Thursday, March 22, 2007

Kareem Abdul Jabbar

Kareem Abdul Jabbar è sempre stato un
profeta. Uno che indica la strada. E’ stato
il più carismatico giocatore di basket professionistico
d’America – più di Magic Johnson,
Doctor J e Jordan – perché la sua presenza
in campo, nella squadra, nel campionato,
ha sempre travalicato il fattore meramente
sportivo, l’eccellenza atletica, la
sua attitudine alla leadership, portando con sé un
fattore aggiuntivo imprescindibile, fatto di dignità,
consapevolezza,quoziente sociale che andava oltre infilare
con inquietante regolarità la palla nel cesto, a colpi di
“ganci cielo” – il suo tiro prediletto. Kareem
era lì anche per dare spessore allo sport, per
dargli significati ulteriori e condivisibili, per
attenuare le tensioni e gli eccessi e per fungere
da pesce pilota per tanti ragazzi che
guardando a lui vedevano un raggio di luce.
Kareem, del resto, quella vita l’aveva fatta da
sempre. Venuto su ad Harlem in una famiglia
in cui la cultura veniva al primo posto,
quando, a soli dodici o tredici, capisce che
con la sua messe di centimetri (217) e con la
grazia con cui si muove per il campo e tratta
la palla, avrebbe costruito il proprio futuro e
avrebbe avuto l’opportunità di parlare al
mondo, si assoggetta con tranquilla disciplina
al proprio destino. Jabbar, che prima della
conversione all’Islam si chiama Lew Alcindor,
è stato una stella praticamente per
tutta la vita, a cominciare dal playground sulla 125sima,
lo stesso in cui sono fiorite le più
straordinarie leggende sportive di New York
(e le più affascinanti sono quelle su coloro
che non ce l’hanno fatta, che si sono persi
per strada, restando modeste glorie locali invece
che proiettarsi sul palcoscenico assoluto).
Il giovane Lew invece la trafila la fa tutta:
da ragazzino porta la sua scuola, la Power
Memorial, a diventare la più famosa d’America,
facendole vincere settantadue partite di
seguito. Poi, al servizio della losangelina
UCLA domina il campionato universitario,
vincendo tre titoli in quattro stagioni, due
volte miglior giocatore assoluto, addirittura
responsabile della temporanea messa fuorilegge
della schiacciata, che secondo rendeva
la sua presenza troppo dominante. Tra i
“pro” Lew diventa, a inizio 70, “il nobile servitore
del Potente” (come si traduce il nome
di Kareem Abdul Jabbar) e anche il faro assoluto
della Lega: vince campionati a grappoli,
prima coi Milwakee Bucks, poi coi LA
Lakers e più diventa adulto più la sua figura
diventa quella di un riverito leader, sia razziale
che di un attitudine allo sport e alla cultura
americana, fatta di decenza, dedizione,
sforzo. Mentre il suo corpo poco a poco invecchia
sul campo, la sua mente resta vulcanica:
apprende le arti marziali da un maestro d’eccezione
come Bruce Lee, vede malinconicamente
bruciare la sua casa di LA dentro la
quale conservava la sua celebre collezione
di dischi jazz, una passione trasmessagli dal
papà musicista e al momento del ritiro, a fine
anni Ottanta è salutato dalla commozione
e dalla devozione che si riserva al primo sacerdote
di un onorato culto. Ma Jabbar non
diventa un ex. E ha finalmente il tempo per
dedicarsi alle sue vere passioni, quelle sempre
sacrificate al dovere – lungo una vita –
d’infilare la palla nel canestro. L’ha sempre
detto: non avesse avuto in sorte “l’obbligo” di
diventare un atleta professionista, avrebbe
fatto il professore di Storia. E adesso, la sua
passione per la storia afroamericana gli ha
ispirato un libro bellissimo, raro esempio di
come la descrizione di un’epoca e di un ambiente
possa essere interpetato dall’autore
con una compartecipazione motivata dall’essere
stato lui stesso uno dei protagonisti di
quello scenario.
Il volume s’intitola “On the Shoulders Of
the Giants”, sulle spalle dei giganti, frase
Jabbar che prende in prestito da Isacco
Newton, per significare l’importanza da attribuire
a coloro che ci hanno fornito gli
esempi coi quali siamo cresciuti. Organizzato
in forma di domanda e risposta secondo il
canone dell’insegnamento orale della cultura
dell’Africa occidentale, il saggio raccoglie
una serie di “lezioni” sul Rinascimento di
Harlem, il quartiere del giovane Lew in quel
particolare ventennio tra anni Venti e Quaranta,
durante i quali il quartiere Nero di
New York riscatta la propria natura miserabile
e marginale, per imporsi come motore
culturale dello splendore artistico cittadino,
come vettore dell’integrazione del black culture
e come teatro del laboratorio creativo di
strada che mette nello stesso calderone arte
e coscienza, musica e sport, poesia e politica,
jazz ed educazione civica, sessualità e ambizioni.
Duke Ellington e Louis Armstrong,
Langston Hughes e Jacob Lawrence in quel
periodo convergono nel modesto rettangolo
urbano di Harlem, attirati non tanto da un
senso di unità (“questa è la visione disneyana
dei fatti”, sostiene Jabbar) ma dal fatto
che quello fosse un buon posto dove rifugiarsi,
organizzarsi e cercare i modi per dare l’assalto
alle durezze della società americana
del tempo, tanto più per una mente creativa
in un corpo nero. “La gente di cui scrivo, ha
combattuto e sofferto, e io desidero che di
ciò si tenga conto. Vorrei che la loro storia
ispirasse il lettore così come ha ispirato me”,
scrive Kareem. E le sue pagine rendono
omaggio a tutti quegli intellettuali che hanno
formato la sua giovinezza, Malcolm X in
testa, e poi a quegli artisti, Miles Davis in testa,
che hanno dato forma alla spericolata
esperienza della sperimentazione creativa.
Su, fino alla storia più appassionante di tutte:
quella dei dimenticati Harlem Renaissance
– Rens per gli appassionati – che in una
nazione nella quale ancora agiva indisturbato
il Ku Klux Klan, ebbe l’ardire di presentarsi
come squadra di pallacanestro fatta solo
di giocatori neri, puntualmente esclusi
dalle competizioni ufficiali. “Senza i Ren e
senza quei grandi giocatori, la vera storia del
mio sport in America non sarebbe mai stata
scritta”. I Rens giocavano ai margini, venivano
invitati per qualche sfida estemporanea,
in cui puntulmente davano lezione agli educati
atleti bianchi. Ma ogni partita non faceva
altro che offrire un motivo di riflessione
in più. Adesso il sessantenne campione dei
campioni di questo sport ha messo giù un
racconto appassionante, orgoglioso e affettuoso
di quelle vicende trascurate e dell’irripetibile
ambiente metropolitano che, proteggendole,
permise loro di germogliare. Sono
storia di come una società ha imparato a diventare
migliore. E l’uomo che le ha vergate
è la sublime incarnazione di come tutto ciò
abbia senso, sviluppo e dimensione.

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