Friday, August 10, 2007

il Giappone sorprende sempre

Non troppi anni fa, quando i governi
italiani cambiavano con le stagioni, come
le collezioni del prêt–à–porter, gli osservatori
stranieri si interrogavano stupiti sulla misteriosa
tenuta del nostro sistema sociale ed
economico, in un bel corpo a corpo con la logica.
C’è in questo più di un’analogia con lo
stupore che il mondo occidentale prova davanti
alle sorti, alterne e veloci, del microcosmo
giapponese. La letteratura nippocentrica
degli anni Settanta e Ottanta, in cui si celebravano
le magnifiche sorti e progressive
del Sol Levante, è ormai alle spalle; ma lo è
anche la letteratura apocalittica e, diciamolo,
vagamente iettatrice che celebrava la tragica
agonia del Sol Calante. Negli ultimi
quindici anni abbiamo visto il Giappone attraversare
una lunga fase di recessione-stagnazione,
lo abbiamo visto alle prese con la
crisi del sistema finanziario, con la fine della
piena occupazione, con il costante calo
del tasso di natalità e il relativo aumento di
quello di criminalità; abbiamo visto insomma
emergere una costellazione di variabili
al rosso che ci hanno rivelato un mondo insospettabilmente
fragile. Poi, a un esame
più attento, ci siamo accorti che nel suo
quindicennio di pena il Giappone ha conservato
fondamentali macroeconomici tutto
sommato invidiabili: persino il tasso di disoccupazione,
di cui si è fatto tanto parlare,
non è mai andato troppo lontano dal tasso
frizionale delle nostre regioni più sviluppate.
Oggi – che sia il Giappone di Abe o quello
di Ozawa poco importa – ci troviamo di
fronte a un paese che tra i propositi della
sua convalescenza agita ambizioni di tutto
rispetto, come la drastica riforma dell’assetto
istituzionale interno e l’acquisizione di un
ruolo centrale nella scena politica internazionale.
E’ in fondo questo il mistero giapponese,
la capacità di attraversare piccoli o
enormi traumi senza cessare di pensare in
grande e di realizzare grandi obiettivi.
Così è stato, per esempio, quando, dopo
due secoli e mezzo di contemplazione del
proprio ombelico, un arcipelago di contadini,
pescatori e samurai, non certo benedetto
dal favore della natura e relegato in un
angolo remoto del pianeta, è riuscito in pochi
decenni a diventare una moderna potenza
industriale; o quando una nazione devastata
da una guerra rovinosa (ricorre in
questi giorni l’anniversario dei bombardamenti
di Hiroshima e Nagasaki), è risorta
dalle ceneri delle proprie città senza l’ausilio
di un piano Marshall e in un contesto di
ostilità diffusa (ancora oggi il 65 per cento
dei cinesi e dei sudcoreani dichiara di detestare
il Giappone).
Come diceva Luigi Barzini senior nel 1906
La chiave dell’enigma è in realtà un complicato
intreccio di ragioni, sulle quali le
diagnosi degli studiosi e dei commentatori
non brillano per univocità. Ci sono tuttavia
alcune costanti che aiutano a orientare l’analisi
e a migliorare la comprensione generale
del fenomeno. Anzitutto la straordinaria
omogeneità della società giapponese.
Nella sfera pubblica, ma anche in quella
privata, la rosa dei comportamenti appare
limitata e tutto sommato prevedibile. L’imprevedibilità
è anzi segno certo di anomalia
ed è considerata con sospetto. L’omogeneità
– e l’omogeneizzazione, cioè la tendenza
ad assimilare l’assimilabile – si riscontra
in tutti i settori della vita civile e in
molti ambiti della vita familiare e dell’attività
del singolo. La pubblicistica occidentale
l’ha presentata spesso nei termini di una
coercizione di massa o, al contrario, in
quelli di un nobile ideale. Ma, fatte salve alcune
eccezioni, non si tratta né di un orientamento
forzato né di un’aristocratica virtù
spirituale. Si tratta invece di una costante
sintattica dell’identità giapponese: gli uomini
e le donne del Sol Levante avvertono con
forza la propria appartenenza a un corpo
comune e ciò, al momento opportuno, può
rivelarsi un formidabile strumento propulsivo.
“Un popolo così fatto si muove col
massimo d’energia”, scriveva Luigi Barzini
senior nel lontano 1906, “il suo cammino
non può essere che rapido, impetuoso, irresistibile”.
Il rilievo è valido tuttora.
Strettamente connesso a questo aspetto è
il primato del gruppo e della sua gerarchizzazione,
interna ed esterna, elemento al
quale i giapponesi hanno dato spazio persino
nella struttura grammaticale della loro
lingua. La tendenza a configurare ogni rapporto
in modo gerarchico può essere considerata
un residuo del retaggio feudale, tratto
che emerge con particolare evidenza nell’organizzazione
del sistema produttivo. L’ostentato
scetticismo delle giovani generazioni
riguardo l’importanza di fare parte (o il
dramma di non fare parte) del “clan aziendale”
è un fenomeno recente, forse suscettibile
di originali sviluppi, ma per il momento
velleitario e individuato dall’opinione
pubblica come un problema di rilevanza sociologica.
Tra i vantaggi di una strutturazione
in gruppi gerarchizzati c’è quello di rendere
le diseconomie di sistema facilmente
identificabili: i giapponesi riescono a capire
in tempi rapidi dove si annida il problema,
e in questa fase di identificazione hanno già
posto le premesse per metabolizzarlo.
Un’ultima costante, anch’essa di ascendenza
plurisecolare, è l’incrollabile fede
nella procedura. I giapponesi sono grandi
pianificatori e credono fermamente che un
apparato tecnico-procedurale distillato dall’ingegno
delle persone competenti e dall’esperienza
delle generazioni passate abbia
maggiori probabilità di successo di ogni episodico
estro improvvisativo. Quando vengono
percepite come migliorative, le eruzioni
di creatività, di cui il Giappone è prodigo,
vengono elevate a norma formale e integrate
nel quadro sistematico. Combinata con
una decisa propensione al pragmatismo,
questa terza caratteristica consente ai giapponesi
di elaborare soluzioni applicabili su
vasta scala e di domare l’evidenza dei fatti
anche a costo di convivere con contraddizioni
logiche – o ideologiche – piuttosto patenti.
In Giappone, del resto, la logica è un sapere
avventizio, da sempre subordinato ai dati
di fatto. E i fatti misteriosamente rispondono
o, forse, sentitamente ricambiano.

Friday, July 27, 2007

Contro l'islamizzazione europea

Guai a ignorare per ingenuità i tentativi di islamizzare l'Europa! L'intervento sull'Islam di papa Ratzinger a Ratisbona è stato "profetico". Parola di don Georg Gaenswein, segretario di Benedetto XVI che in un'intervista a tutto campo al biografo ratzingeriano Peter Seewald rilancia l'allarme nei confronti dell'espansione musulmana. "I tentativi di islamizzare l'Occidente non si possono negare - afferma don Georg sul magazine della Sueddeutsche Zeitung di Monaco di Baviera - ed un falso rispetto non deve far ignorare il pericolo connesso per l'identità dell'Europa". Secondo il prelato, di cui in Italia si dimentica spesso che è stato docente negli atenei pontifici, e che riflette fedelmente le idee del pontefice, "la parte cattolica vede molto chiaramente (questo pericolo) e lo dice anche". Il discorso di Ratisbona, aggiunge, "dovrebbe servire a contrastare una certa ingenuità".

A Ratisbona nel settembre 2006 papa Ratzinger sollevò una tempesta internazionale perché aprì il suo discorso con una citazione di un imperatore medievale bizantino, secondo cui Maometto non aveva portato nulla di "buono e umano" perché esortava a diffondere la fede con la spada. Ratzinger pronunciò la citazione senza distanziarsi e ci vollero scuse vaticane a ripetizione e un'edizione aggiornata del discorso per ristabilire rapporti normali con il mondo islamico. In parecchi ambienti l'intervento però piacque. Kissinger ha confessato a Repubblica di apprezzarlo molto.

Don Georg sottolinea che non esiste "un" Islam e nemmeno un'"istanza impegnativa e vincolante per tutti i musulmani". Sotto il concetto di Islam, spiega, ci sono molte correnti, anche nemiche tra di loro, che arrivano "fino agli estremisti che si richiamano nella loro azione al Corano e scendono in campo con il fucile". In ogni caso la Santa Sede cerca di tessere contatti e colloqui attraverso il Consiglio per il dialogo interreligioso.

L'intervista descrive l'agenda principale di Benedetto XVI: rafforzare la fede, rilanciare la "questione Dio", il confronto con le forme diverse di relativismo, il dialogo con l'Islam, il rafforzamento dell'identità cristiana. "L'Europa non può vivere se le si tagliano le radici cristiane, perché così le si toglie l'anima".

Wednesday, July 25, 2007

Come colpire la 'ndrangheta

Una chiave per aprire le casseforti delle cosche. E svuotarle. A memoria di cronista, per la prima volta un giudice in sede civile costringe 16 imputati condannati per associazione mafiosa a risarcire un'amministrazione locale. Un indennizzo per i danni causati dal crimine organizzato al territorio, secondo una logica affatto scontata fino ad oggi. Una svolta che parte dalla Calabria, dal cuore della Piana di Gioia Tauro, feudo della 'ndrangheta. Il giudice del tribunale di Palmi Antonio Salvati di accogliere la richiesta di maxirisarcimento del comune di Rosarno, per danni all'immagine, morali ed economici. Nomi eccellenti, famiglie del gotha della 'ndrangheta come i Piromalli e i Bellocco, dovranno sborsare 9 milioni di euro con gli interessi al piccolo comune del Reggino. Ci sono anche pezzi da 90 come Carmelo Bellocco, Girolamo Molè, Gioacchino e Giuseppe Piromalli, reucci di Rosarno e Gioia Tauro, tra i 16 costretti a mettere mano ai beni di famiglia. Furono condannati per associazione mafiosa nel processo Porto, avviato a fine anni 90 dalla Dda di Reggio dopo un'inchiesta sulle infiltrazioni nel porto di Gioia Tauro, il porto della 'ndrangheta, che costò ai clan decine di arresti e sequestri.
Quella di Palmi, spiega il presidente della commissione parlamentare antimafia Francesco Forgiane, è «una sentenza simbolo». Dello stesso avviso il senatore calabrese di Sd Nuccio Iovene. Mentre Libera ribadisce l'importanza della costituzione di parte civile come strumento di contrasto alle mafie, da affiancare alle confische. Una sentenza che soprattutto rende merito all'operato di un politico antimafia come Peppino Lavorato, l'ex sindaco che volle il suo comune contro le cosche anche in sede civile. E che restituisce il valore di una stagione politica importante, quella dei sindaci progressisti.
Con la sentenza di Palmi si afferma un principio rivoluzionario: «E' provato - secondo il giudice - che l'attività delle cosche abbia interferito con l'esplicazione delle potenzialità economiche del territorio». Rifacendosi al processo Porto, il giudice rileva come «la pervasività e l'ampiezza del controllo sulle attività economiche connesse al porto di Gioia Tauro ha presentato connotati tali da rendere pienamente sussistente il nesso causale» tra presenza mafiosa e danno economico per le comunità locali, con una vera e propria «occupazione armata del territorio».
Non sfugge la portata della decisione al legale del comune, l'avvocato Salvatore Costantino, che parla di «sentenza di straordinario rilievo» e di «precedente significativo», che «dà senso alle costituzioni di parte civile dei comuni» e dà agli amministratori un'arma agile e affilata contro le cosche: «Li fornisce di uno strumento ordinario, e sottolineo ordinario» per essere risarciti dei danni provocati dalle cosche. Una grande vittoria per Lavorato, ex parlamentare Pci ed ex sindaco Ds di Rosarno, che capì l'importanza della costituzione di parte civile.
Dopo i rinvii a giudizio, racconta, «saputo che i comuni erano indicati come parti lese nelle carte del procedimento Porto, fu naturale la costituzione di parte civile in sede penale». Lavorato non si ferma qui, e chiama in causa la Provincia di Reggio, la Regione Calabria e il governo, tutti targati Ulivo, «chiedendo di stare al fianco dei comuni contro la 'ndrangheta». La risposta è positiva, per una volta il fronte compatto. Arrivano le condanne, per i 16 che avevano chiesto il rito abbreviato, e nel 2002 le sentenze definitive. Così Lavorato «rilancia» e dà mandato di chiedere il risarcimento in sede civile. Un'avventura che vedrà il comune di Rosarno solitario contro i Bellocco e i Piromalli. Perché intanto soffia il vento della destra e le altre istituzioni si defilano. Anche Rosarno passa alla Cdl, ma quel procedimento resta in piedi, in silenzio.
«Oggi arriva una sentenza storica che ci indica la strada per combattere la mafia. Fino in fondo», sostiene l'indomito Lavorato con una certa amarezza, chiedendosi perché «l'ente più piccolo e indifeso sia stato lasciato solo». Ma oggi Peppino Lavorato non è più isolato. Lo sottolinea il presidente Forgione, che si appresta a girare la Calabria per mettere a punto una strategia incisiva di lotta alla 'ndrangheta, un obiettivo dichiarato della sua gestione dell'antimafia. «La sentenza di Palmi - dice - parla dell'importanza della costituzione di parte civile dei comuni, ma ci indica anche un'altra via per aggredire i patrimoni delle famiglie mafiose, in questo caso di due famiglie importanti come i Piromalli e i Bellocco». Una strada da seguire fino in fondo anche per il senatore Iovene, membro della commissione Antimafia: «Questa sentenza dimostra che non è un fatto simbolico, ma politicamente e concretamente rilevante anche perché si riconosce un principio fondamentale: la presenza dei clan danneggia il territorio e le comunità».

Friday, July 13, 2007

Intervista a Ugo Bardi sul picco del petrolio

Ugo Bardi, docente al dipartimento di chimica dell'università di Firenze e presidente dell'Aspo Italia, quali sono gli obiettivi dell'Associazione?
L'Aspo (association for the study of peak oil and gas), che raccoglie scienziati di fama in tutto il mondo, nasce per iniziativa dello scienziato Colin Campbell, e basa i propri studi sulla teoria di Hubbert, geologo Usa, che descrive l'andamento dell'estrazione di una risorsa esauribile. Già nei primi anni ‘90, Campbell disponeva di dati e previsioni che dipingevano un quadro del futuro ben diverso da quello ottimista della crescita economica senza fine. Nel 2003, ho fondato la sezione italiana dell'Aspo, che differisce un po' dall'associazione madre, per la sua enfasi sulle soluzioni, intese soprattutto come energie rinnovabili, piuttosto che sui problemi, che, d'altra parte, non trascura. Lo scopo dell'associazione si esaurirà quando avrà svolto il proprio compito di allertare in tempo il mondo sull'imminente declino del petrolio, la risorsa principale sui cui si basa un'intera civilizzazione.

