle abitazioni, oltre a cercare di migliorare il design e l'isolamento. Infine, quanto agli uccelli (disturbati nei loro habitat e uccisi nelle collisioni con le pale), scrive il rapporto che il tasso medio di collisione da studi in Europa e Usa è pari a due animali per turbina l'anno e «ne ammazzano di più i pesticidi, le linee elettriche e le automobili». E' vero. Ma è anche vero che i problemi di impatto richiedono molta attenzione, anche quando si tratta di energie alternative. E che anche nell'eolico, piccolo (e più basso) sarebbe più bello.

Monday, September 18, 2006

Ma lo scopo di un sistema economico...

.....non era quello di generare felicità sempre crescente, ed a questo scopo non sarebbe bastato soltanto l'intervento regolatore del mercato? Come da articolo sul Manifesto leggiamo che dal 2001, in soli quattro anni, la quota dei salari sul reddito è scesa di cinque punti, passando dal 50 al 45 per cento. Tutti gli aumenti della produttività sono andati ai profitti.
Dal 2001 ad oggi i salari in America sono passati dal 50% del Pil al 45% e la condizione dei lavoratori non ha subito un tracollo solo perché le spese per i benefit da parte delle aziende (pensioni e sanità) sono cresciute nella medesima proporzione della crescita del Pil. Di contro la rendita e soprattutto i profitti delle imprese sono cresciuti del 5%. Soprattutto i profitti perché la produttività negli ultimi 5 anni è cresciuta del 16,7% e i salari solo del 7,5%.
Da quando si registrano questi dati, cioè dal 1947 è la più forte contrazione del peso dei salari mai avvenuta. Ovviamente,tanto negli Usa che nei paesi Ocse non tutti i settori godono del vento in poppa e non tutte le aree geografiche. Da qui anche le tensioni politiche. Ma anche un fenomeno che preoccupa i dirigenti dei grandi istituti finanziari: la caduta di aspettative dei cittadini,della massa dei cittadini.
Quasi a confermare le loro preoccupazioni è arrivato una studio della Afl-Cio il sindacato americano.I salariati Usa per il 70% ritengono che la loro condizione di vita sia peggiorata negli ultimi tre anni. Questo nonostante gli aumenti salariali programmati che se pur consistenti non coprono il rialzo dei prezzi Non solo: il bilancio familiare quadra solo se un altro membro della famiglia vi contribuisce in modo parziale. In parole povere se in famiglia entrano due redditi si salva il proprio tenore di vita, altrimenti si scende nella scala dei consumi.
Diversa è la condizione del ceto medio-alto, cioè di quella parte di lavoratori che può godere di una entrata derivante da una rendita, sia essa dovuta a titoli o a proprietà immobiliari. Non vale per tutti. Anche qui entrano diversi fattori, soprattutto per l'immobiliare ma questa parte di lavoratori ha potuto conservare il proprio tenore di vita. C'e' poi un 30% di salariati che pensa di stare meglio. Sono tutti impiegati nelle aziende che producono le nuove tecnologie, che fanno ricerca nei settori della biotecnologia,per l'informatica. Per questo genere di lavoratore le opportunità in Usa hanno permesso un balzo salariale nonostante la crisi che ha colpito la Silicon Valley a partire dal 2000.

Sunday, September 17, 2006

Il ruolo dell'etanolo, la lunga strada per liberarci dagli arabi...

Articolo di Ugo Bertone per il Foglio:


No, non illudetevi perché il prezzo del greggio scivola giù dalle vette toccate in estate: l’età del petrolio abbondante volge al termine, comunque vada il negoziato con Teheran. E presto saranno dolori. I seguaci del “peak oil”, ultima religione dei mercati finanziari, si sono ritrovati l’estate scorsa, nella campagna toscana. Lì, a due passi dalla Torre di Pisa, ambientalisti estremi e gestori di hedge fund come l’olandese Willem Kadijk (che si accinge a lanciare un hedge basato su titoli antipanico) hanno recitato la loro profezia. Presto, hanno ripetuto, nonostante gli sforzi dei geologi, i pozzi renderanno sempre meno. E il mondo, visto da una pompa di benzina a secco, sarà davvero un brutto posto dove le visioni più apocalittiche diventeranno realtà. Anche quella di James Howard Kunstler, profeta travestito da geologo: anche Las Vegas, scrive Kunstler, sparirà quando i distributori chiuderanno i battenti. La Sodoma e Gomorra dei nostri giorni campa grazie all’aria condizionata a manetta, alle autostrade a otto corsie e ai viaggi aerei. Cioè, grazie al petrolio abbondante e a basso costo, privilegio destinato ad esaurirsi nel giro di pochi decenni, se non di anni. Preparatevi, si legge nel suo libro-testamento, “The long emergency”, ad un futuro in cui per muoversi da una periferia desolata, circondata da supermercati svuotati di merci cinesi (e non solo) ci vorranno giorni e tanto coraggio: perché un mondo improvvisamente svuotato di petrolio sarà un mondo più pericoloso, popolato di Blade Runner come nel romanzo di Philip K. Dick. La profezia ha fatto presa: da 18 mesi il libro di Kunstler figura nella classifica dei top 1000 di Amazon.com. Nello stesso periodo si sono già formati su Internet ottantadue gruppi con circa duemila membri organizzati attraverso Meetup.com, il portale nato per discutere il problema. O organizzare letture collettive di un altro “mostro sacro” del popolo dei “peak oil”, un predicatore che tiene dibattiti, ben retruibiti, alla City: Colin Campbell, geologo laureato ad Oxford, 40 anni di lavoro nell’industria Per alimentare un decimo delle macchine americane servirebbe un terzo dell’attuale produzione di zucchero e cereali negli Stati Uniti. Nel suo bestseller “The Coming Oil Crisis” sostiene che ormai è troppo tardi: il petrolio finirà prima che emerga una qualche convincente forma di alternativa energetica. Non tutti sono così pessimisti di fronte al pericolo del greggio energetico. Nella palestra del futuro vale pure l’immagine muscolare che viene dal governatore della California, Arnold Schwarzenegger, uno che di muscoli se ne intende. “Credo ci voglia un grosso sforzo
– ha detto – per consumare di meno ma ce la possiamo fare. Come non lo so, ma una cosa mi è chiara: se voglio perdere dieci chili entro l’estate devo darmi da fare in palestra. Certo, in quel caso il grasso protesta: non mi attaccare, io ti voglio bene. Ora sono le compagnie petrolifere a protestare. Fanno il loro mestiere”. Così Schwarzy, alla ricerca di una causa popolare e vincente, si schiera in vista del referendum di novembre, quando i cittadini della California dovranno pronunciarsi sulla “Proposition 87”, che prevede di imporre una tassa di estrazione su ogni barile che le compagnie petrolifere tirano fuori dai pozzi dello stato per un gettito, si prevede, di almeno quattro miliardi di dollari che, secondo il comitato che ha lanciato la proposta, dovranno essere spesi per incentivare l’uso dei carburanti alternativi. Una calamità, dicono naturalmente le Big Oil (Chevron, ExxonMobil, Shell e Occidental Petroleum) che, per scongiurare l’imposta, si sono tassate per 30 milioni di dollari per finanziare la campagna per il no. E c’è chi sospetta che la grande scoperta petrolifera di Chevron nel Golfo del Messico, annunciata con grande enfasi in settimana, sia una mossa pubblicitaria per migliorare l’immagine, pessima, delle Big Oil presso l’opinione pubblica Usa. Sul fronte dei nemici dei petrolieri, a sostegno del referendum, ci sono infatti nomi importanti: gente del cinema, come il produttore Stephen Bing, venture capitalist di Silicon Valley come John Doerr o Vinod Khosla, uno dei pionieri della new economy, tra i fondatori nel 1982 di Sun Microsystems e il primo a credere a suo tempo in Amazon o in Netscape, il navigatore da cui nacque Aol. Oggi, per lui, indiano di Phuna, come per i compagni di cordata, la nuova “ Big Thing” non passa dalla Grande Rete o da un chip. Ma dall’etanolo, ovvero dal carburante estratto dai cereali o dallo zucchero che, fino al 2012, potrà godere di incentivi governativi che lo rendono competitivo rispetto ai carburanti tradizionali. La scommessa, insomma, è di migliorare, entro cinque anni, tecniche e carburanti al punto da sfidare la concorrenza del petrolio. Purché, naturalmente, il prezzo del petrolio si mantenga alto, almeno sopra i 50 dollari. Altrimenti, il risveglio sarà amaro. L’indiano di Silicon Valley, uno che ha saputo ai tempi trasformare gli otto milioni affidatigli dai banchieri di San Francisco in due miliardi di dollari sonanti, sa però che la partita non si giocherà in laboratorio. In palio ci sono tanti soldi ma, più ancora la sicurezza nazionale. E non a caso l’indiano che ama l’etanolo ha arruolato un luogotenente d’eccezione: R. James Woolsey, 65 anni, già direttore della Cia tra il ’93 e il ’95. Chi meglio di lui per spiegare al Congresso che non si può star con le mani in mano in attesa di
