Pure i vigili, ha chiamato una notte
Piero Fassino. “Ma non è cambiato
niente”. Ha parlato anche con il Campidoglio.
Niente da fare. Dice che forse finirà
così, “non mi stupirei se un giorno
o l’altro ci fosse una lenzuolata degli
abitanti del mio quartiere”. Non si chiude
occhio. “Ogni sera ci sono tremila
persone che si riuniscono nella piazza in
cui abito. L’esasperazione di chiunque
viva lì è arrivata a livelli di guardia”, ha
raccontanto in un’intervista a Barbara
Romano di Libero. “Mi augurerei che ci
fosse un intervento regolatore”. Ne avrà
da aspettare, il segretario dei Ds. Neanche
lui, che pure da anni batte e ribatte
sul tasto, è riuscito a spuntare niente.
“Sono molto infastidito da come si sono
degradate alcune zone del centro storico”.
E così il sonno tarda a venire, e più
che l’azzardo del Partito democratico sono
quei megafoni con cui urlano dalla
piazzetta sotto le finestre di Fassino, alle
tre del mattino, insopportabilmente
fastidiosi, manco uno si fosse infilato il
cilicio della Binetti. Sbotta e borbotta
aggirandosi insonne per casa, il leader
di via Nazionale. Sotto, come si dice, “se
magna se beve e se canta”, e ogni sera
porta la sua croce, e Piero fa persino fatica
a concentrarsi sui suoi amati musical.
E non si trova la voglia nemmeno di
canticchiare “Hello, Dolly!”, come ti possono
venire le parole per affrontare il
giorno dopo, diciamo, Francesco Rutelli?
Ma lo sfogo fassiniano, in più sul giornale
di Feltri, è il segno che il limite è
stato passato, la pazienza esaurita, la tolleranza
grattata via. A Veltroni certo le
orecchie devono aver fischiato ma, sarà
colpa del rumore che sale dai vicoli romani,
il casino resta tutto e perfettamente
intatto. “Undici ristoranti in una piazza
di quattrocento metri quadri, mi pare
francamente eccessivo”, ha elencato
Fassino. La piazzetta è a poca distanza
da Montecitorio. “Macché: sette ristoranti,
un’enoteca e un bar”, contabilizza
Luciano Flamini, padrone di uno di
quei ristoranti. Dice: “So’ incazzati solo
in tre, e anche se uno è super importante
non possiamo fare uno scandalo cittadino.
Il divertimento non può essere
bloccato, dalle due di notte è un deserto”.
Dice Flamini che tutte le autorizzazioni
sono state rispettate, che non c’è
problema di ordine pubblico, che i megafoni
li vendono i cinesi nella strada
accanto, che gli ubriachi non ci sono. “I
ragazzi devono andare da qualche parte
a divertirsi”. Il centro della piazza è
occupato dai bar, certe poltrone fintoghepardate
da restare stupiti, e in effetti
i tavolini sembrano inseguirti dappertutto.
Davanti a un piatto di cacio e pepe
Flamini spiega e rispiega, “nel periodo
estivo la gente fa più rumore, si deve
divertire, poi ci sono pure tanti lavoratori”.
Insomma, l’irritazione fassiniana
lui – costretto a chiudere una discoteca
che aveva a Prati, “perché c’era una signora
che per protestare contro il rumore
si metteva su una croce” – non la capisce.
Taglia corto: “A Torpignattara
non è vero che non c’è rumore, a Torpignattara
non c’è Fassino”. Il quale, mica
è da adesso che lamenta la triste sorte
che sale dalla piazza sottostante. Si
racconta di sue telefonate vecchie di anni
al Campidoglio, “anche stanotte non
ho dormito”, ma niente. Anzi, col tempo
sono arrivati pure i cinesi.
Il problema principale della città pare
la sua paura del vuoto. Dove si vede
una piazza silenziosa, uno slargo pacificato,
un vicolo isolato, lì si corre a inzeppare,
a stipare, a pigiare. Niente può essere
lasciato sgombro, solitario, muto.