Da molte parti si lancia l'allarme: il petrolio sta per finire! È vero? Se sì, quando accadrà?
La "fine del petrolio" è lontana come minimo qualche decennio nel futuro. Ci sono più che altro preoccupazioni sulla capacità delle forniture di soddisfare la domanda. L'Iea, l'agenzia internazionale per l'energia, filiazione diretta dell'Ocse, ha espresso queste preoccupazioni proprio pochi giorni fa in un comunicato. Questo è il punto; non è che non ci sia più petrolio, è che non ce n'è abbastanza. L'Iea pone il punto critico al 2012, ma è chiaro che difficoltà ce ne sono già. Aspo ritiene che il picco ci sia già stato o che potrebbe verificarsi tra due-tre anni. Dal momento del picco, la curva comincerà a scendere.

Quanto petrolio resta ancora da estrarre? Non c'è la possibilità, anche grazie alle nuove tecnologie, che in qualche parte del mondo si trovino ricchi giacimenti?
Le stime sono le più diverse. Purtroppo, nella storia spesso ci sono state stime troppo ottimistiche smentite dalla realtà dei fatti. Pochi ricordano come, negli anni Sessanta, l'Usgs, il servizio geologico degli Stati Uniti, aveva sovrastimato di un fattore 3 le riserve continentali degli Usa. Le stime dell'Usgs erano state quasi certamente influenzate da fattori politici. Fattori che, secondo me, anche in tempi più recenti hanno influenzato stime molto ottimistiche. Ci sono ancora nel mondo riserve di petrolio: secondo alcuni, in quantità paragonabile a quella estratta finora; secondo altri qualcosa di più. Il problema è che queste riserve sono più costose da estrarre e spesso si tratta di greggio di cattiva qualità. Questo si riflette sul prezzo di mercato.
È molto probabile che i giacimenti importanti siano stati già trovati. Si continuano a scoprire piccoli giacimenti, ma è ormai dagli anni Ottanta che si consuma petrolio in misura maggiore di quanto se ne scopra di nuovo. Si ipotizza di riserve di petrolio nell'Artico e in Antartide che diventeranno disponibili con lo scioglimento dei ghiacci in conseguenza del riscaldamento globale. Ma se e quando arriveremo a quel punto, saremo troppo impegnati a costruire dighe contro le inondazioni, per preoccuparci del petrolio.

Cosa avverrà dopo il picco?
Il picco è solo un punto di una transizione graduale, il petrolio sarà sempre più costoso e dovremo imparare a farne a meno. È anche vero, come è già avvenuto nella storia, che picchi locali del petrolio sono stati accompagnati da sconvolgimenti politici e guerre. Qualcosa di simile potrebbe avvenire a livello globale. Anzi, per molti versi, già avviene..

Quali sono le possibili alternative?
Lo sviluppo di nuove tecnologie legate all'energia solare, come le celle fotovoltaiche, il cui sviluppo è stato rapidissimo negli ultimi anni. Oggi abbiamo sorgenti potenzialmente in grado di produrre altrettanta energia, anzi molta di più, di quanta ne produca il petrolio.
Tuttavia, non esiste ancora una fonte energica che sia altrettanto compatta, versatile, e a buon mercato come è stato il petrolio fino a tempi recenti. Però, dovremo scendere a compromessi, soprattutto nel campo dei trasporti, che saranno ancora più costosi di oggi. Saremo obbligati a risparmiare, anche perché i paesi emergenti reclameranno la loro parte.

Sono previsti picchi per altre fonti energetiche (gas, carbone, uranio,..)?
Tutti i minerali sono soggetti a picchi di produzione. Va detto tuttavia che alcune risorse, come il gas e il carbone, si trasportano male e quindi non hanno un mercato veramente globale come il petrolio. Per questo, hanno picchi locali, piuttosto che un unico picco globale come il petrolio. Il prossimo picco importante dovrebbe essere quello del gas negli Stati Uniti. Molto difficilmente gli Usa potranno far fronte al calo della produzione interna con l'importazione di gas liquefatto, a causa della mancanza di infrastrutture adeguate. L'uranio è un caso a se. Al momento la produzione è soltanto circa la metà della domanda per i reattori esistenti, ma si riesce a soddisfarla smantellando vecchie testate nucleari. Probabilmente, il picco dell'uranio c'è già stato molti anni fa, ma viene mascherato dalle riserve accumulate sotto forma di testate. Questo, ovviamente, non può durare a lungo; a breve si presenterà un problema di scarsità di uranio sul mercato, già indicato dall'aumento vertiginoso dei prezzi degli ultimi anni. In teoria, la produzione di uranio potrebbe essere aumentata, ma questo richiederà enormi investimenti che per ora non si concretizzano in misura sufficiente. Nonostante ciò, non c'è dubbio che vedremo un ritorno dell'energia nucleare.

Sunday, July 08, 2007

La proposta di Alleva

Piergiovanni Alleva, direttore della Rivista giuridica del lavoro, fornisce una nuova idea nel dibattito per le pensioni, integrando la prima proposta che presentò sul manifesto del 21 giugno scorso e che ha poi ispirato le recenti ipotesi sugli incentivi. Fondamentale, però, è spiegare subito che il «sistema» Alleva è tutto incentrato sulla «volontarietà» dell'aumento dell'età pensionabile, senza dunque imporre alcun obbligo (neppure sotto forma di scalino) rispetto alle attuali condizioni (57 anni di età e 35 di contributi), ma rendendo nel contempo molto appetibile la permanenza al lavoro. Come dire: spingendo chi può e lo vuole a lavorare fino a 65 anni di età, o oltre i 40 di contributi, perché offre incentivi molto robusti, permette a chi voglia uscire (ad esempio tutti i lavoratori del manifatturiero, o con turni pesanti) di farlo altrettanto liberamente, dato che viene «coperto» dalla permanenza degli altri. D'altra parte oggi il lavoratore può fermarsi liberamente fino ai 65 anni sul posto di lavoro, dato che non è licenziabile fino a quando non abbia maturato la «pensionabilità per vecchiaia» (la «pensionabilità per anzianità» - 57 più 35 o 40 di contributi - infatti non basta per essere licenziabili). La proposta Alleva non è finanziata da «tesoretti» o stanziamenti pubblici, ma dagli stessi contributi dei lavoratori: non danneggia l'Inps né i conti pubblici (soddisfacendo dunque chi difende lo «scalone» o gli «scalini»), e assicura non solo pensioni più alte (fino all'82%-90% o addirittura vicine al 100% dell'ultima retribuzione), ma anche redditi complessivi più ricchi mentre si resta al lavoro.
Alleva, come è possibile ottenere tutto questo insieme?
Partiamo innanzitutto dalla mia prima proposta, e poi - subito dopo - spiegherò come l'ho integrata per spingere la permanenza al lavoro fino ai 65 anni di età o anche oltre i 40 di contributi. Ovviamente sempre per chi voglia farlo. Dunque, la «prima fase» della mia proposta è indirizzata a chi voglia fermarsi al lavoro dopo aver raggiunto i 57 anni di età e i 35 di contributi. Oggi, con il metodo retributivo, che prevede un 2% di rendimento ogni anno lavorato, la pensione può arrivare al 70% dell'ultimo stipendio, o al massimo all'80% se hai 40 anni di contributi. Io propongo che chi si ferma al lavoro possa far pesare di più gli anni di ritardo dell'uscita sulla futura pensione: si può arrivare fino a 60 anni di età maturando il primo anno il 3%, il secondo il 4%, il terzo il 5%. Ovviamente si può uscire alla fine di ogni anno, a 58, 59 o 60: non è obbligatorio farli tutti e tre. Così si potrà avere alla fine del percorso un assegno pensionistico più ricco del 12%, maturando l'82% dell'ultima retribuzione.
Vogliamo fare un esempio concreto?
Certo: poniamo che il lavoratore di cui parliamo abbia una retribuzione di 20 mila euro annui. Oggi può andare in pensione, con 57 anni e 35, ricevendo un importo pari al 70%, cioè circa 14 mila euro all'anno. Nell'ipotesi che invece faccia 40 anni di contributi, avrà l'80%, cioè circa 16 mila euro. Con la mia proposta, matura 1200 euro in più ogni anno, e può arrivare all'82% della retribuzione, pari a un assegno di 17.200 euro annui. L'Inps non ci perde, ma anzi resta in attivo, visto che per 3 anni non eroga la pensione e continua a incassare i contributi: ma per non caricare il lettore di numeri, lo rimando al primo articolo pubblicato sul manifesto del 21 giugno scorso, dove faccio il calcolo dettagliato.
Così abbiamo appurato che l'incentivo è abbastanza sostanzioso: perché invece di 14 mila euro di pensione annui, il lavoratore che voglia fermarsi per altri tre - fino a 60 - ne maturerebbe ben 17.200. La nuova proposta parla di una «fase due»: fermarsi al lavoro fino a 65 anni. Cosa prevede?
La proposta per la «fase due» è semplice perché in qualche modo prevede un prolungamento della «fase uno», ma in più aggiunge anche un arricchimento del reddito mentre si lavora. Il tutto, non a scapito della contribuzione, come invece prevede l'incentivo super-bonus Maroni. La mia proposta prevede che chi sceglie di lavorare oltre i 60 anni abbia due possibilità davanti a sé: la prima è che ritorni alla vecchia percentuale di rendimento annuo per la futura pensione (2%) e che nel contempo riceva ogni mese un assegno dall'Inps, integrativo allo stipendio, pari al 30% della pensione già maturata. So bene che sto derogando doppiamente alle normative vigenti: non solo il principio di non cumulo tra reddito da lavoro e pensione, ma per giunta si percepisce la pensione permanendo nello stesso posto di lavoro. Ma credo che già le leggi vigenti siano state superate nella proposta di portare la pensione oltre l'80% rispetto alla retribuzione. Ebbene, in questo modo, maturando appunto altri 2% per 5 anni (ma anche qui, non è obbligatorio fermarsi fino a 65, la permanenza si sceglie ogni anno), arrivo oltre il 90% dell'ultima retribuzione. In più, in tutti gli anni che mi sono fermato al lavoro, ho un reddito più sostanzioso. Dall'altro lato, se non voglio questo 30% subito, ma preferisco una pensione ancora più ricca in uscita, posso optare per la seconda via del bivio: far valere ogni anno di lavoro in più dal sessantesimo al sessantacinquesimo, invece che il 2%, ad esempio il 3%. Arrivo a maturare un assegno che è quasi il 100% dell'ultima retribuzione.
Facciamo di nuovo un esempio.
Sì, il nostro lavoratore con 20 mila euro di reddito annui, se sceglie di prendere come incentivo il 30% della pensione maturata, riceve ogni anno una somma di 4.920 euro, aggiunti alla sua retribuzione, che sono pari a 370 euro al mese. In più, se si è fermato per 5 anni, a questo punto ha maturato un assegno annuale di circa 18 mila euro. Se non vuole, viceversa, il 30% subito, matura un futuro assegno di quasi 20 mila euro annui.
Ma l'Inps non ci perde così?
No, e spiego perché: nel caso che quel lavoratore fosse andato in pensione a 60 anni, l'Inps avrebbe dovuto da quel momento pagargli 16.400 euro l'anno e cessato di riscuotere 6.600 euro di contributi (33% di 20 mila). Dal momento invece che resta in servizio gli paga solo il 30% della pensione pari a 4.920 euro - che si aggiunge però alla retribuzione. L'Inps risparmia 18 mila euro circa l'anno, (16.400+6.600-4.920) e quindi, nel quinquennio, circa 90 mila euro, ove il lavoratore percorra la via dell'incentivo fino in fondo, ossia fino ai 65 anni. In questo modo ho cercato di costruire una sorta di «ponte», di «bretella», tra la pensionabilità di anzianità (57 anni) e quella di vecchiaia (65), che molti lavoratori dovrebbero razionalmente essere invogliati a percorrere. Si prevedono non obblighi, ma incentivi sostanziosi, e che non gravano sull'Inps o sui conti pubblici.

Wednesday, July 04, 2007

L'ultimo articolo di Claudio Rinaldi

Ammetto di non provare una particolare simpatia per Vincenzo Visco. Ritengo sbagliata e inutilmente punitiva la sua politica tributaria; escludo che contro l’evasione fiscale stia facendo i miracoli di cui certuni favoleggiano; trovo disdicevole, in lui come in qualsiasi uomo politico, l’assoluta mancanza di cordialità; e deploro che, davanti alle polemiche sul suo conflitto con l’ex comandante della Guardia di finanza, non abbia sentito il dovere di illustrare personalmente le sue ragioni al Parlamento o all’opinione pubblica.

Dunque non sono obiettivo, tanto che sull’Espresso ho redarguito il governo Prodi perché non ha approfittato dello scontro con la Gdf per liberarsi dell’impopolare viceministro.

Però non mi sento affatto fazioso a danno di Visco se adesso, dopo la notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati della Procura di Roma, dico che farebbe bene a dimettersi dal suo delicato incarico.

Lo so, è possibilissimo che presto le ipotesi accusatorie contro di lui (abuso di ufficio e minacce verso il generale Roberto Speciale) cadano. Glielo auguro sinceramente. In caso contrario, varrebbe anche per lui la presunzione di innocenza che la Costituzione stabilisce per chiunque non abbia riportato una condanna definitiva.

Ma esistono ragioni di opportunità politica che dovrebbero consigliare a Visco un sano passo indietro.

Spiace doverlo ricordare, ma nel sordido governo Berlusconi ben tre personaggi di peso non esitarono a farsi da parte quando, benché non fossero indagati da alcuna magistratura, diventarono bersaglio di duri attacchi politici, a causa di comportamenti di pessimo gusto o semplicemente folcloristici.

Carlo Taormina si dimise da sottosegretario agli Interni perché aveva dichiarato che certi pm milanesi avrebbero dovuto essere arrestati. Claudio Scajola si dimise da ministro dell’Interno perché aveva confidato a due giornalisti che il povero Marco Biagi era «un rompicoglioni». Roberto Calderoli si dimise da ministro delle Riforme perché aveva indossato una t-shirt recante stampata una vignetta antiislamica.