una congiura di palazzo a Riyad o di un blitz dei pasdaran di Ahmadinejad. Khosla, nella sua battaglia per l’etanolo, è in buona compagnia: lo stesso Bill Gates ha investito nella Pacific Ethanol, di cui oggi è l’azionista numero uno. Certo, per uno come lui, un’operazione da 87 milioni di dollari (tanto c’è voluto per diventare l’azionista numero uno dell’azienda , per cui lui ha grandi ambizioni) è ben poca cosa. Ma la tendenza è chiara: l’America che ha vinto la sfida della produttività grazie al software e al Web accetta la sfida dell’energia. A suon di dollari, di venture capital, di speculazioni in Borsa e fuori. Con qualche sorpresa. Indovinate, ad esempio, chi ha finanziato (600 milioni di dollari) il prototipo della Tesla Roadstar, la prima auto elettrica con prestazioni degne di una Ferrari: da zero a 90 all’ora in quattro secondi, 200 all’ora la velocità massima, più di 340 dopo una ricarica supplementare. Si tratta nientemeno che di Larry Page e Sergej Brin, i due fondatori di Google, assieme ad una schiera di top manager di eBay e Pay-Pal. Anche loro, a modo loro, sono coinvolti nel grande rodeo dell’energia, la partita più globale che ci sia, la palestra per scienziati visionari, spie in pensione, tecnologi visionari e finanzieri a caccia della grande avventura.
La realtà è che si parla molto, come è giusto, degli scenari politici o strategici provocati dal caro greggio. E ancor di più si tenta di indovinare il giusto prezzo dell’oro nero, districandosi a breve tra le mosse di Caracas o di Teheran, oppure, a medio-lungo termine, tra le previsioni dei catastrofisti che annunciano la fine del petrolio (il “peak oil”, cioè il massimo della produzione è giàstato toccato per qualcuno, per altri lo sarà entro il 2010) e quelli che, come Leonardo Maugeri, brillante testa d’uovo dell’Eni che gode di audience mondiale, ci rassicura ricordandoci come in Iraq, dall’inizio del XX secolo, sono stati trivellati solo 2.500 pozzi contro un milione circa in Texas, a dimostrazione che il medio oriente (ma non solo) può darci ancora tante sorprese e preziosi barili (ce ne sono almeno 2.000 milioni di miliardi, il doppio di quanto prodotto finora secondo lo Us Geological Survey). Ma si parla poco degli effetti che la stagione dei rialzi sta provocando risvegliando ricerche vecchie e sepolte o eccitando nuovi appetiti in questa corsa alla pietra filosofale del XXI secolo che si svolge in tanti, spesso inattesi palcoscenici, talora frutto inatteso di una storia che arriva da lontano. Il film della moderna alchimia può cominciare dai laboratori del Mit, dove Gregory Stephanopoulos, docente di Ingegneria chimica, “allena” i microbi che dovranno trasformare le biomasse in etanolo da mettere nel motore. Anche questa, come spesso capita nella storia dell’innovazione (vi ricordate l’origine di Internet) è una storia che nasce dall’incrocio tra le esigenze del Pentagono e la genialità degli scienziati. Tutto comincia, infatti, nel 1950 quando l’esercito americano incarica un microbiologo, Elwyn T. Reese, di trovare un modo per annientare uno strano fungo tropicale che si era letteralmente mangiato le uniformi dei marine a Guadalcanal. Ma Reese si guardò bene dal fare il killer, convincendo Washington che era assai più sensato cercare di capire quali enzimi permettevano al fungo di spezzare le strutture molecolari dei tessuti o della cellulosa liberando cellule di zucchero. Da allora le ricerche sono andate avanti, con alterna fortuna e interesse. Fino ad oggi. Ora, infatti, quel microbo può cambiare il mondo, cancellando buona parte degli handicap che frenano lo sviluppo dell’etanolo. Per alimentare un decimo del parco macchine americano, infatti,sarebbe necessario un terzo dell’attuale produzione di cereali Usa. E il discorso è ancora più complicato per l’Europa: per sostituire il 5,75 per cento del carburante usato nella Ue, occorre il 19 per cento della superficie arabile dell’Unione europea. Tutto potrebbe cambiare, però, se il nostro microbo fosse in grado di trasformare in zucchero da carburante tutti gli scarti del grano o di altre biomasse. A crederci sono in tanti, almeno in trenta. E tra questi c’è la Iogen , una società dello Iowa che già oggi produce etanolo da cellulosa, ma ancora a prezzi troppo elevati. Ma attenzione. In Iogen, benedetta dai programmi dello stesso George W. Bush, c’è nientemeno che Goldman Sachs, il colosso delle banche d’affari Usa. E a volere un forte investimento della banca nel settore è stato nientemeno che Henry Hank Paulson, oggi segretario del Tesoro a Washington. Non è certo l’unico caso di matrimonio tra Wall Street e l’ecocombustibile. Anzi, la storia di maggior successo l’ha scritta finora un giovane banchiere di Morgan Stanley, Leigh Abramson, oggi 37 anni. Quando Abramson, laureato in storia all’Amherst Institute è approdato a Peoria, Illinois, per studiare un’eventuale acquisto (a mo’ di garanzia) di una quota della Aventine Renewable Energy, non sapeva nemmeno cosa fosse l’Mtbe, il biocombustibile prodotto da metanolo di sintesi. Ma il prezzo era buono , il venditore, travolto dallo scandalo Enron, costretto a vendere a meno della metà del costo sostenuto per trasformare un vecchio zuccherificio in un impianto per la benzina verde. E dopo otto mesi di clausura a Pekin, Illinois, Abramson convinse i superiori a sospendere i 