Friday, August 10, 2007

il Giappone sorprende sempre

Non troppi anni fa, quando i governi
italiani cambiavano con le stagioni, come
le collezioni del prêt–à–porter, gli osservatori
stranieri si interrogavano stupiti sulla misteriosa
tenuta del nostro sistema sociale ed
economico, in un bel corpo a corpo con la logica.
C’è in questo più di un’analogia con lo
stupore che il mondo occidentale prova davanti
alle sorti, alterne e veloci, del microcosmo
giapponese. La letteratura nippocentrica
degli anni Settanta e Ottanta, in cui si celebravano
le magnifiche sorti e progressive
del Sol Levante, è ormai alle spalle; ma lo è
anche la letteratura apocalittica e, diciamolo,
vagamente iettatrice che celebrava la tragica
agonia del Sol Calante. Negli ultimi
quindici anni abbiamo visto il Giappone attraversare
una lunga fase di recessione-stagnazione,
lo abbiamo visto alle prese con la
crisi del sistema finanziario, con la fine della
piena occupazione, con il costante calo
del tasso di natalità e il relativo aumento di
quello di criminalità; abbiamo visto insomma
emergere una costellazione di variabili
al rosso che ci hanno rivelato un mondo insospettabilmente
fragile. Poi, a un esame
più attento, ci siamo accorti che nel suo
quindicennio di pena il Giappone ha conservato
fondamentali macroeconomici tutto
sommato invidiabili: persino il tasso di disoccupazione,
di cui si è fatto tanto parlare,
non è mai andato troppo lontano dal tasso
frizionale delle nostre regioni più sviluppate.
Oggi – che sia il Giappone di Abe o quello
di Ozawa poco importa – ci troviamo di
fronte a un paese che tra i propositi della
sua convalescenza agita ambizioni di tutto
rispetto, come la drastica riforma dell’assetto
istituzionale interno e l’acquisizione di un
ruolo centrale nella scena politica internazionale.
E’ in fondo questo il mistero giapponese,
la capacità di attraversare piccoli o
enormi traumi senza cessare di pensare in
grande e di realizzare grandi obiettivi.
Così è stato, per esempio, quando, dopo
due secoli e mezzo di contemplazione del
proprio ombelico, un arcipelago di contadini,
pescatori e samurai, non certo benedetto
dal favore della natura e relegato in un
angolo remoto del pianeta, è riuscito in pochi
decenni a diventare una moderna potenza
industriale; o quando una nazione devastata
da una guerra rovinosa (ricorre in
questi giorni l’anniversario dei bombardamenti
di Hiroshima e Nagasaki), è risorta
dalle ceneri delle proprie città senza l’ausilio
di un piano Marshall e in un contesto di
ostilità diffusa (ancora oggi il 65 per cento
dei cinesi e dei sudcoreani dichiara di detestare
il Giappone).
Come diceva Luigi Barzini senior nel 1906
La chiave dell’enigma è in realtà un complicato
intreccio di ragioni, sulle quali le
diagnosi degli studiosi e dei commentatori
non brillano per univocità. Ci sono tuttavia
alcune costanti che aiutano a orientare l’analisi
e a migliorare la comprensione generale
del fenomeno. Anzitutto la straordinaria
omogeneità della società giapponese.
Nella sfera pubblica, ma anche in quella
privata, la rosa dei comportamenti appare
limitata e tutto sommato prevedibile. L’imprevedibilità
è anzi segno certo di anomalia
ed è considerata con sospetto. L’omogeneità
– e l’omogeneizzazione, cioè la tendenza
ad assimilare l’assimilabile – si riscontra
in tutti i settori della vita civile e in
molti ambiti della vita familiare e dell’attività
del singolo. La pubblicistica occidentale
l’ha presentata spesso nei termini di una
coercizione di massa o, al contrario, in
quelli di un nobile ideale. Ma, fatte salve alcune
eccezioni, non si tratta né di un orientamento
forzato né di un’aristocratica virtù
spirituale. Si tratta invece di una costante
sintattica dell’identità giapponese: gli uomini
e le donne del Sol Levante avvertono con
forza la propria appartenenza a un corpo
comune e ciò, al momento opportuno, può
rivelarsi un formidabile strumento propulsivo.
“Un popolo così fatto si muove col
massimo d’energia”, scriveva Luigi Barzini
senior nel lontano 1906, “il suo cammino
non può essere che rapido, impetuoso, irresistibile”.
Il rilievo è valido tuttora.
Strettamente connesso a questo aspetto è
il primato del gruppo e della sua gerarchizzazione,
interna ed esterna, elemento al
quale i giapponesi hanno dato spazio persino
nella struttura grammaticale della loro
lingua. La tendenza a configurare ogni rapporto
in modo gerarchico può essere considerata
un residuo del retaggio feudale, tratto
che emerge con particolare evidenza nell’organizzazione
del sistema produttivo. L’ostentato
scetticismo delle giovani generazioni
riguardo l’importanza di fare parte (o il
dramma di non fare parte) del “clan aziendale”
è un fenomeno recente, forse suscettibile
di originali sviluppi, ma per il momento
velleitario e individuato dall’opinione
pubblica come un problema di rilevanza sociologica.
Tra i vantaggi di una strutturazione
in gruppi gerarchizzati c’è quello di rendere
le diseconomie di sistema facilmente
identificabili: i giapponesi riescono a capire
in tempi rapidi dove si annida il problema,
e in questa fase di identificazione hanno già
posto le premesse per metabolizzarlo.
Un’ultima costante, anch’essa di ascendenza
plurisecolare, è l’incrollabile fede
nella procedura. I giapponesi sono grandi
pianificatori e credono fermamente che un
apparato tecnico-procedurale distillato dall’ingegno
delle persone competenti e dall’esperienza
delle generazioni passate abbia
maggiori probabilità di successo di ogni episodico
estro improvvisativo. Quando vengono
percepite come migliorative, le eruzioni
di creatività, di cui il Giappone è prodigo,
vengono elevate a norma formale e integrate
nel quadro sistematico. Combinata con
una decisa propensione al pragmatismo,
questa terza caratteristica consente ai giapponesi
di elaborare soluzioni applicabili su
vasta scala e di domare l’evidenza dei fatti
anche a costo di convivere con contraddizioni
logiche – o ideologiche – piuttosto patenti.
In Giappone, del resto, la logica è un sapere
avventizio, da sempre subordinato ai dati
di fatto. E i fatti misteriosamente rispondono
o, forse, sentitamente ricambiano.

1 comment:

Ilaria Tatò said...

Bel blog, complimenti!
Ilaria Tatò

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