L’ammassamento avviene di colpo, con
una sorta di ridanciana isteria. Al peggio,
il locale municipio può piazzarci
una statua – cubi o rombi o colonne falliche
di travertino: Michelangelo dovrebbe
pur trovare il modo di vendicarsi
– pacifici giardinetti “riqualificati” (riqualificazione,
tremenda parola nella
capitale, quasi quanto quell’altra dal
suono minaccioso: restyling) in spianate
pietrose dove manco il cane sa più dove
pisciare (ma dove sanno benissimo dove
pisciare gli umani), utili fontanelle riedificate
in inutili fontanoni. Questo in
periferia. In centro, per dirne una, non
si sa più come scampare – in attesa della
rottura di coglioni della notte – la rottura
di coglioni dell’ora dell’aperitivo.
Detta happy hour, si capisce: manco i
giornalisti in pensione dicono più aperitivo.
Per un bicchiere di prosecco e
qualche stitica tartina, si creano assembramenti
che neanche per le selezioni
della “Sposa perfetta”, s’arraffano sedie
e sgabelli e muretti, si punta il residuo
onore (inconsapevoli Siffredi) sulla conquista
di una patatina. E lì tutti stanno,
con il portatile aperto sulle gambe ad altezza
inguine, freneticamente battono e
battono sui tasti, e deve essere un lavoro
defatigante se non si può staccare
neanche per il momento della bevuta. O
magari la solita fuffa, qualche improduttiva
e geniale pippetta tecnologica, però
pure pippetta di tendenza, quella genere
Second life – “Oh, lo sai chi sono diventato?”
“Qualcosa di meglio di una testa
di cazzo?” – facendo onestamente
piuttosto pena la prima – di life, oh yes!
Manco i poveracci alla mensa della Caritas
fanno un simile attruppamento in
attesa dei viveri. Beh, certo, è socialità.
Te ne stai seduto un muretto, con in mano
un bicchierone da dove spuntano
montagne di ghiaccio (colpo mortale al
Polo, tutto il ghiaccio che serve per rinfrescare
un degno happy hour), basilico
o menta o verdura varia, tre o quattro
cannucce colorate: un manufatto di tali
proporzioni che, degnamente riempito,
potrebbe servire per passare lo straccio
a due o tre uffici. Saggiamente, qualche
poveraccio che abita da quelle parti a
un certo punto minaccia la benemerita
secchiata d’acqua, che purtroppo quasi
mai arriva. “Non ti vergogni?”, ha urlato
un signore a una che gli stava pisciando
nell’androne di casa. “Vergognati tu, che
abiti a Trastevere!”, la replica della signora
dall’incontenibile vescica. Con l’avanzare
della notte – aperto lo stomaco
con la prima bevuta – la faccenda si fa
ancora più buia.
Nelle notti romane abbondano il vomito
(dove capita), il piscio (dove capita),
gli ubriachi (in molti posti), il rumore
(dappertutto). L’insopportabilità corre
ormai sotto la pelle della città. Se uno
come Fassino non riesce a cavare un ragno
dal buco, figuratevi un poveraccio
qualunque. L’idea del divertimentificio
capitolino – c’è gente che preferisce Roma
a Rimini, e non certo per la Galleria
Borghese a portata di mano – è andata
forse oltre ogni intenzione, e adesso appare
fuori controllo. Il diritto a rompere
i timpani con urli e strepiti alle tre del
mattino viene, nel migliore dei casi,
messo sullo stesso piano del diritto al silenzio.
E quasi sempre vince il primo. Il
cuore di Roma è un’immensa distesa di
tavolini, tutta una magnata rumorosa
lungo strade e piazze e anfratti. Turisti
dall’aria non proprio sveglissima, camerieri
che funzionano come buttadentro,
cibi a volte ottimi, lasagne che a vederle
fanno ribrezzo. Roma magna e beve. Poi
suona e urla.