66 milioni richiesti: oggi Aventine vale in Borsa poco meno di 800 milioni di dollari. Storie di soldi, oltre che di tecnologia. Come quella della Platinum Energy Resources di Houston, fondata da Barry Kostiner, 34 anni, faccia d’angelo, fegato d’acciaio. Di petrolio, confessa, ne sa poco. Ma con una laurea in matematica del Mit in saccoccia, Kostiner ha capito che la fortuna saprà arridere a chi troverà il sistema di far fruttare in quattrini sonanti il greggio che sta ancora sottoterra. E ha inventato un sistema niente male: lo Spac (special purpose acquisition company). Si tratta di società in cui si investe senza sapere come e dove i quattrini verranno investiti. Solo in un secondo momento, il finanziere sceglierà la “preda” (con l’assenso di un comitato di garanti). In questo modo Kostiner ha raccolto più di 100 milioni di dollari al Pink Sheets, il mercato più speculativo tra le Borse Usa, dove, dice la Sec, “sono quotate le società più rischiose”e li ha in vestiti in una piccola società petrolifera, la Tandem Energy che possiede alcune vecchie concessioni mai sfruttare in Texas. Sembra la storia di James Dean nel “Gigante”: speriamo che Kostiner non si sfracelli pure lui sulle strade del Texas. Difficile trovare un matematico altrettanto simpatico. Ma guai a pensare che la corsa al Santo Graal dell’energia pulita sia cosa appannaggio solo di università Usa o di centri di potere della finanza Usa. Certo, alla caccia grossa partecipano gli scienziati che hanno fatto gavetta nell’amministrazione militare. Come Erik Straser, solo 36 anni ma un passato ai segretissimi National laboratory di Los Alamos lasciati per sviluppare, con i quattrini raccolti dal solito venture capitalist batterie ad energia solare. Ma la soluzione può venire dal carbone ripulito secondo i procedimenti studiati dagli scandinavi della Vattenfall. O nascondersi nella savana di Secunda, a due ore e mezza di jeep da Johannesbugh dove i moderni alchimisti della Sasol trasformano il carbone in carburante. Non stupisca la scoperta di un Sud Africa ad alta tecnologia. Per decenni gli scienziati hanno scartato, perché troppo costosa, la pista della trasformazione del carbone in benzina o gasolio. Ma il Sud Africa dell’apartheid, colpito dall’embargo dell’Opec, negli anni Settanta ha investito una fortuna (sei miliardi di dollari dell’epoca), per procurarsi il carburante. Oggi, a questi prezzi, quell’investimento si è rivelato una fortuna. E Sasol ha appena chiuso un contratto monstre con la Cina: 27 mini impianti da costruire nella Mongolia cinese, a ridosso delle miniere di carbone. Già, i cinesi, i nuovi consumatori che hanno sconvolto la mappa del petrolio più degli sceicchi o di Hugo Chávez. Sono affamati di petrolio, non dimenticano i buoni affari. Hanno cominciato a produrre etanolo, grazie all’aiuto del Brasile e agli incentivi del governo. All’improvviso, per merito di centinaia di impianti “pirata”cresciuti per sfruttare gli incentivi di stato, il Drago è diventato il secondo produttore al mondo e il primo esportatore di etanolo. Perché gli aiuti al settore di Washington (che, per le pressioni dei farmers, im-Il Brasile è l’unico paese al mondo dove nelle stazioni di servizio è possibile scegliere tra carburante tradizionale ed etanolo semplice porta con il contagocce dal Brasile) si sono rivelati una calamita formidabile per i petrolieri del grano di Pechino. Anche in Brasile la fortuna è nata da una decisione “politically uncorrect”. La decisione di puntare su una soluzione autarchica nacque negli anni Settanta, sotto il tallone del regime militare. Oggi il Brasile è l’unico paese al mondo dove, alla stazione di servizio, si può scegliere tra la benzina normale, la miscela (etanolo più benzina) o l’etanolo semplice. E nella sterminata prateria del sud il colosso di stato, la Petrobrás, ha costruito la fabbrica di Araucária, un impianto così importante che Ignacio Lula da Silva l’ha scelto, nello scorso giugno, come palcoscenico per annunciare, in via ufficiale, la sua candidatura per un secondo mandato presidenziale. Difficile trovare un luogo più solenne: quel giorno , infatti, cominciava in via ufficiale pure la produzione dell’H-bio, il brevetto più importante mai uscito dai laboratori brasiliani. H-Bio, in sintesi, è un estratto dell’olio di soia o di girasole che, mescolato con un comune diesel, può funzionare da carburante per un qualsiasi motore, senza alcuna modifica: il sogno di liberarsi dalla dittatura del petrolio, insomma, non è più remoto dell’incubo di restare a secco. Perché, se non avete ancora deciso se essere ottimisti o pessimisti, se credere che il “peak oil” (cioè il punto massimo della produzione) sia stato ormai raggiunto o no, potete divertirvi con i tanti blog sulla materia (the oil drum, Aspo, Energy Bulletin per citare i più noti). Troverete di tutto: ingegneri ecologisti a favore dell’eolico, ecologisti animalisti che denunciano i crimini dell’eolico (le pale delle turbine ammazzano molti uccelli protetti); repliche degli ingegneri che sostengono che i gatti uccidono più delle pale; altri animalisti che scendono in difesa dei gatti. Difficile raccapezzarsi. Ma una cosa emerge: il petrolio andrà su e giù (facile che, nel prossimo futuro vada giù. A Teheran piacendo). Ma quella dell’energia non è una bolla come quella della tecnologia, assicurano Khosla e amici, gente che di bolle se ne intende.