Se si va a casa in seguito a comportamenti del tutto privi di rilievo penale, dubito che sia lungimirante rimanere attaccati a una poltrona dopo che si è appreso di essere oggetto di indagini addirittura per minacce.

Certo Visco non è tipo da farsi tanti problemi, visto che giorni fa si è presentato alla cerimonia di insediamento del nuovo comandante della Gdf benché fosse già stato spogliato della delega al controllo delle Fiamme gialle.

Ognuno ha la sua sensibilità.

Va detto, però, che è l’intero governo Prodi a considerare irrilevante, almeno così sembra, l’iscrizione di un proprio membro in qualche registro degli indagati.

Un esempio? L’ex capo della polizia Gianni De Gennaro è indagato a Genova, eppure ha conquistato senza colpo ferire l’appetitoso posto di capo di gabinetto del ministro dell’Interno.

Perfetto, Giavazzi !

Oggi in Italia vi sono tre anziani, persone dai 65 anni in su, ogni dieci persone in età di lavoro, 15-64 anni. Fra quindici anni ve ne saranno quattro; nel 2050, quando i nostri figli vorranno andare in pensione, sette. Cioè dieci persone in età di lavoro dovranno produrre abbastanza per sostenerne oltre 17 (oltre, perché ci saranno anche dei bambini e dei ragazzi in età inferiore ai sedici anni).
Ma in Italia, come si sa, la partecipazione al mercato del lavoro è molto bassa: non tutte quelle dieci persone in età di lavoro lavoreranno. Si stima così che nel 2050 ogni lavoratore dovrà sostenere più di due persone: se stesso, un anziano e forse anche un bambino. E’ evidente che a quel punto o si lavorerà più a lungo, ben oltre i 65 anni, oppure la pensione non garantirà più una vecchiaia dignitosa. E’ giusto che oggi si vada in pensione a 57 anni, sapendo che i nostri figli dovranno lavorare fino ai settanta? In Spagna e Olanda il limite d’età è 65 anni; in Svezia 65 anni con 40 anni di contributi; in Germania 63 anni e 35 anni di contributi; in Francia, dal 1˚ gennaio, si dovrà aver versato 40 anni di contributi; in Svizzera 65 anni e 44 di contributi.
Si legge a pagina 169 del programma elettorale dell’Unione: «Con la tendenza all’aumento della vita media, l’allungamento graduale della carriera lavorativa dovrebbe diventare un fatto fisiologico». Appunto! Dal 1˚ gennaio prossimo entrerà in vigore la legge Maroni che innalza da 57 a 60 anni l’età minima per andare in pensione con 35 anni di contributi. La legge è stata approvata nel 2004, con tre anni di anticipo rispetto all’entrata in vigore.
Questo perché il governo Berlusconi accettò la richiesta dei sindacati di un congruo preavviso. I tre anni di preavviso sono trascorsi ed è venuto il momento di applicare ciò che prevede la legge. I sindacati, che pure avevano accettato la legge Maroni, ora esigono un nuovo slittamento dei tempi che consenta una maggior gradualità nel cambiamento delle regole. Ma se preferivano un innalzamento graduale dell’età di pensione, perché non lo hanno accettato tre anni fa? Oggi saremmo arrivati all’età minima di 60 anni senza scaloni.
La verità, come ha scritto Tito Boeri su La Stampa — e sostenuto Emma Bonino ieri a Roma — è che sindacati e sinistra radicale non vogliono alcun innalzamento dell’età: preferiscono un gigantesco scalone — dai 57 a 70 anni—purché non si applichi a noi ma solo ai nostri figli. Spesso i governi di sinistra che hanno più successo sono quelli preceduti da un governo di destra. Il motivo è che la destra è meno condizionata dai sindacati e spesso questo le consente di risolvere questioni —mercato del lavoro, pensioni — che per la sinistra è più complicato affrontare.
Il decennio di Tony Blair non avrebbe ottenuto valutazioni tanto favorevoli se prima di lui non avesse governato Margaret Thatcher. Lo stesso sta accadendo in Spagna a José Luis Zapatero, che governa sull’onda delle riforme varate da José Maria Aznar. A Parigi i socialisti più intelligenti sperano che il tentativo di Sarkozy di trasformare la Francia, dal mercato del lavoro alle università, abbia successo per poi ereditare un Paese trasformato. Romano Prodi non ha questa fortuna: Berlusconi, nonostante l’ampia maggioranza in Parlamento, ha per lo più sprecato occasioni, soprattutto quando si trattava di liberalizzare l’economia.
Ma in due aree il centro-destra ha varato riforme significative: nel mercato del lavoro, con la legge Biagi e sulle pensioni con la legge Maroni. In entrambi i casi basta applicare leggi già in vigore. Si può essere tanto miopi da non seguire l’esempio di Blair e Zapatero e gettare al vento questa occasione?

La sofferenza degli stati-nazione al tempo dell'impero Usa

Nel contesto delle relazioni internazionali, il segnale del passaggio da un ordine mondiale basato sul consenso tra gli stati-nazione a un mondo basato sulla coercizione praticata da una singola superpotenza si è avuto nel giugno del 2002, quando il presidente George W. Bush jr rese pubblica la sua nuova politica per la sicurezza nazionale. Per la maggior parte degli americani, l'11 settembre 2001 il mondo era cambiato in modo irrevocabile: Bush alimentò questa convinzione quando, nel suo discorso sullo stato dell'Unione del febbraio 2002, affermò che di fronte a un nemico senza stato gli Stati Uniti non avrebbero più potuto fare affidamento sugli strumenti di deterrenza tradizionali per prevenire attacchi contro la propria popolazione e il proprio territorio.
Dopo la fine della guerra fredda
Gli Stati Uniti avrebbero pertanto dovuto prevedere in quali luoghi tali attacchi potevano essere preparati e assumere azioni preventive per impedire l'attuazione degli attacchi stessi. Ma un esame più approfondito del modo in cui si è evoluta la politica estera e militare americana dopo la guerra fredda dimostra come il passaggio dagli interventi finalizzati alla difesa del sistema degli stati-nazione agli interventi tesi a minare tale sistema sia iniziato molto tempo prima.
L'evento scatenante fu la fine della guerra fredda, nel 1989. Nei quindici anni successivi, quella che era iniziata come una serie di tentativi di intervento militare finalizzati all'ingerenza negli affari interni di altri paesi si trasformò in un assalto frontale all'istituzione dello stato-nazione e all'ordine westfaliano. I primi interventi militari dell'era successiva alla guerra fredda, finalizzati alla riorganizzazione di uno stato-nazione attraverso un intervento decisivo nei suoi affari politici interni, sono stati attuati in Bosnia, nella Somalia e a Haiti tra il 1992 e il 1994, e sono stati interventi minori che hanno coinvolto dalle 3000 alle 25.000 unità di truppe terrestri statunitensi. Tutti questi interventi furono portati avanti sotto il mandato del Consiglio di sicurezza dell'Onu.
Un cambiamento irreversibile
C'è poi voluto meno di un decennio perché gli Stati Uniti, sostenuti dal Regno Unito, passassero a un'invasione non provocata dell'Iraq con 200.000 uomini, nonostante la forte opposizione dell'opinione pubblica mondiale, senza le autorizzazioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e con gli espliciti obiettivi messianici di abbattimento del regime di Saddam Hussein e successivo insediamento di un governo amico degli Stati Uniti, dell'Occidente e di Israele, e di trasformazione dell'Iraq in una democrazia modello e in un esempio per il resto del mondo arabo.
Pertanto, è difficile non concludere che qualcosa sia cambiato irreversibilmente a partire dalla fine della guerra fredda, un cambiamento che ha esercitato una pressione senza tregua sulla potenza egemone spingendola all'attuazione di interventi sempre piú diffusi e frequenti e sempre piú invasivi negli affari interni degli stati membri delle Nazioni Unite. Questa pressione stava rendendo sempre piú difficile il mantenimento del sistema westfaliano configurato dalla carta costitutiva delle Nazioni Unite.
Quel cambiamento irreversibile fu l'avvento del capitalismo globale, che a partire dagli anni Settanta iniziò a minare le fondamenta economiche dello stato-nazione allo scopo di creare un unico sistema globale di commercio e produzione. Negli anni Novanta, questo processo iniziò a rimodellare il sistema politico e quello internazionale per adeguarli ai propri scopi. In un saggio scritto all'inizio degli anni Novanta, Jürgen Habermas aveva sottolineato che, poiché la democrazia era stata creata per sostenere le finalità degli stati-nazione, la sua sopravvivenza avrebbe potuto essere messa in serio pericolo in caso di crollo di queste istituzioni.
I timori di Habermas si rivelarono ben fondati. La prima vittima dell'attacco alla democrazia fu il sistema di stati-nazione nato con il trattato di Westfalia e il Congresso di Vienna, e consacrato, nella sua piú recente espressione, dalla Carta delle Nazioni Unite. Il trattato di Westfalia fu firmato nel 1648 dalla Francia e dai suoi alleati con il re Ferdinando II di Spagna, per porre fine alla guerra dei trent'anni che aveva devastato l'Europa. Per raggiungere tale scopo, il trattato legittimò i governi esistenti, ricompose le loro dispute territoriali e stabilì le regole di base per i futuri rapporti reciproci tra gli stati. Questo processo stabilizzò le frontiere e diede vita al concetto di sovranità nazionale, i due attributi essenziali del moderno stato europeo.
-I princìpi che governavano le relazioni tra gli stati emersi dal trattato di Westfalia furono poi formalizzati dal Congresso di Vienna. Sebbene i confini tracciati da questi trattati siano stati alterati piú volte dalle ambizioni egemoniche dell'una o dell'altra potenza europea, i princìpi fondamentali che li avevano ispirati vennero invariabilmente riaffermati, e l'ordine del trattato di Westfalia ripristinato, ogniqualvolta la pace si riaffermava. Quei princípi erano il rispetto della sovranità e dei confini nazionali e il rifiuto di intervenire negli affari interni di un altro stato sovrano, perché qualsiasi intervento del genere sarebbe stato considerato alla stregua di un atto ostile.
Gli strumenti attraverso i quali fu mantenuto il nuovo ordine furono la diplomazia e la strategia militare. Lo scopo della diplomazia era quello di mantenere un equilibrio di potere nell'ambito della comunità delle nazioni, mentre la strategia militare agiva come deterrente contro le aggressioni. Nella pratica, il sistema westfaliano non riuscì a prevenire le guerre: nel Seicento e nel Settecento le principali nazioni europee combatterono tra loro 60-70 conflitti durante ciascun secolo. Tuttavia, riuscì a instillare in tutte le nazioni una profonda avversione per le azioni di disturbo dello status quo, e nel contempo la disapprovazione per le aggressioni non provocate di un paese ai danni di un altro. L'ordine westfaliano raggiunse l'apice della sua efficacia durante la pace dei cent'anni, tra il 1815 e il 1914. Dopo la sconfitta della Germania nella seconda guerra mondiale, l'ordine westfaliano riprese vigore ottenendo poi una definitiva consacrazione nella Carta costitutiva delle Nazioni Unite. L'Articolo 1 limitava la partecipazione esclusivamente agli stati sovrani. L'Articolo 2(4) imponeva agli stati di «astenersi, nell'ambito delle relazioni internazionali, dalla minaccia o dall'uso della forza ai danni dell'integrità territoriale o dell'indipendenza politica di qualsivoglia stato, o comunque da qualsiasi iniziativa in contrasto con le finalità delle Nazioni Unite». L'Articolo 2(7) proibiva non solo agli stati membri ma alle Nazioni Unite nel loro complesso di intervenire negli affari interni degli altri stati: «Nessuna disposizione del presente statuto potrà autorizzare le Nazioni Unite a intervenire nell'ambito di questioni essenzialmente di pertinenza della giurisdizione nazionale di qualsivoglia stato». Rafforzato dalla minaccia di «distruzione reciproca garantita», che emerse con lo sviluppo delle armi nucleari, il sistema delle Nazioni Unite impedì l'esplosione di guerre di grandi dimensioni durante i cinquant'anni di guerra fredda. Solo quando l'avvento del capitalismo globale iniziò a minare gli stessi stati-nazione, il sistema iniziò a essere sottoposto a serie tensioni. Come potenza egemonica del XX secolo - il cosiddetto «secolo breve» - intenta a estendere la propria egemonia nell'era del capitalismo globale, gli Stati Uniti hanno guidato l'attacco al sistema degli stati-nazione e all'ordine westfaliano internazionale. I critici di area liberal dell'espansionismo statunitense escludono l'ipotesi di un cambiamento rapido e ritengono che la fine della guerra fredda abbia fatto riaffiorare una tendenza imperialista nella politica estera statunitense le cui origini risalgono alla dottrina Monroe. (...)
La vittoria nella guerra fredda e la successiva «Rivoluzione degli affari militari» di fatto rimossero solo l'ultimo ostacolo al consolidamento dell'impero americano. La debolezza di questa ipotesi sta nella sua presunzione di continuità. Indubbiamente, la creazione di una rete di basi militari e l'acquisizione del territorio su cui costruirle sono state un processo continuo. I primi passi furono compiuti nel decennio successivo alla guerra ispanoamericana del 1896, quando l'America installò basi militari in luoghi distanti tra loro come Guam, Hawaii, Filippine, il canale di Panama, Porto Rico e Cuba. Ma furono la seconda guerra mondiale e poi la guerra fredda a consentire agli Stati Uniti di ampliare la loro rete di basi in Europa occidentale, Okinawa, Giappone, Corea, Tailandia, Australia e Nuova Zelanda. L'espansione della presenza militare degli Stati Uniti continuò anche dopo la fine della guerra fredda. Dopo la prima guerra del Golfo, nuove basi americane sorsero in Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Bahrain, Oman, Egitto e Gibuti. La disgregazione della Jugoslavia divenne il pretesto per la creazione di basi in Bosnia e Kosovo e quella dell'Unione Sovietica condusse alla creazione di basi in Uzbekistan, Kazakistan, Turkmenistan e Kirghizistan. Dopo l'11 settembre, gli Stati Uniti costrinsero il Pakistan, di fatto con la minaccia delle armi, a unirsi alla nuova guerra globale contro il terrorismo: il Pakistan concesse agli Stati Uniti l'uso delle basi aeree di Jacobabad, Pasni e Quetta. Infine, dopo la guerra afghana, gli Stati Uniti hanno acquisito tre ulteriori basi aeree in Afghanistan: a Bagram, nei dintorni di Kabul, a Mazar-i- Sharif, a nord della catena dell'Hindu Kush e a Kandahar, nel sud del paese.
Ma questa continuità maschera, e quindi impedisce di riconoscere, una differenza molto importante nel modo in cui le basi furono create. Alcune lo furono attraverso la coercizione, e cioè l'invasione o la minaccia di invadere un territorio appartenente a un altro stato sovrano. Le restanti, e si tratta comunque della maggior parte, furono create con il pieno consenso delle nazioni interessate. Inoltre, la scelta del metodo per ampliare la potenza e la sfera di influenza americana non fu casuale.
I cicli del capitalismo
Gli Stati Uniti ricorsero alla coercizione per acquisire territori o basi in due periodi distinti: il primo nell'ultima decade del XIX e nella prima decade del XX secolo, il secondo dopo la guerra fredda, e in particolare dopo l'11 settembre. A cavallo dei due periodi, con rare eccezioni, l'ampliamento della potenza militare e dell'influenza degli Stati Uniti è stato tollerato o, addirittura, accolto con favore dalle nazioni interessate. La ragione di questa differenza va ricercata nell'espansione ciclica del capitalismo. Il primo ricorso alla forza coincise con l'avvento del caos sistemico che contrassegnò la fine del terzo ciclo di espansione e, di conseguenza, dell'egemonia britannica. Il secondo ricorso alla forza è una risposta al caos sistemico che è stato innescato dalla fine del quarto ciclo di espansione del capitalismo e dall'avvento del quinto, cioè la globalizzazione. Questo è il riflesso del tentativo americano di forgiare il nuovo ordine mondiale e di stabilire la propria egemonia sopra di esso. L'esteso e pacifico ampliamento della rete di basi americane tra queste due epoche rispecchiava invece il consolidamento dell'egemonia americana durante il quarto ciclo di espansione del capitalismo.
Allarme a livello mondiale
Il processo fu reso più semplice dall'assunzione da parte degli Stati Uniti del ruolo di stato amico e protettore durante la seconda guerra mondiale e la guerra fredda, e dal fatto che l'espansione del capitalismo che innescò la crescita degli Stati Uniti ebbe luogo nel quadro del sistema westfaliano degli stati-nazione. Di contro, l'espansione della potenza americana dopo l'11 settembre, soprattutto in Afghanistan, Pakistan e Iraq, rivela il palese disprezzo per la sovranità nazionale ed evidenzia l'intento di sostituire il sistema westfaliano con un impero americano costruito sulla supremazia militare e sulla costante minaccia del ricorso alla forza. Questo ha innescato un allarme a livello mondiale e ha costretto i paesi che in precedenza avevano accettato di ospitare le basi e l'egemonia militare americana a riconsiderare l'opportunità di continuare a ospitarle. Ha inoltre già spinto l'Arabia Saudita a chiedere agli Stati Uniti di chiudere le basi sul proprio territorio e convinto Francia, Germania e Belgio a rilanciare la proposta per la creazione di una forza difensiva europea al di fuori dell'ombrello della Nato. Ha inoltre allarmato i liberal americani non solo perché trovano ripugnante l'idea di un impero americano, ma anche perché questa strategia sta distruggendo l'egemonia creata, in modo prevalentemente pacifico, durante il «secolo americano».

