Sunday, June 03, 2007

Andare in galera in America

Rimane un mistero come il paese che si vuole il paladino della libertà nel mondo si sia trasformato nella società più carceraria del pianeta. Intorno agli anni '70 gli Stati Uniti avevano una percentuale di detenuti, rispetto all'intera popolazione, paragonabile a quella dei paesi dell'Europa occidentale, oggi invece vi si pratica il più grande internamento mai registrato in una democrazia parlamentare. Nel 2004 su centomila abitanti c'erano settecentosessanta carcerati, contro i quarantasette del Giappone, gli ottanta della Francia, i novantaquattro dell'Italia. Negli Usa cioè ci sono sedici volte più prigionieri che in Giappone e otto volte più che in Italia. Solo la Russia del dopo guerra fredda ha cifre paragonabili: settecentotrenta detenuti ogni centomila abitanti. Se a costoro si aggiunge chi è in libertà condizionata o per buona condotta, negli Usa il totale dei sorvegliati superava i 4,3 milioni di persone nel 1990 e i sette milioni nel 2004. Cioè, a ogni momento, negli Stati Uniti più di tre adulti su cento sono presi nelle maglie della giustizia.
Non stupisce che l'argomento susciti la curiosità di giornalisti e ricercatori. Quasi sempre prevale uno sguardo sociologico, come nel libro di un discepolo di Pierre Bourdieu, Loïc Wacquant (Punire i poveri). Diversa è la prospettiva di Elisabetta Grande che, pur passando in rivista tutti gli aspetti della carcerizzazione americana, guarda il fenomeno da un angolo meno battuto e si chiede quali siano i meccanismi di indagine, processuali e giudiziari, che hanno spedito così tante persone dietro le sbarre. Il titolo del suo libro Il terzo strike. La prigione in America (con una nota di Adriano Sofri; Sellerio, pp. 168, euro 15) ricorda quella disposizione, approvata a schiacciante maggioranza per referendum popolare prima in California e poi in altri stati, per cui la terza condanna, anche per reati non gravi, comporta automaticamente l'ergastolo: three strikes and you are out. Al terzo «colpo» ti chiudono in cella e «buttano via la chiave».
Elisabetta Grande riporta casi orripilanti: per esempio, un uomo condannato all'ergastolo (con la clausola che potrà uscire in libertà vigilata non prima di aver scontato cinquant'anni) per aver rubato nove videocassette dal valore complessivo di centocinquanta dollari, solo perché aveva precedenti per furto e trasporto di marijuana; o un altro recidivo punito con il carcere a vita per aver rubato un pezzo di carne del valore di 5 dollari e 62 centesimi (4,19 euro) che oltretutto serviva per nutrire il fratello handicappato e la madre, entrambi affamati perché la pensione di quest'ultima era andata persa nella posta.
Quella che si è persa per strada è l'idea che la pena debba essere proporzionale alla gravità del reato. A questo proposito il libro usa spesso un termine giuridico assai suggestivo: parla di reati bagatellari, di ergastolo bagatellare. È stravolta cioè la nozione stessa di pena giudiziaria e viene meno anche l'ipocrisia borghese della pena come strumento ortopedico, quel redimere attraverso il punire che Michel Foucault ha dissezionato in modo magistrale. Se potessero, i giudici statunitensi farebbero come i loro colleghi delle potenze coloniali di un tempo, spedirebbero i detenuti in Caienna o in Siberia.
Elisabetta Grande segue nei meandri giudiziari l'accumularsi di piccoli dispositivi che messi insieme affollano le prigioni. Due esempi. Uno è basato sull'idea che la verità processuale venga decisa dalla battaglia fra difesa e accusa durante il dibattimento. Ma poiché gli avvocati bravi si fanno pagare dai trecento ai mille dollari per ogni ora di lavoro, gli imputati disagiati possono ricevere solo una difesa d'ufficio che viene svolta da avvocati inesperti o in declino, sopraffatti da una mole immane di lavoro e pagati una miseria: «In Georgia, nel 2002, tre avvocati della stessa famiglia hanno rappresentato in giudizio 776 persone indigenti per un costo medio a imputato di 49,86 dollari (37,21 euro)... Sempre in Georgia un avvocato designato dalla corte si trovò a difendere 94 imputati nello stesso giorno». La debolezza della difesa d'ufficio fa sì che sia più facile per i pubblici ministeri far condannare i poveri e quindi rimpolpare il proprio palmarès di condanne, indispensabile per lanciarsi nella carriera politica. Per la stessa ragione i difensori d'ufficio tendono ad abusare del plea bargaining, il patteggiamento prima del processo, con ammissione di colpa anche in caso d'innocenza: meglio uno sconto di pena che la lotteria del processo. Ne deriva la moltiplicazione del numero di recidivi e quindi di coloro che rientrano nell'incubo del terzo strike. Il numero dei detenuti diventa così una variabile indipendente che non ha nulla a che vedere con il numero e la gravità dei reati realmente commessi, ma è correlato piuttosto al tasso di ansia «sicuritaria» che mass media e politici riescono a instillare nell'opinione pubblica.
Il «grande internamento» americano (per riprendere un altro termine chiave di Foucault) discende così da un perverso intreccio tra sistema mediatico e democrazia rappresentativa, con la specificità tutta statunitense di connotazione razzista della detenzione.
La legge e ordine è infatti e prima di tutto legge bianca per mettere ordine tra i neri che pur essendo solo il 12,5 per cento (uno su otto) della popolazione rappresentano però quasi la metà (uno su due) dei detenuti americani, a tal punto che la detenzione rappresenta un rito di passaggio quasi inevitabile per un giovane nero cresciuto in un ghetto urbano. Gli effetti sulla società americana sono stravaganti e impensabili: per esempio questo tasso di detenzione ha reintrodotto la poligamia nei ghetti urbani, poiché le donne nere devono condividere i pochi maschi fuori dalle sbarre.
Quello che l'ottimo libro di Elisabetta Grande non può fare è prevedere le conseguenze a lungo termine che una carcerazione tanto smisurata produrrà nel tessuto della società statunitense. Certo che è curiosa una società in cui la Correction (così si autodefiniscono le imprese addette) rappresenta uno dei settori trainanti dell'economia: il sistema giudiziario dà lavoro a 2,3 milioni di persone e nel 2001 combattere il crimine è costato negli Usa centosessantasette miliardi di dollari, tre volte e mezzo in più di diciannove anni prima. Elisabetta Grande osserva preoccupata che altri paesi (in primis quelli del Commonwealth) stanno seguendo gli Usa sulla stessa via. Non so se i teorici del postmoderno avessero in mente anche questa involuzione concentrazionaria.
PS. Editori e direttori di giornali dovrebbero difendere Adriano Sofri da se stesso: anche quando espone tesi sensate, deve mettere un sovrappiù di astio che fa torto alla sua intelligenza. Qui nella nota iniziale sostiene a ragione che la legge ex-Cirielli dimostra che l'Italia si sta americanizzando. Ma perché per dirlo deve fare prima una sparata sull'antiamericanismo di ogni discorso sulle prigioni Usa e poi accostarlo all'antisemitismo? Forse che analizzare l'ascesa di Silvio Berlusconi è sintomo di anti-italianismo? Anche qui osserviamo un effetto perverso: la persecuzione giudiziaria sofferta da Sofri e sostenuta dalla destra, gli ha provocato paradossalmente un livore verso la sinistra, che forse dovrebbe tenere più a freno.

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