Monday, September 11, 2006

Poesia e mass media: nessun prigioniero

La morte della poesia ad opera della comunicazione di massa: Montale ed il futuro; un articolo sul Foglio di Alfonso Berardinelli, che spiega molte cose....

Eugenio Montale amava la poesia? A giudicare dai fatti (vita e opere) nessuno potrebbe negarlo. Ma la cosa certa è che non amava la poesia come la si ama oggi in Italia. Il suo amore non lo cantava né lo vantava. Era un uomo cauto, inibito (sì!), prudente, reticente, poco effusivo, terrorizzato dalla retorica e da ogni tipo di discorso declamabile “ore rotundo”. Quando editori, divulgatori e insegnanti devono decidere che cosa è la poesia italiana del Novecento, scelgono Montale. Se deve essere nominato un solo autore, quello è lui: il più tipico, autorevole e studiato portavoce della poesia moderna in Italia. A distanza, alle sue spalle, un secolo prima, resta Leopardi. Nel primo e secondo Novecento, poco prima e poco dopo di lui, ci sono Umberto Saba e Pier Paolo Pasolini. Tutti e due di una famiglia diversa: più aperti, generosi, diffusi, imperfetti perché portati a mettere in versi qualunque cosa. Poeti premoderni (Saba) o postmoderni (Pasolini), sostanzialmente in polemica con la modernità, con il simbolismo, con l’ermetismo, con l’eccesso di condensazione lirica, con ogni tipo di oscurità, di bizzarria, di formalismo. Anche la modernità di Montale era polemica. Non gli piacevano le poetiche, le intenzioni, i gruppi, le avanguardie, il ribellismo, il titanismo, la poesia pura, l’ottimismo espressivo, l’engagement ideologico e politico. A Montale ovviamente non piaceva quasi nulla. La sua forza era una forza di negazione, di stanziamento, focalizzazione assoluta del dettaglio, arte del mettere idee e pensiero dentro un’organizzazione verbale scandita e pietrificata… Non voglio mettermi a parlare di Montale! La bibliografia critica che si è accumulata sulla sua opera è mostruosa. Almeno in Italia, credo che ormai superi per quantità quella su quasi tutti i grandi classici. Forse solo su Dante e Leopardi si è scritto di più. Mi sono messo a parlare di Montale al solo scopo di notare un dettaglio: Montale (più o meno convenzionalmente) è la poesia italiana del Novecento, ma da circa trent’anni la poesia italiana esiste perché lo ignora: come idea e come comportamento, come teoria e come prassi, non ha niente a che fare con Montale. Neppure con il Montale prolifico e “chiacchierone” degli ultimi anni, da “Satura” (1971) in poi. Il dettaglio non abbastanza notato, la piccola cosa piuttosto trascurata è che quasi tutti i poeti italiani di oggi troverebbero mostruosi e criminosi lo scetticismo e le cautele che Montale ebbe ogni volta che parlò di poesia. Della propria e di quella degli altri. Mai Montale avrebbe incoraggiato la produttività poetica. Se soltanto sfogliamo i suoi scritti “Sulla poesia”, una raccolta a cura di Giorgio Zampa uscita da Mondadori nel 1970, ricordiamo subito che il tono-Montale era stato caratteristico di tutta la generazione post-crociana e post-dannunziana. Nessuna enfasi, mai. Fuga dalle giustificazioni filosofiche della poesia in generale (Croce) e fuga dalla retorica (presente anche in Ungaretti) della poesia come entusiasmo e fuoco lirico. In ogni sua dichiarazione e valutazione sulla poesia e sui poeti, Montale fu prudente, avaro, scettico (era il suo modo di essere appassionato, un modo
oggi inimmaginabile). Per lui, come la sua famosa anguilla, il poeta diventa se stesso risalendo la corrente. Sono gli ostacoli, sono le condizioni avverse che permettono alla poesia di fecondare se
stessa, di vivere e rinascere, di sprigionare le sue (ogni volta inaspettate e disperate) energie vitali. Oggi che i sessanta o seicento poeti italiani cercano l’idillio della buona accoglienza, sono assetati di incoraggiamenti e di giustificazioni, evitano il rischio e preferiscono non essere giudicati, oggi rileggere Montale che parla di poesia farebbe scandalo. Sembrerebbe un attentato
alla comunità o setta o corporazione dei poeti , a cui ( stranamente) ogni poeta sente ormai di appartenere. L’individualismo tradizionale dei poeti sembra tramontato. Si rivendicano diritti da difendere in gruppo e in massa. Montale, viceversa, parlando di poesia, parlava sempre di solitudine, di lentezza, di imprevedibilità, di non-programmabilità. Soprattutto a partire dagli anni sessanta di esistenza, perfino di sopravvivenza, della poesia in una società di massa.
Nel suo discorso del 1975, quando ricevette il premio Nobel, scrisse: “Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione (…) Di qui l’arte nuova del nostro tempo che è lo spettacolo. Un’esibizione non necessariamente teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera una sorta di massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia”.
E’ così anche oggi. I lettori hanno continuamente bisogno di speciali pratiche di rianimazione. Le loro facoltà di attenzione richiedono sempre un rivitalizzante “massaggio psichico”. Chi leggerebbe se non ci fossero ogni estate gli spettacoli e le esibizioni letterarie? “In tale esibizionismo isterico” si chiedeva Montale trent’anni fa: “quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia?”. La risposta era che questa nuova “arte spettacolo”, l’arte a tutti i costi di massa , “l’arte che vuole produrre una sorta di massaggio fisico-psichico su un ipotetico fruitore ha dinanzi a sé infinite strade perché la popolazione del mondo è in continuo aumento. Ma il suo limite è il vuoto assoluto (…) milioni di poeti scrivono versi che non hanno nessun rapporto con la poesia. Ma questo significa poco o nulla”. Anche quando è apocalittico, Montale
lo è in stile, possibilista e prudente. La storia umana per lui somiglia di più alla storia naturale che alla Storia con la maiuscola dello storicismo. Perciò non c’è colpo senza contraccolpo, anche
se si tratta di probabilità e non di conseguenze prevedibili: “Non è credibile che la cultura di massa per il suo carattere effimero e fatiscente non produca, per necessario contraccolpo, una
cultura che sia anche argine e riflessione”. Si tratta di cicli. La cultura di massa, la produzione per il consumo veloce, arrivate alle arti più tradizionali, ormai socialmente inutili e inoffensive come la poesia, forse metteranno in azione anticorpi: il bisogno di isolamento, di silenzio, di consumo lento e riflesso. L’interessante nel modo che ha Montale di parlare di poesia non è il pessimismo, né l’ottimismo. E’ piuttosto l’empirismo, la mancanza di fiducia incondizionata. Niente viene escluso in linea di principio, neppure il rigetto degli effetti negativi del progresso e