Thursday, June 28, 2007

Finalmente la verità

Even as one of the principal architects of the Iraq war washes his hands of the whole bloody mess, there is still only a vague understanding of the real reason behind the invasion, but evidence of the intense interest of the international oil companies continues to build. Only last week, ExxonMobil chief executive Rex Tillerson said in London: "We look forward to the day when we can partner with Iraq to develop that resource potential." Despite their interest and influence, however, the decision to attack was not taken in the boardroom. Iraq was indeed all about oil, but in a sense that transcends the interests of individual corporations, however large.
The elephant in the drawing room was the fact that global oil production is likely to peak within about a decade. Aggregate oil production in the developed world has been falling since 1997, and all major forecasters expect world output excluding Opec to peak by the middle of the next decade. From then on everything depends on the cartel, but unfortunately there is growing evidence that Opec's members have been exaggerating the size of their reserves for decades.

Oil consultancy PFC Energy briefed Dick Cheney in 2005 that on a more realistic assessment of Opec's reserves, its production could peak by 2015. A report by the US Department of Energy, also in 2005, concluded that without a crash programme of mitigation 20 years before the event, the economic and social impacts of the oil peak would be "unprecedented". The evidence suggests these fears were already weighing heavily with Cheney, Bush and Blair.

In a world of looming shortage, Iraq represented a unique opportunity. With 115bn barrels, it had the world's third biggest reserves, and after years of war and sanctions they were the most underexploited. In the late 1990s, production averaged about 2m barrels, but with the necessary investment its reserves could support three times that. In a report to the security council, UN inspectors warned in January 2000 that sanctions had caused irreversible damage to Iraq's reservoirs. But sanctions could not be lifted with Saddam still in place.

Cheney knew, fretting about global oil depletion in a speech in London the following year, where he noted that "the Middle East with two thirds of the world's oil and lowest cost is still where the prize ultimately lies". Blair too had reason to be anxious: British North Sea output had peaked in 1999, while the petrol protests of 2000 had made the importance of maintaining the fuel supply excruciatingly obvious.

Britain's and the US's fears were secretly formalised during the planning for Iraq. It is widely accepted that Blair's commitment to support the attack dates back to his summit with Bush in Texas in April 2002. What is less well known is that at the same summit, Blair proposed and Bush agreed to set up the US-UK Energy Dialogue, a permanent liaison dedicated to "energy security and diversity". Its existence was only later exposed through a freedom of information inquiry.

Both governments refuse to release minutes of Dialogue meetings, but one paper dated February 2003 notes that to meet projected demand, oil production in the Middle East would have to double by 2030 to more than 50m barrels a day. So on the eve of the invasion, UK and US officials were discussing how to raise production from the region - and we are invited to believe this is coincidence. The bitterest irony is, of course, that the invasion has created conditions that guarantee oil production will remain hobbled for years to come, bringing the global oil peak that much closer. So if that was plan A, what on earth is plan B?

· David Strahan is the author of The Last Oil Shock: A Survival Guide to the Imminent Extinction of Petroleum Man


Tuesday, June 26, 2007

L'Europa Piagnona

Curiosiamo nel web e troviamo un
giornalista della Bbc (della Bbc!) da
mesi in ostaggio degli islamisti, imprigionato
da una cintura esplosiva. Clicchiamo
e c’è la voce del caporale Shalit,
umiliato e offeso da un anno di prigionia
in nome di chi bestemmia il proprio
dio clemente e misericordioso. Il
fragile e un po’ fatuo Salman Rushdie è
ancora sotto fatwa, e ce lo hanno ricordato
quando è diventato baronetto della
regina. Robert Redeker vive ancora
semiclandestino. Gaza è nelle mani di
un branco di assassini che si chiama
Hamas, appoggiati fattivamente dai qaidisti
di al Zawahiri. Di Hamas ci era
stato detto dai realisti dei nostri stivali
che bisognava coccolarli, specie dopo
la loro vittoria elettorale, perché sarebbero
diventati buoni, dovevamo
pensare la complessità del problema,
del reale, del welfare, e della disperazione
di un popolo, dovevamo finanziarli,
trattare, e nel frattempo centinaia
di morti ammazzati con metodi tribali
inauditi, con ferocia religiosa, come
è stato per Fatah al Islam in Libano,
un bell’eccidio tra musulmani fino allo
squartamento di sei soldati spagnoli.
Ma noi ci preoccupiamo della nostra
buona coscienza, non riconosciamo lo
stato di guerra internazionale, siamo ridicolmente
divisi, in Afghanistan si
sente solo la lagna dell’occidente che
non combatte (Italia in prima linea: nella
lagna), fino a coprire il rumore della
battaglia contro i talebani, che adesso
riavranno i loro ospedali di Gino Strada.
L’occidente euro-umanitario che si
fa rapire, decollare, ricattare, che filosofeggia
sulle colpe di Israele nel ritiro
unilaterale, che non si accorge delle sinagoghe
che bruciano, dei cristiani cacciati
e martirizzati, che si volta dall’altra
parte ogni volta che c’è da guardare
la realtà in faccia, e che tollera l’infamia
della guerra islamista dispiegata,
non merita solo la critica o un’amorevole
compassione per il destino che si
sceglie: merita il disprezzo

Saturday, June 09, 2007

La migliore notizia dell'anno, i costi del fotovoltaico scendono sempre di più

I costi di produzione delle celle fotovoltaiche stanno crollando, e così nei prossimi anni il solare diventerà una «opzione di mainstream» per la produzione di energia elettrica. Lo sostiene il Worldwatch institute di Washington in un documento elaborato insieme al Prometheus Institute di Cambridge, Massachusetts e diffuso un paio di settimane fa. È interessante, proprio mentre la questione del clima è all'ordine del giorno di vertici mondiali - contrastare il riscaldamento abnorme dell'atmosfera terrestre significa ridure le emissioni di gas «di serra» come l'anidride carbonica, emessa nei processi di combustione e in particolare quando si bruciano combustibili fossili: dunque produrre più energia con fonti alternative al petrolio (e rinnovabili). L'energia del sole è una delle alternative ideali. E però un po' i costi, un po' le volontà politiche, fanno sì che per il momento il pannello fotovoltaico resti un'opzione minore.
Almeno il primo alibi però, quello dei costi, comincia a venir meno. In effetti i costi di produzione sono già parecchio calati rispetto a venti o trent'anni fa, e ora vediamo un crollo. Solo dall'anno 2000 l'industria del fotovoltaico è cresciuta sei volte, ed è cresciuta del 41% nel solo anno 2006. È vero che l'energia elettrica solare nelle reti rappresenta ancora meno dell'1% dell'elettricità mondiale: ma nel 2006 è aumentata del 50%, fa notare il Worldwatch. (A parte bisognerebbe notare che parte della produzione di energia solare non entra nelle reti perché fatta su piccolissima scala per un consumo localizzato in luoghi remoti: il pannello accanto alla casa di un villaggio amazzonico porta l'energia elettrica là dove non arriveranno mai i cavi della rete di distribuzione, ma non entra nei conteggi. Per «utenze isolate», chiamiamole così, il solare non è un'energia alternativa ma l'unica possibile). Ma torniamo alla produzione contabilizzata nelle reti: a guidare il boom sono la Germania e il Giappone; la Spagna entrerà nel gruppo nel corso di quest'anno (grazie alla sua nuovissima centrale solare) e gli Stati uniti seguono da presso.
Finora, nota il Worldwatch, la crescita è stata limitata da una penuria di produzione industriale di polisilicio purificato, necessario per le celle fotovoltaiche (lo stesso materiale dei semiconduttori alla base dell'industria elettronica: ma nel 2006 per la prima volta più di metà del polisilicio prodotto al mondo è stato usato per farne celle fotovoltaiche). Questo cambierà nei prossimi due anni, quando entreranno in produzione oltre una decina di produttori di polisilicio in Europa, Cina, Giappone e negli Usa. L'aumentata disponibilità, insieme ai nuovi progressi della tecnologia, farà abbassare i costi di almeno il 40% nei prossimi tre anni, secondo le stime dell'istituto Prometheus. Anche qui, come in molti altri settori, spingere i costi verso il basso in particolare è la Cina con la sua sete di energia, l'ampia disponibilità di manodopera e la sua forte base industriale,. La maggiore novità del 2006 è stata la crescita della capacità produttiva cinese, che ha sorpassato gli Stati uniti (patria della prima moderna cella fotovoltaica, prodotta dai Bell Labs negli anni '50): ora la Cina è il terzo produttore di celle fotovoltaiche dopo Germania e Giappone. La prima azienda cinese produttrice, Suntech Power, era l'ottavo produttore mondiale nel 2005 e il quarto nel 2006 (e il suo presidente è diventato uno dei cinesi più ricchi).
Nel frattempo la penuria di materia prima (polisilicio) ha portato i produttori a usarlo in modo più efficiente, accelerando così l'emergere di tecnologie che non si basano sul polisilicio purificato e sono anche meno care, le cosiddette celle sottili fatte di silicio amorfo e altri materiali meno costosi. Tutto questo, conclude il Worldwatch Institute, significa che il fotovoltaico sta diventando una opzione valida e competitiva per produrre elettricità senza emettere anidride carbonica. Bisognerà che anche i pianificatori italiani ne prendano nota, visto che restiamo agli ultimi posti...

Sunday, June 03, 2007

Andare in galera in America

Rimane un mistero come il paese che si vuole il paladino della libertà nel mondo si sia trasformato nella società più carceraria del pianeta. Intorno agli anni '70 gli Stati Uniti avevano una percentuale di detenuti, rispetto all'intera popolazione, paragonabile a quella dei paesi dell'Europa occidentale, oggi invece vi si pratica il più grande internamento mai registrato in una democrazia parlamentare. Nel 2004 su centomila abitanti c'erano settecentosessanta carcerati, contro i quarantasette del Giappone, gli ottanta della Francia, i novantaquattro dell'Italia. Negli Usa cioè ci sono sedici volte più prigionieri che in Giappone e otto volte più che in Italia. Solo la Russia del dopo guerra fredda ha cifre paragonabili: settecentotrenta detenuti ogni centomila abitanti. Se a costoro si aggiunge chi è in libertà condizionata o per buona condotta, negli Usa il totale dei sorvegliati superava i 4,3 milioni di persone nel 1990 e i sette milioni nel 2004. Cioè, a ogni momento, negli Stati Uniti più di tre adulti su cento sono presi nelle maglie della giustizia.
Non stupisce che l'argomento susciti la curiosità di giornalisti e ricercatori. Quasi sempre prevale uno sguardo sociologico, come nel libro di un discepolo di Pierre Bourdieu, Loïc Wacquant (Punire i poveri). Diversa è la prospettiva di Elisabetta Grande che, pur passando in rivista tutti gli aspetti della carcerizzazione americana, guarda il fenomeno da un angolo meno battuto e si chiede quali siano i meccanismi di indagine, processuali e giudiziari, che hanno spedito così tante persone dietro le sbarre. Il titolo del suo libro Il terzo strike. La prigione in America (con una nota di Adriano Sofri; Sellerio, pp. 168, euro 15) ricorda quella disposizione, approvata a schiacciante maggioranza per referendum popolare prima in California e poi in altri stati, per cui la terza condanna, anche per reati non gravi, comporta automaticamente l'ergastolo: three strikes and you are out. Al terzo «colpo» ti chiudono in cella e «buttano via la chiave».
Elisabetta Grande riporta casi orripilanti: per esempio, un uomo condannato all'ergastolo (con la clausola che potrà uscire in libertà vigilata non prima di aver scontato cinquant'anni) per aver rubato nove videocassette dal valore complessivo di centocinquanta dollari, solo perché aveva precedenti per furto e trasporto di marijuana; o un altro recidivo punito con il carcere a vita per aver rubato un pezzo di carne del valore di 5 dollari e 62 centesimi (4,19 euro) che oltretutto serviva per nutrire il fratello handicappato e la madre, entrambi affamati perché la pensione di quest'ultima era andata persa nella posta.
Quella che si è persa per strada è l'idea che la pena debba essere proporzionale alla gravità del reato. A questo proposito il libro usa spesso un termine giuridico assai suggestivo: parla di reati bagatellari, di ergastolo bagatellare. È stravolta cioè la nozione stessa di pena giudiziaria e viene meno anche l'ipocrisia borghese della pena come strumento ortopedico, quel redimere attraverso il punire che Michel Foucault ha dissezionato in modo magistrale. Se potessero, i giudici statunitensi farebbero come i loro colleghi delle potenze coloniali di un tempo, spedirebbero i detenuti in Caienna o in Siberia.
Elisabetta Grande segue nei meandri giudiziari l'accumularsi di piccoli dispositivi che messi insieme affollano le prigioni. Due esempi. Uno è basato sull'idea che la verità processuale venga decisa dalla battaglia fra difesa e accusa durante il dibattimento. Ma poiché gli avvocati bravi si fanno pagare dai trecento ai mille dollari per ogni ora di lavoro, gli imputati disagiati possono ricevere solo una difesa d'ufficio che viene svolta da avvocati inesperti o in declino, sopraffatti da una mole immane di lavoro e pagati una miseria: «In Georgia, nel 2002, tre avvocati della stessa famiglia hanno rappresentato in giudizio 776 persone indigenti per un costo medio a imputato di 49,86 dollari (37,21 euro)... Sempre in Georgia un avvocato designato dalla corte si trovò a difendere 94 imputati nello stesso giorno». La debolezza della difesa d'ufficio fa sì che sia più facile per i pubblici ministeri far condannare i poveri e quindi rimpolpare il proprio palmarès di condanne, indispensabile per lanciarsi nella carriera politica. Per la stessa ragione i difensori d'ufficio tendono ad abusare del plea bargaining, il patteggiamento prima del processo, con ammissione di colpa anche in caso d'innocenza: meglio uno sconto di pena che la lotteria del processo. Ne deriva la moltiplicazione del numero di recidivi e quindi di coloro che rientrano nell'incubo del terzo strike. Il numero dei detenuti diventa così una variabile indipendente che non ha nulla a che vedere con il numero e la gravità dei reati realmente commessi, ma è correlato piuttosto al tasso di ansia «sicuritaria» che mass media e politici riescono a instillare nell'opinione pubblica.
Il «grande internamento» americano (per riprendere un altro termine chiave di Foucault) discende così da un perverso intreccio tra sistema mediatico e democrazia rappresentativa, con la specificità tutta statunitense di connotazione razzista della detenzione.
La legge e ordine è infatti e prima di tutto legge bianca per mettere ordine tra i neri che pur essendo solo il 12,5 per cento (uno su otto) della popolazione rappresentano però quasi la metà (uno su due) dei detenuti americani, a tal punto che la detenzione rappresenta un rito di passaggio quasi inevitabile per un giovane nero cresciuto in un ghetto urbano. Gli effetti sulla società americana sono stravaganti e impensabili: per esempio questo tasso di detenzione ha reintrodotto la poligamia nei ghetti urbani, poiché le donne nere devono condividere i pochi maschi fuori dalle sbarre.
Quello che l'ottimo libro di Elisabetta Grande non può fare è prevedere le conseguenze a lungo termine che una carcerazione tanto smisurata produrrà nel tessuto della società statunitense. Certo che è curiosa una società in cui la Correction (così si autodefiniscono le imprese addette) rappresenta uno dei settori trainanti dell'economia: il sistema giudiziario dà lavoro a 2,3 milioni di persone e nel 2001 combattere il crimine è costato negli Usa centosessantasette miliardi di dollari, tre volte e mezzo in più di diciannove anni prima. Elisabetta Grande osserva preoccupata che altri paesi (in primis quelli del Commonwealth) stanno seguendo gli Usa sulla stessa via. Non so se i teorici del postmoderno avessero in mente anche questa involuzione concentrazionaria.
PS. Editori e direttori di giornali dovrebbero difendere Adriano Sofri da se stesso: anche quando espone tesi sensate, deve mettere un sovrappiù di astio che fa torto alla sua intelligenza. Qui nella nota iniziale sostiene a ragione che la legge ex-Cirielli dimostra che l'Italia si sta americanizzando. Ma perché per dirlo deve fare prima una sparata sull'antiamericanismo di ogni discorso sulle prigioni Usa e poi accostarlo all'antisemitismo? Forse che analizzare l'ascesa di Silvio Berlusconi è sintomo di anti-italianismo? Anche qui osserviamo un effetto perverso: la persecuzione giudiziaria sofferta da Sofri e sostenuta dalla destra, gli ha provocato paradossalmente un livore verso la sinistra, che forse dovrebbe tenere più a freno.

Saturday, May 26, 2007

I cinesi di via Sarpi

Chi c'è dietro? Le Triadi, le Società nere, il racket, gli strozzini e - variante più raffinata - persino Confucio. Alle prese con il mistero cinese in casa nostra - la «rivolta» di via Sarpi del 12 aprile - i media sono finiti inevitabilmente nell'imbuto della dietrologia.
«In Cina non c'è proprio nulla di misterioso... Basta studiarla». Disse più o meno così Zhou Enlai a Henry Kissinger nella prima conferenza stampa congiunta Usa-Cina. L'apprendiamo dal libro di Stefano Cammelli, non a caso intitolato Ombre cinesi (Einaudi). Con tutto il rispetto per il mitico ministro degli esteri cinese, versione maoista dell'archetipo del saggio duca di Zhou, studiare la Cina e i cinesi non è una faccenduola.
Padroneggiare il mandarino è un cimento che, da solo, occupa una vita. Il sociologo Daniele Cologna, dell'agenzia di ricerca Codici, sa il cinese (lo insegna alle università di Pavia e dell'Insubria) e da un decennio studia sul campo la comunità sino-meneghina. Ci affidiamo a lui per de-costruire alcuni degli stereotipi correnti sugli immigrati cinesi.
Tutti i media, manifesto compreso, chiamano China town la zona di via Sarpi. E tu ti incavoli. Perché?
La definizione China town ha una storia e una geografia. Per China town s'intende un quartiere monoetnico segregato, uno spazio chiuso in cui gli immigrati cinesi sono costretti a vivere e dove si condensano servizi etnicamente esclusivi, comprese scuole e ospedali. Questo erano e in parte continuano a essere le China town negli Stati Uniti e nel Sud-est asiatico. Per fare un esempio: quando nel 1900 a San Francisco scoppiò l'ultima epidemia di peste, ai cinesi fu vietato il ricovero negli ospedali della città. In Europa non sono mai esistite delle vere e proprie China town. Il quadrilatero attorno a via Sarpi, dove i primi cinesi arrivano negli anni Venti provenienti da Francia e Olanda, non è mai stato uno spazio segregato. Il 90% dei residenti sono tuttora italiani. Solo il 10% dei 13 mila cinesi in regola residenti a Milano abita lì, gli altri stanno a Affori, Niguarda e lungo via Padova.
Se non è una China town, allora cos'è via Sarpi?
E' il polo funzionale dove si concentrano attività economiche dei cinesi. Fino agli anni Novanta, erano botteghe artigiane e laboratori tessili. Poi il manifatturiero è stato soppiantato dal commercio all'ingrosso di prodotti in gran parte importati dalla Cina. Nel quadrilatero ci sono circa 500 aziende «su strada». Secondo ViviSarpi, l'associazione dei residenti italiani, il 60% dei commercianti cinesi è proprietario dell'immobile in cui opera. Chi non ha comprato i locali, ha comunque sborsato cifre consistenti - tra i 200 e i 300 mila euro - per «subentrare» agli italiani e paga affitti sui 3 mila euro al mese. Si riforniscono dai grossisti di via Sarpi negozianti e bancarellai del Nord Italia (tra questi i cinesi sono un'esigua minoranza). Per i cinesi, via Sarpi è un polo di servizi dedicati (agenzie di viaggio, pratiche burocratiche, vendita di dvd, libri e giornali, erboristerie) e un contesto di domiciliazione simbolica. E' il posto dove un immigrato cinese si sente vagamente a casa sua.
Chi comanda in via Sarpi? La domanda aleggiava sulla «rivolta» e si riaffaccia sulla trattativa per delocalizzare fuori Milano il commercio all'ingrosso.
Scatta sempre questo retropensiero. Poiché i cinesi ci sembrano tutti uguali, oscuri e omertosi, deve esserci per forza un capobastone che dà gli ordini. Ma i cinesi immigrati a Milano, pur provenendo dalla stessa area (la zona rurale-montagnosa attorno a Wenzhou, capoluogo dello Zhejiang, la provincia del Sud-est della Cina) non sono tutti uguali. La comunità sino-meneghina è molto stratificata sia economicamente che socialmente. Si va dal borghese nato in Italia che si sa muovere nei meandri delle istituzioni politiche ed imprenditoriali, al proletario che fatica a capire la differenza tra un assessore e un consigliere comunale. A Milano ci sono ben 18 associazioni di cinesi, nessuna ha mai ambito a rappresentare l'intera comunità. Sono tutte associazioni d'imprenditori che fanno i loro interessi, usate come biglietto da visita per accreditarsi presso la madrepatria. L'impresa cinese in Italia continua a essere un'impresa familiare, su base clanica. Questo impedisce che ci sia un unico vertice che tutto controlla e tutto dispone. Ciò si riverbera nella trattativa con Palazzo Marino sulla delocalizzazione. Chi rappresenta i cinesi a quel tavolo? Da chi e in che modo hanno avuto il mandato a trattare?
Di delocalizzazione si parla da almeno cinque anni. Allora la più antica delle associazioni dei cinesi propose San Donato. Non se ne fece niente e non per colpa dei cinesi. Finirà così anche ad Arese?
Nessuno dei comuni dell'hinterland scalpita per avere nel suo territorio i grossisti cinesi. Invece tutti fanno ponti d'oro agli ipermercati. Non so per quali ragioni Formigoni abbia tirato fuori dal cilindro l'area ex Alfa di Arese. Chi ci guadagna? Di certo, le immobiliari padroni dell'area. E' altrettanto certo che i cinesi non sono disposti a rimetterci. E li capisco.
I commercianti di via Sarpi hanno fama d'essere imprenditori intrepidi e scafati.
E' un altro luogo comune. Il 75% di loro è alla prima esperienza imprenditoriale. Per dirla alla cinese, guadano il fiume tastando le pietre, alla cieca. E' gente che rischia, si indebita, ha fegato, ma ha preso le sue belle fregature. Il commercio all'ingrosso in via Sarpi da alcuni anni è in crisi. Ci si sono buttati in troppi, con il placet del Comune che adesso strilla alla zona franca. La ressa ha fatto cadere i guadagni, mentre i costi da ammortizzare restano altissimi. Comunque vada a finire la trattativa sulla delocalizzazione - e il processo richiederà anni - il settore del commercio all'ingrosso è saturo. E' in espansione invece, ed è questa la vera novità a Milano, l'ingresso dei cinesi nei servizi di prossimità: tintorie, edicole, pizzerie, bar, ferramenta. I cinesi subentrano agli italiani, senza apportare novità ai negozi che mantengono, persino nell'insegna, l'impronta originaria. Per questo si parla di imprenditoria mimetica.
Due settimane dopo la «rivolta», in zona Sarpi due ragazzi cinesi sono stati uccisi in pieno giorno e per strada. Mamma le Triadi, e invece...
E invece dall'identità e dal breve percorso di vita delle vittime - uno lo conoscevo - risultava evidente che la grande criminalità organizzata con quel delitto non c'entrava nulla. L'ambiente è quello delle bande giovanili, un fenomeno tipico che accompagna le migrazioni. Si comincia come teppisti che fanno gli sbruffoni al ristorante, mangiano e non pagano il conto. E in alcuni casi si prosegue con le minacce ai connazionali a scopo di estorsione, i sequestri lampo non denunciati, i regolamenti di conti tra bande rivali per uno sgarro subìto. I protagonisti sono i ragazzi perduti della generazione che i sociologi definiscono 1,25, arrivati adolescenti in Italia con alle spalle ricongiungimenti familiari difficili. Non vanno a scuola, non imparano l'italiano, si ribellano all'etica del lavoro dei genitori. Nel giro di pochi giorni gli autori del duplice omicidio milanese sono stati arrestati. La comunità non li ha coperti e questo infrange un altro luogo comune, l'omertà dei cinesi. Delle Triadi, organizzazioni criminali nate a Canton e a Taiwan, dedite al traffico di armi e droga, alla prostituzione e alla finanza sporca, in Italia non c'è traccia.
E veniamo a Confucio. Va di moda interpretare il successo della Cina, e anche dei suoi migranti, alla luce del modello neoconfuciano.
Occorre distinguere. In Cina c'è da qualche tempo un revival di Confucio, promosso dal premier Wen Jia Bao per rintracciare nel passato le fondamenta della «società armoniosa» che Pechino dice di voler realizzare. Un messaggio rivolto anche all'esterno: sono intitolati a Confucio gli istituti di cultura che la Cina sta aprendo in giro per il mondo. Ma da sempre il neoconfucianesimo è una chiave di lettura per spiegare la Cina. E' stato applicato persino al maoismo e, almeno dagli anni Settanta, alle migrazioni cinesi nel Sud Est asiatico. Non è questa la sede per fare un bilancio dell'efficacia di un modello interpretativo che, in rozza sintesi, punta sul retaggio culturale per spiegare l'economia. Qui mi limito a dire che la migrazione cinese in Italia contraddice Confucio almeno su un punto. Nel nostro paese un quarto degli imprenditori cinesi sono donne. E questo a Confucio non sarebbe piaciuto.