della “democratizzazione delle arti”. La poesia non viene considerata un valore come pretenderebbero quei “milioni di poeti”. Nel discorso per il Nobel, Montale dice che in un primo momentoaveva pensato a un titolo più preciso:“Potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa?”.Le comunicazioni di massa lo ossessionavano.Le sentiva come una minaccia radicale non tanto per la “produzione” di poesia, quanto per i presupposti culturali necessari a scriverla e soprattutto a leggerla. Insiste: “Nell’attuale civiltà consumistica (…) nella civiltà dell’uomo robot, quale può essere la sorte della poesia?”. Montale ragionava come un critico liberale della società di massa, come un borghese senza fedi positive, come un individuo che sente la fragilità dell’individuo di fronte ai processi di socializzazione totalizzante. Il suo solo impegno è l’autodifesa. Si sente che ha letto Ortega y Gassett, Paul Valéry, Thomas S. Eliot, Aldous Huxley. Pensa al peggio, ma nel momento in cui è tentato da qualche ipotesi apocalittica, si ritrae, evita i toni allarmistici, modera le affermazioni perentorie. Scetticamente rifiuta di credere che nella storia umana agisca una logica ineluttabile che porta sempre dal meglio al peggio. Neppure lo storicismo alla rovescia lo convince. Così, contro il pessimismo sistematico, Montale ricorre all’ironia. La poesia, dice, forse è diventata indistruttibile proprio per ragioni di quantità, perché ce n’è troppa. Tutti la scrivono e democraticamente è legittimo che la scrivano: “La poesia è l’arte tecnicamente alla portata di tutti. Basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto (…). L’incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda”. Potrebbe darsi che vada distrutta l’opera di poeti di valore e sopravviva quella degli innumerevoli scriventi, “cioè pseudo versi privi di ogni senso”. Gli incendi sono sprovvisti di criteri critici. C’è un solo momento in cui Montale si lascia andare alla fede: “ La grande lirica può morire, rinascere , rimorire, ma resterà sempre una delle vette dell’anima umana”. Fede prudente e ambigua anche questa. Il punto è che neppure l’eventuale morte storica della poesia può in sostanza minacciare il valore della grande poesia che è stata scritta in passato. Ma le diverse morti ed eventuali rinascite della poesia sono messe nel conto. Nessuna linearità, nessuna garanzia di sopravvivenza o di valori poetici che rimangano inalterati ad ogni generazione. Le interruzioni possono essere continue. Del resto il suo empirismo non fa mai dimenticare a Montale che i generi e le forme letterarie sono in metamorfosi e quello che sparisce da una parte può ricomparire dall’altra. Il sistema dei generi prevede continue migrazioni da un modo di espressione a un altro. Una volta si usavano la terzina e l’ottava per scrivere vasti poemi narrativi. Dall’Ottocento in poi queste tecniche sono andate fuori uso. Non è detto che la migliore poesia venga sempre scritta in versi: “Resta sempre dubbioso in quali limiti e confini ci si muove parlando di poesia. Molta poesia d’oggi si esprime in prosa. Molti versi d’oggi sono prosa e cattiva prosa”. Le più convincenti diagnosi sulle condizioni di esistenza della poesia Montale le fa quando parla di se stesso. Dichiara spesso che il nome di poeta lo mette in imbarazzo. Ripete che non si è mai sforzato di esserlo. Essere poeta non è stato per lui un programma. In un’intervista rilasciata nel 1960 alla rivista “Quaderni milanesi” dice: “Io, sforzi, non ne ho mai fatti (…) è accaduto che di fronte alla massiccia produzione in versi che ha invaso il nostro paese, e non solo il nostro, io abbia sentito intollerabile il nome di poeta. Credo che chi, come me, ha scritto versi (pochi) per 35 anni abbia il dovere di starsene alla finestra. Può darsi che io ricominci; può darsi il contrario. Aggiungo che dal ’48 io sono un giornalista e mi manca assolutamente il tempo per scrivere cose mie. Scrivo per gli altri. Non escludo un giorno di poter ancora scrivere per me. Ma quando?”. Anche sulla critica Montale ha le sue opinioni. Molto semplici e molto attuali. In un’autointervista scritta per “Quaderni della radio” (XI, ERI 1951) arriva ad affermare che “La critica letteraria ha quasi cessato di esistere in Italia e anche altrove. I quotidiani si occupano solo di arti organizzate (teatro, cinema, arti visive) come professioni (…). Anni fa la critica si era rifugiata nelle piccole riviste letterarie; ma ora non esistono quasi più riviste del genere. Esistono solo grossi settimanali illustrati pieni di pettegolezzi, nei quali trova poco spazio la critica letteraria (…) E’ naturale che una merce poco richiesta tenda a scomparire; ma in questo caso si ha l’impressione che alla poca richiesta corrisponda anche una certa svogliatezza nell’offerta. Il pubblico non chiede nulla anche perché non gli si offre nulla (…) se riapparissero i critici si diffonderebbe ancora il gusto della critica. Un’arte senza una critica parallela muore”. Purché sia critica e non informazione pubblicitaria, né semplice maldicenza privata. Siamo ancora allo stesso punto di allora. La critica ogni tanto sembra morta. Eppure basta che si dica in pubblico, con buoni argomenti, qualche verità proibita perché quel corpo malato si rianimi. Lo stesso Montale indicò che il problema era esattamente nel passaggio dalla critica orale (o maldicenza privata) alla critica scritta e pubblica, in cui il giudizio deve essere costruito su esempi, prove, argomentazioni convincenti e fondate: “In qualche modo bisogna far sì che la critica scritta e stampata sopravviva. Quella che ancora resta, in forme spicciole e orali, nelle conversazioni di chi segue le novità letterarie, dimostra che il buon gusto non è naufragato ma che oggi si trova raramente chi voglia dire la verità. I critici sono uomini e non vogliono farsi troppi nemici. Una volta non era così. Come mai non era così?”. Dopo aver detto in breve quasi tutto l’essenziale, a questa domanda conclusiva Montale non risponde. Forse ci saranno, aggiunge, delle ragioni economiche. Le recensioni dei veri e propri critici letterari non sono molto apprezzate. Critico letterario vero e proprio è chi mette in gioco il proprio “onore” intellettuale parlando di autori contemporanei e magari di libri appena usciti. Ad un tale individuo vengono di solito preferiti i recensori che fanno favori e il cui salario consiste nel ricevere favori in cambio. Il fatto è che le professioni intellettuali sono (erano) fondate su un certo individualismo, su un rifiuto del branco, della corporazione, della complicità. Sulle orme del grande Antonio Gramsci ci siamo un po’ troppo abituati a ragionare da intellettuali in quanto gruppi. Gli intellettuali però sono e dovrebbero essere anzitutto individui: indocili, poco controllabili e in genere piuttosto solitari. Uno scrittore che in una riunione di scrittori non si senta ancora più solo, non è uno scrittore, credo.

Friday, September 08, 2006

Come si misura la felicità?

Quando si stabilisce se si è raggiunto un certo grado di felicità? Ed un sistema economico a cosa serve, se non a generare un sentimento di felicità crescente? Ecco un ottimo articolo uscito su il manifesto sul tema:

(In)sostenibili felicità
Un nuovo indicatore del benessere dei paesi: Pil più la soddisfazione, diviso per le risorse

Si sta creando una grande confusione sulla questione della felicità: tre settimane fa la notizia che il miglior paese al mondo era Vanuatu, 80 isole nel Pacifico. Ma nei giorni scorsi ecco un'altra classifica, dove questa volta vince la Danimarca, con la Svizzera a ruota, mentre Vanuatu scende al 24simo posto. Quanto all'Italia era al numero 66 in un elenco e al 50 nel secondo.
Eppure la felicità, o se si preferisce la soddisfazione di vita, è cosa troppo seria per lasciarla ai titoli estivi dei quotidiani. Il tema è di quelli cruciali per la nostra civiltà ed è divenuto negli ultimi dieci anni argomento di studi importanti, all'intreccio tra filosofia, psicologia, scienze sociali ed economia. Con qualche fatica metodologica peraltro, tanto che nemmeno sulle parole ci si intende appieno: c'è chi parla di felicità (happiness), chi si soddisfazione di vita (satisfaction with life), chi di star bene (well being). In ogni caso è qualcosa che riguarda sia le condizioni materiali di una persona (o di in un paese) che la percezione soggettiva riguardo alla propria vita. Ovviamente non è un valore ben netto come l'altezza o il reddito. La si valuta, la felicità, semplicemente domandando alle persone: «Considerando la vostra vita nel suo complesso quanto vi considerate soddisfatti?». Un altro metodo consiste nel valutare lo stato d'animo corrente, per esempio: «Quale percentuale di tempo nella giornata di ieri siete stati di cattivo umore?». Una qualche verifica si può fare incrociando le dichiarazioni soggettive con le opinioni che gli altri hanno della felicità di una persona: «Quanto giudichi felice Giovanna?».
Tutto questo interesse dipende anche dalla giusta sfiducia che l'opinione pubblica, e anche gli studiosi, ormai hanno verso un trattamento solo economico, o peggio economicista, del benessere delle nazioni. Che il prodotto interno lordo (Pil o Gdp, in inglese) sia un indicatore grossolano e persino truffaldino sembra ormai certo. Per esempio se un paese risulta molto inquinato e dunque deve investire molto per ripulirsi, allora quelle spese aumentano il Pil, ma sembra difficile sostenere che ciò sia un'indice di benessere. Per questo vari tentativi di correzione sono stati proposti, per esempio sottraendo da quelle cifre le esternalità negative. Le cifre sul Pil, poi, non danno mai conto della distribuzione del reddito all'interno di un paese, affogando le disuguaglianze in una media statistica.
In ogni caso c'è una curva paradossale, ormai ben nota: reddito individuale (o nazionale) e felicità per un po' vanno di pari passo, ma poi si disaccoppiano perché, una volta raggiunto un discreto benessere, un ulteriore aumento della ricchezza non produce un pari aumento di felicità, anzi talora succede persino il contrario. Vale per i singoli individui e anche per le società nel suo complesso. In molte culture, poi, il reddito individuale offre soddisfazione psicologica non tanto in valore assoluto quanto come misura della gerarchia sociale: la cosa importante è essere più ricchi di amici e conoscenti, ma se l'economia tira e tutti si arricchiscono, allora che gusto c'è?
Un altro indice usato di frequente è l'HDI, Human Development Index, usato dalle Nazioni unite per sfuggire alla trappola del solo fatturato. Venne creato nel 1990 dall'economista pakistano Mahbub ul Haq, a partire dalle ricerche del premio Nobel Amartya Sen; tiene conto del reddito pro capite, dell'aspettativa di vita e delle opportunità di conoscenza e istruzione. In questo caso il Pil c'entra indirettamente (nel reddito individuale) ma viene associato ad altri valori che riguardano la qualità della vita di un paese. Un apposito Rapporto annuale viene depositato ogni anno e vede ai primi posti paesi occidentali ma intermedi, come Norvegia, Canada, Australia, Svezia: alto reddito e stato sociale.
L'indicatore più interessante, a opinione di chi scrive, è stato proposto di recente dalla New Economics Foundation, fondazione inglese per la nuova economia, che ha lanciato il suo Happy Planet Index, e insieme ad esso un vero «Manifesto Globale per un pianeta più felice», scritto con l'associazione Amici della Terra.