Tuesday, May 22, 2007

Il punto di vista del manifesto sull'emergenza rifiuti in Campania

Rifiuti antidemocratici. In Campania il terreno di confronto-scontro democratico passa per il piano di smaltimento. Sicuramente esistono altre piaghe sul territorio, dalla crisi del tessuto industriale alla disoccupazione, dalla camorra all'abusivismo, dal lavoro nero ai problemi abitativi. Ma è ormai conclamata la guerra dei sacchetti, che crea fratture insanabili tra popolazioni e istituzioni, che contrappone non solo i cittadini allo Stato, ma diventa anche Stato contro Stato.
Quattordici anni di commissariamento per gestire un'emergenza sono un paradosso. Lo sanno i governi e i commissari straordinari che si sono succeduti, lo sanno gli enti locali, ma non hanno il coraggio di ammettere colpe e responsabilità. In tutto questo tempo si è sempre cercato di privilegiare gli interessi dei privati rispetto al bene comune. Così non è la discarica di Serre - che si vuole aprire ad ogni costo a ridosso di un'oasi naturale protetta - a essere rappresentativa del rapporto ciclo di smaltimento-tornaconto industriale, ma l'inceneritore di Acerra. L'impianto dovrebbe essere pronto a ottobre 2007 e nel nuovissimo piano da poco approvato dal Consiglio dei ministri farebbe parte dei due termovalorizzatori che dovrebbero risolvere il caso-Campania. Ma non è così.
10 milioni di ecoballe
Ci sono attualmente 10 milioni di ecoballe che il ministero dell'ambiente non considera a norma e che quindi non si possono bruciare. Nei Cdr ancora il materiale non viene stoccato seguendo le procedure atte all'incenerimento. La raccolta differenziata e ferma al 10%. Ancora non sono state individuate le discariche speciali dove «seppellire» le ceneri di risulta della combustione, materiali altamente tossici. Per non parlare di chi sta portando avanti i lavori: la Fibe, attualmente indicata come l'unica responsabile del mancato smaltimento dei rifiuti in regione e indagata per truffa. La società che vede tra gli azionisti l'Impregilo di Cesare Romiti è infatti riuscita a spendere dal '94 ad oggi più di 800 milioni di euro senza venire a capo della crisi. Eppure all'epoca la sua proposta non era la migliore. La società infatti ha vinto le gare d'appalto con impianti talmente vetusti che la magistratura ne pose una parte sotto sequestro, e con un progetto, il termovalorizzatore di Acerra appunto, che gli è valsa 27 adempimenti prescritti dalla commissione ministeriale. Ma non c'è stato niente da fare. Il commissariato ha dovuto anticipare alla società 100 miliardi di vecchie lire per la realizzazione di impianti di Cdr che i magistrati hanno in seguito giudicato inadeguati e posto sotto sequestro. La procura di Napoli ha anche chiesto la confisca all'Impregilo di 43 milioni di euro e dei crediti, per 109 milioni, che la stessa società dovrebbe riscuotere dalla regione e da vari comuni. Infine, secondo la commissione ambiente del Senato la Fibe avrebbe anche stipulato accordi sui terreni di stoccaggi con soggetti malavitosi. Per tutto questo la Campania ha ottenuto la rescissione del contratto, ma dopo due gare d'appalto andate deserte è ancora questa stessa società a gestire il ciclo.
Nel 1999, dopo il piano dell'allora presidente della regione Rastrelli (An), quando la Fibe vince la gara per la costruzione di un termovalorizzatore ottiene carta bianca sull'indicazione del sito. Le istituzioni, dunque, si lavano le mani su un affare delicato e di importanza comunitaria. La società usa un intermediario di Afragola, che compra i terreni dai contadini acerrani a prezzi stracciati e li rivende alla Fibe. E' tutto deciso, senza consultare l'amministrazione locale e senza nemmeno avere la Via (Valutazione di impatto ambientale) si vuole iniziare a «lavorare». I cittadini sono allarmati. Acerra è un territorio già vessato dalle industrie, qui c'è la Montefibre, senza contare le discariche abusive che hanno creato un cortocircuito ambientale. Nei terreni la diossina ha raggiunto livelli d'allarme, nel latte animale le analisi ne riscontrano la presenza: 54 picogrammi per grammo di grasso quando il livello considerato accettabile è 3. Nascono i primi comitati anti-inceneritore. «All'inizio eravamo in pochi», ricorda Giovanni De Laurenti, attualmente segretario cittadino del Prc e che all'epoca aveva 20 anni. «Le posizioni erano diverse - continua - c'era chi semplicemente affermava che l'impianto non doveva essere costruito ad Acerra, chi era contrario a questo tipo di termovalorizzatore, il più grande in Europa, e chi come noi era contro l'idea stessa dell'incenerimento portando avanti una cultura anticapitalista. Lottavamo contro il principio di un sistema che ti fa consumare e poi brucia quello che consumi».
Nasce il comitato contro l'inceneritore, al suo interno convivono diverse anime, i partiti, il movimento, l'area dei disoccupati, ma ben presto tutta la cittadina s'identifica in questa lotta. I primi anni si cerca di contrastare il progetto dati alla mano. Si chiedono verifiche e compatibilità ambientali. L'Asl però concede il via libera, l'Arpa no. Per tutto il 2002 il comitato promuove cortei e iniziative di protesta. Il 27 gennaio 2003 devono iniziare i lavori, si decide di comune accordo con l'amministrazione di centro-destra di forzare la mano. Assieme al sindaco Michele Riemma (Fi) gli acerrani occupano il cantiere. Nell'area viene creato un parco giochi, un orto biologico, sono allevate le pecore simbolo del degrado ambientale. Si diffonde nella cittadina il virus della democrazia partecipata, secondo il principio della riappropriazione del territorio: concerti, iniziative, dibattiti in cui intervengono studiosi di fama internazionale come il professore Paul Connet. Ma i commissari straordinari, da Bassolino prima a Catenacci dopo, non ne vogliono sapere di mollare la presa. Si cerca di dimostrare l'egoismo di un paesino che attua la logica del not in my backyard, non nel mio giardino. Ma nel 2004 un ricercatore del Cnr, Alfredo Mazza, riporta uno studio sulla rivista Lancet che lascia pochi dubbi su quanto accade in provincia di Napoli e Caserta riguardo alla gestione camorristica dei rifiuti illegali. Nel triangolo Acerra, Nola, Marigliano a causa dei materiali tossici presenti nei terreni e nelle falde acquifere si è infatti impennata la mortalità dovuta al cancro e l'aumento di malattie cardio-circolatorie e di diabete. Nel maggio di quello stesso anno Espedito Marletta (Prc) diventa sindaco con più del 75% dei consensi proprio grazie alla linea dura contro l'inceneritore. Il 17 agosto il cantiere in zona Pantano viene sgomberato. Il megainceneritore si farà. Il 29 agosto durante una manifestazione con oltre 30mila persone, davanti al sito della Fibe polizia e carabinieri ricevono l'ordine di reprimere la folla. E' un giorno di guerriglia urbana ad Acerra, il bilancio tra feriti e arresti sarà altissimo. Anche il sindaco Espedito Marletta e il senatore Tommaso Sodano vengono manganellati e portati in ospedale. Da quel momento gli acerrani non mettono più piede nel cantiere.
«Una battaglia di sopravvivenza»
«Ma non ci siamo arresi - spiega Tommaso Esposito, portavoce del comitato - andiamo avanti per altre strade. Qui si sta attuando il congelamento della democrazia. Una comunità ha il diritto di scegliere il proprio futuro. La nostra non è una posizione egoistica, ma una battaglia per la sopravvivenza». Il professore Antonio Marfella, oncologo del Pascale, dà ragione ad Acerra: «Vogliono creare un inceneritore da 2000 tonnellate al giorno, più di Parigi - spiega - è evidente che la zona già rovinata non verrà più bonificata, in un paese dove c'è l'84% in più di malformazioni nei bambini, tra Napoli e provincia 2 milioni di persone su 6 hanno un eccessivo livello di diossina nell'organismo, fatto certificato dalla regione». Ma c'è un'altra soluzione? Raccolta differenziata e riciclo. Ad Aversa c'è la fabbrica Erreplast che ricicla la plastica e i metalli, è all'avanguardia e rischia di chiudere per mancanza di commesse perché si è scelta la strada degli inceneritori, così come le cartiere che potrebbero riciclare la carta. Le popolazioni ormai hanno capito che non esiste altra strada allo smaltimento sicuro, per questo si ribellano al governo e a Bertolaso. «Sapevamo che sarebbe stata una battaglia lunga e difficile - ammette il sindaco di Acerra Espedito Marletta - uno scontro tra poteri dello stato. Stiamo andando avanti per ricorsi, non siamo rassegnati». Fino ad ottobre 2007

Saturday, May 19, 2007

Volgarità a Roma

Pure i vigili, ha chiamato una notte
Piero Fassino. “Ma non è cambiato
niente”. Ha parlato anche con il Campidoglio.
Niente da fare. Dice che forse finirà
così, “non mi stupirei se un giorno
o l’altro ci fosse una lenzuolata degli
abitanti del mio quartiere”. Non si chiude
occhio. “Ogni sera ci sono tremila
persone che si riuniscono nella piazza in
cui abito. L’esasperazione di chiunque
viva lì è arrivata a livelli di guardia”, ha
raccontanto in un’intervista a Barbara
Romano di Libero. “Mi augurerei che ci
fosse un intervento regolatore”. Ne avrà
da aspettare, il segretario dei Ds. Neanche
lui, che pure da anni batte e ribatte
sul tasto, è riuscito a spuntare niente.
“Sono molto infastidito da come si sono
degradate alcune zone del centro storico”.
E così il sonno tarda a venire, e più
che l’azzardo del Partito democratico sono
quei megafoni con cui urlano dalla
piazzetta sotto le finestre di Fassino, alle
tre del mattino, insopportabilmente
fastidiosi, manco uno si fosse infilato il
cilicio della Binetti. Sbotta e borbotta
aggirandosi insonne per casa, il leader
di via Nazionale. Sotto, come si dice, “se
magna se beve e se canta”, e ogni sera
porta la sua croce, e Piero fa persino fatica
a concentrarsi sui suoi amati musical.
E non si trova la voglia nemmeno di
canticchiare “Hello, Dolly!”, come ti possono
venire le parole per affrontare il
giorno dopo, diciamo, Francesco Rutelli?
Ma lo sfogo fassiniano, in più sul giornale
di Feltri, è il segno che il limite è
stato passato, la pazienza esaurita, la tolleranza
grattata via. A Veltroni certo le
orecchie devono aver fischiato ma, sarà
colpa del rumore che sale dai vicoli romani,
il casino resta tutto e perfettamente
intatto. “Undici ristoranti in una piazza
di quattrocento metri quadri, mi pare
francamente eccessivo”, ha elencato
Fassino. La piazzetta è a poca distanza
da Montecitorio. “Macché: sette ristoranti,
un’enoteca e un bar”, contabilizza
Luciano Flamini, padrone di uno di
quei ristoranti. Dice: “So’ incazzati solo
in tre, e anche se uno è super importante
non possiamo fare uno scandalo cittadino.
Il divertimento non può essere
bloccato, dalle due di notte è un deserto”.
Dice Flamini che tutte le autorizzazioni
sono state rispettate, che non c’è
problema di ordine pubblico, che i megafoni
li vendono i cinesi nella strada
accanto, che gli ubriachi non ci sono. “I
ragazzi devono andare da qualche parte
a divertirsi”. Il centro della piazza è
occupato dai bar, certe poltrone fintoghepardate
da restare stupiti, e in effetti
i tavolini sembrano inseguirti dappertutto.
Davanti a un piatto di cacio e pepe
Flamini spiega e rispiega, “nel periodo
estivo la gente fa più rumore, si deve
divertire, poi ci sono pure tanti lavoratori”.
Insomma, l’irritazione fassiniana
lui – costretto a chiudere una discoteca
che aveva a Prati, “perché c’era una signora
che per protestare contro il rumore
si metteva su una croce” – non la capisce.
Taglia corto: “A Torpignattara
non è vero che non c’è rumore, a Torpignattara
non c’è Fassino”. Il quale, mica
è da adesso che lamenta la triste sorte
che sale dalla piazza sottostante. Si
racconta di sue telefonate vecchie di anni
al Campidoglio, “anche stanotte non
ho dormito”, ma niente. Anzi, col tempo
sono arrivati pure i cinesi.
Il problema principale della città pare
la sua paura del vuoto. Dove si vede
una piazza silenziosa, uno slargo pacificato,
un vicolo isolato, lì si corre a inzeppare,
a stipare, a pigiare. Niente può essere
lasciato sgombro, solitario, muto.
L’ammassamento avviene di colpo, con
una sorta di ridanciana isteria. Al peggio,
il locale municipio può piazzarci
una statua – cubi o rombi o colonne falliche
di travertino: Michelangelo dovrebbe
pur trovare il modo di vendicarsi
– pacifici giardinetti “riqualificati” (riqualificazione,
tremenda parola nella
capitale, quasi quanto quell’altra dal
suono minaccioso: restyling) in spianate
pietrose dove manco il cane sa più dove
pisciare (ma dove sanno benissimo dove
pisciare gli umani), utili fontanelle riedificate
in inutili fontanoni. Questo in
periferia. In centro, per dirne una, non
si sa più come scampare – in attesa della
rottura di coglioni della notte – la rottura
di coglioni dell’ora dell’aperitivo.
Detta happy hour, si capisce: manco i
giornalisti in pensione dicono più aperitivo.
Per un bicchiere di prosecco e
qualche stitica tartina, si creano assembramenti
che neanche per le selezioni
della “Sposa perfetta”, s’arraffano sedie
e sgabelli e muretti, si punta il residuo
onore (inconsapevoli Siffredi) sulla conquista
di una patatina. E lì tutti stanno,
con il portatile aperto sulle gambe ad altezza
inguine, freneticamente battono e
battono sui tasti, e deve essere un lavoro
defatigante se non si può staccare
neanche per il momento della bevuta. O
magari la solita fuffa, qualche improduttiva
e geniale pippetta tecnologica, però
pure pippetta di tendenza, quella genere
Second life – “Oh, lo sai chi sono diventato?”
“Qualcosa di meglio di una testa
di cazzo?” – facendo onestamente
piuttosto pena la prima – di life, oh yes!
Manco i poveracci alla mensa della Caritas
fanno un simile attruppamento in
attesa dei viveri. Beh, certo, è socialità.
Te ne stai seduto un muretto, con in mano
un bicchierone da dove spuntano
montagne di ghiaccio (colpo mortale al
Polo, tutto il ghiaccio che serve per rinfrescare
un degno happy hour), basilico
o menta o verdura varia, tre o quattro
cannucce colorate: un manufatto di tali
proporzioni che, degnamente riempito,
potrebbe servire per passare lo straccio
a due o tre uffici. Saggiamente, qualche
poveraccio che abita da quelle parti a
un certo punto minaccia la benemerita
secchiata d’acqua, che purtroppo quasi
mai arriva. “Non ti vergogni?”, ha urlato
un signore a una che gli stava pisciando
nell’androne di casa. “Vergognati tu, che
abiti a Trastevere!”, la replica della signora
dall’incontenibile vescica. Con l’avanzare
della notte – aperto lo stomaco
con la prima bevuta – la faccenda si fa
ancora più buia.
Nelle notti romane abbondano il vomito
(dove capita), il piscio (dove capita),
gli ubriachi (in molti posti), il rumore
(dappertutto). L’insopportabilità corre
ormai sotto la pelle della città. Se uno
come Fassino non riesce a cavare un ragno
dal buco, figuratevi un poveraccio
qualunque. L’idea del divertimentificio
capitolino – c’è gente che preferisce Roma
a Rimini, e non certo per la Galleria
Borghese a portata di mano – è andata
forse oltre ogni intenzione, e adesso appare
fuori controllo. Il diritto a rompere
i timpani con urli e strepiti alle tre del
mattino viene, nel migliore dei casi,
messo sullo stesso piano del diritto al silenzio.
E quasi sempre vince il primo. Il
cuore di Roma è un’immensa distesa di
tavolini, tutta una magnata rumorosa
lungo strade e piazze e anfratti. Turisti
dall’aria non proprio sveglissima, camerieri
che funzionano come buttadentro,
cibi a volte ottimi, lasagne che a vederle
fanno ribrezzo. Roma magna e beve. Poi
suona e urla.
Ora qui si pone il problema: come
mai la città che ha il sindaco più beneducato
del mondo, di suo vocato pure alla
letteratura, curioso e sensibile, è diventata
una città di simile maleducazione,
di simile invasione, spesso di simile
cattivo gusto? Ha chiesto un carabiniere
a un inquilino esasperato dal grande pisciatorio
sotto casa sua: “Possiamo venire
sul suo balcone a controllare?”. Massima
disponibilità: “Certo. Basta che
portate pure i cecchini”. C’è l’adrenalina
che corre per i vicoli del centro e c’è
la bile che scoppia nelle case circostanti.
Ecco, questo è il mistero. Persino il
prefetto della città, Achille Serra, garbato
e civile, anch’esso con una vocazione
alla scrittura e portato a una certa comprensione
dei fenomeni della modernità,
“a Montmartre e a Londra locali e
ristoranti non chiudono prima delle tre.
E noi che facciamo, chiudiamo a mezzanotte?”,
è personificazione della buona
educazione. E allora, il “me ne frego” rispetto
a tutti gli altri, da dove nasce?
Questa sorta di regressione al primitivo
e al casino, questa diffusa cafonaggine
di massa, da dove nasce? A macchia di
leopardo, l’irritazione – stando alle cronache
cittadine – s’allarga giorno per
giorno: dalla piazzetta di Fassino a Trastevere,
con certi vicoletti di pochi metri
e più di venti locali, da Testaccio a Prati
a San Lorenzo a Campo de’ Fiori, dove
da tempo si lotta per mantenere il
controllo della zona con una perigliosità
da strategia afghana. “Lì fanno il ‘violence’,
un gioco violentissimo con la palla,
una sorta di uno contro tutti. Ferocia e
feriti”, racconta con amara ironia un poliziotto.
Avanzano i posti di tendenza,
avanza il casino. L’ultima trovata arriva
dal Financial Times, che ha puntato l’occhio
sull’Ostiense, “qui abita la nuova
Dolce Vita”, e se finora intorno al gazometro
se l’erano cavata, adesso arrivano
i problemi. Tutto prende l’apparenza di
Dolce Vita, a Roma, tutto diventa evento,
tutto si stipa e si rifila e si ricicla – e
così diventa pure, per molti, al più solo
una vitaccia. L’esatto contrario di quello
che pure ha sostenuto un architetto come
Massimiliano Fuksas: “Bisogna togliere,
togliere, togliere”.
Pattuglioni di ubriachi vagano per la
città. C’è qualcosa di surreale nelle dispute
che si accendono nella capitale,
dalla “guerra dei tavolini”, apparentemente
una tacca sopra la classica
“guerra dei bottoni”, in realtà marea
montante topomasticamente dilagante,
pure in vicoli dove certe sere quasi non
passi neanche a piedi. Quelle tavolate
all’aperto che Fellini immaginò grevi
ma allegre nel suo “Roma” ormai trasformate
in una palude informe, senza
capo né coda. “Tavolino selvaggio” lo
chiamano i giornali: un classico capitolino.
E poi, la “guerra della bottiglie” –
e leva il vetro, e metti il vetro, e senti il
Tar – e ogni faccenda si fa eterna, e più
si allunga nel tempo e più si allontana
nella soluzione. A Roma l’alcol scorre a
fiumi, quattro ubriachi stranieri hanno
danneggiato la fontana di piazza di Spagna,
e senza alcol una signora si è spogliata
e infilata dentro quella di Trevi.
A volte pare un “tana libera tutti” senza
grazia e senza misura, la capitale. Dicono:
ah, milioni di turisti in più! Una
sorta di altro dogma, i turisti. Ora, se
uno non è un oste o un tassita o un borseggiatore,
che gliene frega dei turisti?
Essendo poi una passione cittadina
quella delle nozze con i fichi secchi, i
turisti son milioni, gli autobus sempre
gli stessi, così ti ritrovi certe chiappone
americane che, puoi spingere come
vuoi, ma sul tram non sali. I giornali,
nelle cronache minute, fanno impressione.
Gli atti di piccola prepotenza e di
piccolo vandalismo sembrano far parte
ormai del paesaggio urbano. C’è chi si
arrangia come può. Su Internet si trovano
testimonianze tra la rabbia e la tenerezza.
“Tempo fa una band composta da
tamburelli, tamburi, fisarmoniche e chi
più ne ha più ne metta, stazionava sotto
la mia finestra, e nonostante un invito
educato ad andarsene ha preso a suonare
a più non posso con evidenti sorrisetti
di sfida. Gli ho fatto il bagno! Tempo
cinque minuti (notate la tempestività)
un carabiniere mi ha bussato alla
porta di casa…”. Perché se non si urla
si suona, essendo il concertino sgangherato
ormai elevato al rango di diritto inviolabile.
“Oggi abbiamo iniziato intorno
alle nove di mattina. Fisarmonica,
poi orchestrina jazz, poi piccola band
di tamburelli e fisarmonica, quindi sassofono
e di nuovo fisarmonica, con un
interminabile medley di brani, da besame
mucho a barcarolo romano passando
per ‘o sole mio. In questo momento
c’è un tale con trombe, trombette, fisarmonica
e strumenti vari, speriamo bene
per la notte”. E neanche è cominciata
la parata musical-godereccia dell’Estate
romana… Al massimo, per ora è il
turno dei punkabbestia, che provano a
intenerire i passanti per scucire qualcosa.
Cioè, ci provano le bestie al seguito,
essendo alla bisogna i padroni decisamente
inadatti.
La Roma incazzata per questo groviglio
di suoni e urla e piscio si ritrova
spesso nelle lettere alle cronache dei
giornali, dal Messaggero a Repubblica
fino a quelle a Maria Latella, che da sei
anni cura quelle del Corriere romano, e
ne ha già lette qualche migliaio. Ed è
appunto la maleducazione montante –
se restiamo al disagio, senza inoltrarsi
sul versante della criminalità – l’elemento
che più colpisce. Caos e schiamazzi,
“scandalosa inciviltà”, i passeggini
dei bambini bloccati, i motorini
ovunque, la notte brava, i vandalismi, le
miniproteste che prendono in ostaggio
tutta la città… Persino l’Atac promette
“interventi formativi mirati allo scopo
di migliorare la professionalità del proprio
personale” (al momento, ha cambiato
le divise). Sì, certo, Roma secondo
le statistiche è decentemente sicura, il
sindaco butta giù ogni schifezza abusiva,
ma a volte la realtà si scontra, pure
mediaticamente, con le più belle intenzioni.
Cronaca di Repubblica, qualche
giorno fa. In alto, articolo sul sindaco
che ha portato aiuti nel Malawi: “Cara
Africa, ritorneremo”. Poco più sotto,
una lettera: “Insultata da un africano in
viale XXI Aprile”. Ecco.
Qualcosa, nella quotidianità di Roma,
sta cedendo. Basta uno sguardo
per accorgersene. Il centro, per esempio,
in certi momenti pare una piccola
Calcutta: una generalizzata corsa all’accattonaggio,
al falso sentimento di
pietà, alla molestia continua. Sciancati
finti e menomati veri che si trascinano
su carrettini, ubriachi che pretendono
al semaforo di lordare con una
pezza i fanali (neanche più pulire il vetro)
e che urlano, zingare finte vecchie
e finte zoppe che arrancano al semaforo
rosso, per scattare con passo lesto al
momento del verde, gente che espone
gambe con croste sanguinanti, monconi
di arti, bimbi costretti a mendicare,
intere famiglie di pulitori di vetri che
presidiano gli incroci più ambiti, posteggiatori
abusivi con l’aria da tagliagole,
quelli che si piazzano dietro le
porte delle chiese. Poi, quasi un’impresa
un viaggio in autobus senza il musicista
ambulante che da tempo ha smesso
di essere il tenero violinista squattrinato
da cinema neorealista, che ti
molla quelle due o tre solite musichette,
indifferente alle chiacchiere o agli
spazi, e con granitica efficienza fa tre
fermate in su e tre fermate in giù, non
una di meno non una di più. Se si percorre
la strada da via Nazionale fino a
via Arenula, attraversando il centro, si
trovano ogni genere di nuovo accattonaggio,
da una vetrina all’altra intere
comitive scandiscono il percorso. E
con un’attenzione capillare ai fatti della
geopolitica, evolvendo anno per anno
da “povera di Bosnia” a “povera di
Romania” – essendo sempre la stessa
sfortunata questuante. Se si riesce a
evitare il borseggio da parte degli zingarelli
– ora spediti a far razzia di vestiti
come adolescenti qualunque: sui
giornali esistono paginate di sequenze
fotografiche che raccontano il danno al
turista più jellato. Roma così si fa insopportabile,
piccolo percorso di esasperazione
quotidiana, tra lo scampare
al borseggio e il parcheggiare con un
ubriaco che ti urla vicino e ti chiede i
soldi. Una faccenda forse complementare
all’altra faccia della città, quella
dei ristoranti, dei mille ritrovi, dei cento
casini: allegra così, così da far tristezza.
Confusione senza allegria, perciò,
qualcosa che pare aver preso del
veltronismo solo l’apparenza, rifiutando
la sostanza. Veltroni, certo, molto si
spende. Evoca memoria (ogni memoria)
e altruismo e buoni esempi. Però a
Marco Lodoli succede di fare un giro
intorno a un liceo e di contare ben 92
(novantadue!) macchinine, quelle con
motore 50, lì posteggiate dagli studiosi
adolescenti. Vengono certi pensieri,
ma forse semplicemente non si fidano
del plebeo autobus. O l’hanno trovato
già pieno di turisti.