L'HPI guarda le cose del mondo in una maniera assai diversa dai precedenti indici e si forma a partire da tre fattori: 1. la speranza di vita alla nascita degli abitanti; 2. la soddisfazione di vita soggettivamente valutata dagli stessi con dei sondaggi, in una scala da uno a dieci; 3. un parametro chiamato «orma ecologica» (ecological footprint) che misura quante risorse naturali un certo paese consuma e che di solito è espresso in ettari. I primi due numeri vengono moltiplicati tra di loro, il che dà un'idea di quanti anni felici un paese abbia, ma divisi per il terzo, per tener conto del prezzo ambientale. In fondo l'idea è semplice: si tratta di misurare quanto un certo input (le risorse naturali) si trasforma, producendo un certo output, dove il risultato che conta non è il fatturato globale, ma la vita delle persone, che sia lunga e felice. Lo diceva già Aristotele, ma il progresso moderno sembra essersene dimenticato.
In questo sistema a ingresso-uscita, tanti altri fattori che di solito vengono considerati come dei fini in sé sono invece soltanto dei mezzi al fine di una vita felice.
Dunque la crescita economica è solo un mezzo, e così il mercato. E lo stesso vale per educazione, sistema sanitario, livello di consumi, occupazione, forme di governo, famiglia, tecnologia. Sono strumenti da potenziare, in opportune miscele, rispetto a quello che dovrebbe essere lo scopo vero e sensato di ogni politica e di ogni governo.
Ma non a ogni costo perché mettendo a denominatore il consumo ambientale, i ricercatori introducono un requisito di sostenibilità: se per produrre una certa soddisfazione di vita si consuma troppa natura, allora quella ottenuta è una felicità effimera, di breve durata. Per esempio la Norvegia si trova al primo posto nell'indice di sviluppo umano (il citato HDI), ma ha un footprint molto elevato e perciò nell'indice planetario scende in posizione 115. Ben peggio della nostra Italia, dunque, perché se la durata della vita è circa uguale nei due paesi e la contentezza norvegese è appena un po' superiore alla nostra (un valore di 7.4 contro i nostri 6.9), l'impatto ambientale italico è solo di 3.8 contro un 6.2 scandinavo.
Ovviamente nessuno degli indicatori rappresenta la verità, ma ognuna delle diverse metodologie incorpora più o meno esplicitamente dei valori diversi con cui guardare lo stato del mondo. Va notato che gli stessi autori dell' Happy Placet Index, hanno voluto provocatoriamente aggiungere una correzione grafica a mano sul loro rapporto, reintitolandolo (un)Happy Placet Index, ovvero l'indice di un pianeta infelice. Infelice perché un «ideale ragionevole» (un obiettivo politico) di questo indicatore dovrebbe prevedere un livello di soddisfazione come quello della Danimarca (8,2, su un massimo di 10), un'aspettativa di vita di 82 anni, come nel Giappone, e un'impronta ecologica bassa, attorno a 1,5, mentre nei fatti nessun paese si avvicina per ora a tali risultati.
Quello dell' Happy Placet Index è senza dubbio un punto di vista radicale, ma purtroppo assai sensato, perché ci ricorda impietosamente che i nostri paesi ricchi, per produrre un livello di soddisfazione decente nei loro cittadini, consumano tante risorse naturali che sarebbero necessari due o tre pianeti Terra.
Una diversa e meno sconvolgente classifica della felicità del mondo è stata proposta la settimana scorsa da un gruppo di ricerca dell'università inglese di Leicester. Adrian White, psicologo sociale, l'ha realizzata con una tecnica chiamata meta-analisi e cioè mettendo insieme, con opportune pesature, i dati raccolti da altri, con metodi diversi. Ha dunque utilizzato le cifre dell'Unesco, della Cia, della New Economics Foundation, dell'Organizzazione mondiale della salute eccetera. La sua tesi è che la felicità sia legata essenzialmente a salute, ricchezza e istruzione.
La tabella comparativa in questa pagina mostra quanto diverse possano risultare le classifiche a seconda delle diverse metodologie usate. Il Pil premia il reddito e il reddito pro-capite, l'Indice di sviluppo umano valorizza i paesi europei che hanno alto reddito e strutture sociali sviluppate (welfare e simili). L'Happy Placet Index, che mette a denominatore il consumo di risorse naturali ribalta provocatoriamente tutte le classifiche, penalizzando quei paesi ricchi che, per garantirsi felicità, sprecano molto, eventualmente a spese degli altri. Infine la Mappa della felicità dell'università di Leicester offre una possibile mediazione tra i diversi approcci. Fin troppo tranquillizzante, forse.

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