Thursday, May 17, 2007

La fuga dei nostri fratelli dall'Iraq

Nel 1976 un team di archeologi iracheni
scoprì una chiesa del quinto
secolo vicino alla città santa sciita di
Kerbala. Costruita centoventi anni prima
dell’avvento dell’islam in Mesopotamia,
la chiesa, durante quell’enorme
campo di concentramento in superficie
con fosse comuni sotto terra che era il
regime di Saddam Hussein, fu trasformata
in un poligono di tiro. “In quel periodo
un milione di persone fu deportato,
per la maggior parte curdi e cristiani”
ha detto il vicepremier Barham Salih.
Saddam pose le chiese sotto il controllo
del ministero delle proprietà islamiche,
noto come “Awqaf”, ne bombardò
a centinaia. I nuovi nati non potevano
essere chiamati con i nomi cristiani
e il siriaco fu bandito. In cambio
il regime garantiva una certa tranquillità
alla comunità caldea, alla quale apparteneva
il ministro degli Esteri di
Saddam, Tareq Aziz.
I cristiani iracheni ora stanno soccombendo
di fronte a una minaccia più
terrificante dell’arabizzazione di Saddam,
che distrusse duecento villaggi cristiani
fra il 1960 e il 1988: l’estinzione fisica
di massa, la caccia all’uomo scatenata
da al Qaida e dall’insorgenza. “Faremo
tutto il possibile per salvarli” ha
detto il premier Nouri al Maliki. Agenzie
di stampa come Fides e AsiaNews,
ma soprattutto organi di informazione
assiri e caldei, diffondono le cronache
sul massacro degli eredi degli apostoli
nella terra dei due fiumi. Un eccidio
che ricorda le immagini dei quattro padri
bianchi uccisi in Algeria nel 1992,
dei sette monaci trappisti sgozzati nel
1996 e delle tre missionarie crivellate in
Yemen nel 1998. Un’ecatombe senza
precedenti. La fine di un mondo. La distruzione
delle origini. “C’è un’altra
guerra in Iraq: la guerra contro la cristianità”
dice Arnold Beichman della
Hoover Institution. Nina Shea, che dirige
il Freedom House’s Centre for Religious
Freedom, definisce i cristiani “canarini
nella miniera del medio oriente”.
E parla di “pulizia etnica”.
Lawrence Kaplan di New Republic
scrive che “sunniti e sciiti concordano
su poco, tranne che sulla persecuzione
dei cristiani”. Andy Darmoo, presidente
di Save the Assiryans, ha parlato di
“fine della cristianità in Iraq”. Oltre la
metà dei cristiani ha già abbandonato
il paese. “Entro vent’anni non ci saranno
più cristiani” dice Wijdan Mikha’il,
ministro per i Diritti umani nel nuovo
Iraq. “Mi sono sempre considerato prima
iracheno, poi cristiano. Oggi si dice
che un cristiano è ‘infedele’”. Liquidata
la comunità ebraica, quella dei Profeti
e degli scribi del Talmud, anche
l’ottanta per cento dei mandei, il più
antico culto gnostico, ha lasciato l’Iraq.
Nel gennaio 2005 una delle loro figure
di spicco, Read Radhi Habib, fu ucciso
dopo aver rifiutato di convertirsi all’islam.
Poi fu la volta dei tre fratelli
Juhily, rapiti e sgozzati. “I fanatici islamici
ci attaccano per ciò che siamo” dice
Yonadam Kanna, parlamentare cristiano
di Baghdad.
E’ stata appena assassinata la segretaria
di una clinica cristiana di Mosul.
Il giorno dopo un fedele della parrocchia
di San Paolo. Quattro mesi fa padre
Munthir, settantenne reverendo
della chiesa presbiteriana di Mosul, fu
ritrovato con un proiettile nel cranio.
“Uccideremo tutti i cristiani iniziando
da lui” avevano detto i rapitori. Poi due
suore caldee, Fawzeiyah e Margaret
Naoum, pugnalate a morte a Baghdad.
Il direttore del Museo nazionale iracheno,
l’assiro Donny George, è fuggito
in Siria. “Centinaia di cristiani sono
stati uccisi e le loro chiese distrutte”,
denuncia Romeo Hakkari, leader di
House of the Two Rivers Democratic
Party. Una buona notizia è che al monastero
di Mar Gorghis di Mosul è stato
inaugurato l’anno accademico di teologia.
Classi rigorosamente miste, nonostante
la minaccia della sharia.
Una bambina caldea di Baghdad è
stata riconsegnata morta alla famiglia
dopo il sequestro. A Tell el Skop sono
appena stati uccisi nove cristiani, fra
cui due bambini. “I cristiani sono ormai
considerati in via di estinzione”. Sono le
parole di Bashar Warda, rettore del Seminario
maggiore trasferito da Baghdad
in Kurdistan per motivi di sicurezza. La
chiesa di Baghdad dedicata alla Vergine
è stata bombardata nel settembre
scorso, uccidendo due fedeli. Il 5 agosto
2005 una studentessa assira dell’Università
di Mosul, Anita Tyadors, venne
giustiziata perché parlava inglese, vestiva
occidentale, era orgogliosamente
cristiana. Pochi giorni dopo ci fu il massacro
di quattro assiri che scortavano
Pascale Warda, l’unico ministro donna
del governo Jafaari. La Society for Threatened
Peoples pubblica un rapporto
sulle violenze contro i cristiani all’Università
di Mosul, “aggrediti come
‘agenti americani’”. I jihadisti usano
contro i cristiani la stessa accusa che la
monarchia hashemita, spodestata dal
fascismo baathista, utilizzò per la loro
collaborazione con l’impero inglese.
“Uniamoci per mettere fine a questa
follia” è la richiesta di aiuto che i vescovi
hanno lanciato al vertice di
Sharm el Sheikh di due settimane fa. Il
portavoce della conferenza dei vescovi
americani, Thomas Wenski, chiede a
Condoleeza Rice di intervenire.
La popolazione cristiana che nel 2003
contava un milione e 200 mila persone,
ora è scesa a 600 mila. A Ninive, antico
nome di Mosul, è nato il profeta Jonah.
Qui caldei e assiri, i più antichi abitanti
dell’Iraq, pregano ancora in aramaico,
la lingua di Gesù. Ancora per buona
parte del Novecento sono state censite
minoranze di ebrei, yezidi e cristiani, e,
tra questi, cattolici, protestanti, mandei,
armeni, ortodossi, nestoriani e monofisiti
giacobiti. Ora a migliaia i cristiani
fuggono verso la città curda di Ain
Kawa. Qui il mullah wahabita Krekar
aveva imposto la chiusura dei negozi
durante la preghiera, il burqa alle donne,
le parabole satellitari e la musica
strumentale, eliminando le foto femminili
da ogni prodotto importato dall’estero.
La libertà tornò sovrana nel 2003,
al seguito delle truppe americane. Città
fiore all’occhiello del generale Petraues,
Mosul è oggi terra di conquista
anticristiana. Negli ultimi quindici giorni
decine di famiglie, le poche che resistono
all’esilio, hanno ricevuto intimidazioni
in cui si chiede di pagare un
“contributo alla resistenza; pena la vita”.
A Baghdad la famiglia di Mazen
Sako è stata attaccata da miliziani vestiti
di nero: “Siamo venuti a sterminarvi.
Sarà la fine per voi cristiani”. Hanno
ucciso Majed di dieci anni. Il patriarcato
caldeo ha trasferito nel Kurdistan il
Babel College, che detiene la più antica
biblioteca cristiana, e il Seminario di
San Pietro. A nord i cristiani sono protetti
dai peshmerga, leggendaria milizia
curda. Gruppi islamici vanno imponendo
la tassa sui “sudditi” a Baghdad e
Mosul, la celebre jiza, l’imposta abolita
dall’Impero ottomano. “I non musulmani
devono pagare il tributo al jihad se
vogliono avere il permesso di continuare
a vivere e professare la fede in Iraq”.
I cristiani sono anche costretti a lasciare
le case dopo che lettere minatorie ne
assegnano la proprietà a musulmani.
Quelli che vogliono vendere non riescono
a trovare acquirenti, gli imam hanno
detto: “Non comprate dagli infedeli, lo
avremo gratuitamente”.
Una fatwa vieta di compiere in pubblico
gesti rituali. “Togliete le croci dalle
chiese o le daremo alle fiamme”. E’
la minaccia alla chiesa caldea di San
Pietro e Paolo di Dora, il grande quartiere
cristiano di Baghdad. Nel febbraio
2004 a Erbil, i tagliateste di Ansar al
Sunna, assassini dei dodici nepalesi,
provocarono cento morti nelle sedi dei
partiti curdi. “I crociati sono entrati nelle
province di Kirkuk” si lesse nella rivendicazione.
Nel 2004 fu ucciso l’assiro
Ra’aad Augustine Qoryaqos, docente di
medicina della al Anbar University.
Nella rivendicazione Zarkawi mise assieme
“la Guardia nazionale pagana” e
i “collaborazionisti crociati”. Nel marzo
2004 due cristiani di Baghdad, Ameejon
Barama e sua moglie Jewded, furono ritrovati
con la gola recisa. Il 21 ottobre la
morte si avventò sul traduttore assiro
Layla Elias Kakka Essa. Sono oltre trecento
i traduttori assassinati dai terroristi.
Un numero di poco superiore a
quello degli accademici uccisi dal 2003.
Un mese dopo al Qaida passò al lancio
di granate sulle chiese. Shlemon
Warduni, vescovo dei caldei di Baghdad,
ha detto che “da due mesi molte
chiese non hanno più croci sulle loro
cupole”, come la chiesa assira di San
Giorgio, a cui gli islamisti hanno staccato
la croce, per quella caldea di San
Giovanni ci hanno pensato i fedeli. L’agenzia
Sir rende noto che i cristiani di
Dora possono rimanere solo se accettano
di dare in moglie una figlia o una sorella
a un musulmano, creando i presupposti
di “una progressiva conversione
dell’intero nucleo familiare all’islam”.
Raymond Moussalli, portavoce
dei rifugiati cristiani, ha detto che sette
chiese a Dora hanno chiuso. Una
fatwa vieta di portare la croce al collo.
“I cristiani stanno morendo” dice Louis
Sako, arcivescovo di Kirkuk, mentre
giungono notizie di autobombe e uccisioni
di cristiani anche dalle zone curde.
Padre Adris Hanna avverte che “i
preti vengono rapiti, le donne violentate,
a Bassora un ragazzo di 14 anni è stato
crocefisso”. “Quella dei cristiani iracheni
è stata fra le prime comunità al
mondo, con il rito siriaco e la lingua
aramaica” dice padre Bernardo Cervellera,
direttore di AsiaNews. “E’ in
corso una guerra contro il cristianesimo
e ‘la’ radice cristiana. Queste comunità
sono importanti nella storia dell’evangelizzazione.
La difesa dei cristiani
non è confessionale, ma di civiltà. Il tradimento
dell’occidente è complice dell’islamismo
panarabo”.
Nel mirino anche i pagani. Tre settimane
fa sono stati giustiziati 23 yazidi,
antichissima setta prezoroastriana, sulla
strada fra Mosul e Ba’ashika, villaggio
a maggioranza cristiano. Hanno fermato
l’autobus e li hanno uccisi dopo
aver fatto scendere i cristiani, a cui
hanno imposto la tassa. Il 21 ottobre
2004 i corpi di due yazidi furono trovati
senza testa fra Talafar e Sinjar. Alle
donne cristiane viene chiesto di rispettare
la sharia, altrimenti rischiano la
morte, e alcune sono state uccise.
Anche la nuova Costituzione, la prima
antifondamentalista del mondo islamico
e sostenuta dai cristiani, è al centro
della furia jihadista perché all’articolo
14 dice che “gli iracheni sono tutti
uguali senza distinzione di sesso, etnia,
nazionalità, origine, colore, religione”,
e all’articolo 7: “Ogni comportamento
che appoggi, aiuti, istighi o propaghi il
razzismo, il terrorismo, il takfir (dichiarare
infedele), la pulizia etnica sono
proibiti”. Nell’ideologia takfir è lecito
uccidere gli “infedeli”, compresi i musulmani
che non seguono la sharia. E’
ammesso l’omicidio di bambini perché
non pecchino in futuro. “Avete goduto
della pace nella terra dei musulmani.
La vostra malevolenza è diventata evidente
quando sono penetrati gli invasori.
Hanno trovato grande sostegno fra i
cristiani come interpreti e informatori.
I cristiani sono agenti degli occupanti”.
Questo mandato di morte fu diffuso dalle
“Brigate per la liquidazione degli
agenti cristiani”.
A settembre fu decapitato padre
Amer Iskander, sequestrato dopo il discorso
a Ratisbona di Benedetto XVI
dai “Leoni dell’islam”. “Il ciarlatano
Benedetto XVI ricorda Urbano II a Claremont”
disse il successore di Zarkawi,
Abu Ayyub al Masri. L’uccisione del coreano
Kim Sun-il fu rivendicata contro
“un cristiano che voleva evangelizzare
la terra dell’islam”. I rapitori di Iskander
volevano trenta cartelle di scuse affisse
sulle chiese di Mosul. Il ministro
curdo Sarkis Ghajan doveva bloccare la
costruzione di case per i cristiani in arrivo.
Il giorno della morte di Iskander,
padre Joseph Petros fu ucciso a Baghdad.
All’Agenzia Fides una suora dice
che “la responsabilità è degli imam che
dicono che uccidere un cristiano non è
reato. E’ una caccia all’uomo”. Tra i mestieri
più colpiti i commercianti di alcolici,
un lavoro permesso sotto Saddam.
Dalla “Rabbia di Allah” all’“Organizzazione
della dottrina islamica”, i wahabiti
vanno a caccia di mercanti di alcol.
Il 95 per cento dei negozi di liquori gestiti
da cristiani ha già chiuso. Nel maggio
2003, lo sceicco sadrista Mohammed
al Fartousi emise una fatwa contro alcolici
e cinema. Fra i primi a morire ci
fu Sabah Sadiq, mentre andava a pagare
il riscatto del fratello. La categoria
dei barbieri è un’altra fra le più insanguinate.
Dopo Baghdad e Mosul, negli
ultimi giorni sono stati colpiti a Kirkuk.
Nel 2005 a Baghdad quaranta barbieri
crivellati o sgozzati.
A Mosul situazione anche peggiore.
Sulle vetrine ci sono volantini di “Monoteismo
e Jihad”, l’organizzazione di
Zarqawi. Il testo invita i barbieri a non
offendere l’islam col taglio rasato. Pena
“la decapitazione del barbiere e del
cliente di fronte ai famigliari”. Altri crimini:
ascoltare musica occidentale, indossare
jeans, vendere film, danzare,
commettere adulterio e, nel caso delle
donne, non coprirsi o camminare senza
un uomo. Una campagna è stata lanciata
contro l’“arte non islamica”. Una serie
di sculture pagane sono state polverizzate.
Una famosa statua nella parte
nord di Mosul è stata distrutta perché
ritraeva donne con le giare sulle spalle.
Sono stati frustrati dei cristiani accusati
di bere alcol. Il corpo di una donna in
vestaglia è stato ritrovato per strada.
“Una prostituta punita” diceva il cartello.
Che tutti prendessero nota. I barbieri
hanno esposto cartelli in cui si legge
che “non si effettuano né il taglio rasato
né la rasatura della barba”. I cristiani
che non si sono dati alla clandestinità
hanno messo scritte cautelative:
“Niente massaggi al viso”. Su un autobus
di linea il conducente ha imposto la
divisione fra uomini e donne. Altri volantini
obbligano i negozi di abbigliamento
a coprire i manichini. I bagni
pubblici hanno chiuso a causa di una
fatwa sul sapone, “non esisteva all’epoca
di Maometto”. Gli ordini arrivano fino
all’assurdità: i ristoranti, molti cristiani,
non possono preparare insalate
di cetrioli e pomodori, uno è femmina e
l’altro maschio. Le donne cristiane non
si mostrano in pubblico senza il velo. I
muri della città sono tappezzati di volantini
che intimano di “seguire le orme
della nostra signora Maria che si copriva
il capo. Pena la morte”.
All’indomani dell’11 settembre, le televisioni
di tutto il mondo trasmisero
uno spot di al Qaida. Un drappello di
jihadisti fa irruzione in una casa, marcia
sotto il funebre stendardo, spara
contro un bersaglio. Una croce cristiana.
Simbolo da abbattere, come le bellissime
giare di Mosul, come i meravigliosi
Buddha di Bamyan, come padre
Iskander. Pochi compresero la simbologia.
Nel 1998 il vescovo pachistano John
Joseph si sparava alla tempia davanti a
un tribunale in cui era stato condannato
a morte il cristiano Ayub Masih. Oggi
come allora, le ciglia del mondo libero
si abbassano sulla sorte dei cristiani. In
Iraq, la terra dell’Eden, la patria di
Abramo da cui partirono gli evangelizzatori
della Cina, una storia millenaria
si sta spegnendo come cenere fredda.
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