Ora qui si pone il problema: come
mai la città che ha il sindaco più beneducato
del mondo, di suo vocato pure alla
letteratura, curioso e sensibile, è diventata
una città di simile maleducazione,
di simile invasione, spesso di simile
cattivo gusto? Ha chiesto un carabiniere
a un inquilino esasperato dal grande pisciatorio
sotto casa sua: “Possiamo venire
sul suo balcone a controllare?”. Massima
disponibilità: “Certo. Basta che
portate pure i cecchini”. C’è l’adrenalina
che corre per i vicoli del centro e c’è
la bile che scoppia nelle case circostanti.
Ecco, questo è il mistero. Persino il
prefetto della città, Achille Serra, garbato
e civile, anch’esso con una vocazione
alla scrittura e portato a una certa comprensione
dei fenomeni della modernità,
“a Montmartre e a Londra locali e
ristoranti non chiudono prima delle tre.
E noi che facciamo, chiudiamo a mezzanotte?”,
è personificazione della buona
educazione. E allora, il “me ne frego” rispetto
a tutti gli altri, da dove nasce?
Questa sorta di regressione al primitivo
e al casino, questa diffusa cafonaggine
di massa, da dove nasce? A macchia di
leopardo, l’irritazione – stando alle cronache
cittadine – s’allarga giorno per
giorno: dalla piazzetta di Fassino a Trastevere,
con certi vicoletti di pochi metri
e più di venti locali, da Testaccio a Prati
a San Lorenzo a Campo de’ Fiori, dove
da tempo si lotta per mantenere il
controllo della zona con una perigliosità
da strategia afghana. “Lì fanno il ‘violence’,
un gioco violentissimo con la palla,
una sorta di uno contro tutti. Ferocia e
feriti”, racconta con amara ironia un poliziotto.
Avanzano i posti di tendenza,
avanza il casino. L’ultima trovata arriva
dal Financial Times, che ha puntato l’occhio
sull’Ostiense, “qui abita la nuova
Dolce Vita”, e se finora intorno al gazometro
se l’erano cavata, adesso arrivano
i problemi. Tutto prende l’apparenza di
Dolce Vita, a Roma, tutto diventa evento,
tutto si stipa e si rifila e si ricicla – e
così diventa pure, per molti, al più solo
una vitaccia. L’esatto contrario di quello
che pure ha sostenuto un architetto come
Massimiliano Fuksas: “Bisogna togliere,
togliere, togliere”.
Pattuglioni di ubriachi vagano per la
città. C’è qualcosa di surreale nelle dispute
che si accendono nella capitale,
dalla “guerra dei tavolini”, apparentemente
una tacca sopra la classica
“guerra dei bottoni”, in realtà marea
montante topomasticamente dilagante,
pure in vicoli dove certe sere quasi non
passi neanche a piedi. Quelle tavolate
all’aperto che Fellini immaginò grevi
ma allegre nel suo “Roma” ormai trasformate
in una palude informe, senza
capo né coda. “Tavolino selvaggio” lo
chiamano i giornali: un classico capitolino.
E poi, la “guerra della bottiglie” –
e leva il vetro, e metti il vetro, e senti il
Tar – e ogni faccenda si fa eterna, e più
si allunga nel tempo e più si allontana
nella soluzione. A Roma l’alcol scorre a
fiumi, quattro ubriachi stranieri hanno
danneggiato la fontana di piazza di Spagna,
e senza alcol una signora si è spogliata
e infilata dentro quella di Trevi.
A volte pare un “tana libera tutti” senza
grazia e senza misura, la capitale. Dicono:
ah, milioni di turisti in più! Una
sorta di altro dogma, i turisti. Ora, se
uno non è un oste o un tassita o un borseggiatore,
che gliene frega dei turisti?
Essendo poi una passione cittadina
quella delle nozze con i fichi secchi, i
turisti son milioni, gli autobus sempre
gli stessi, così ti ritrovi certe chiappone
americane che, puoi spingere come
vuoi, ma sul tram non sali. I giornali,
nelle cronache minute, fanno impressione.
Gli atti di piccola prepotenza e di
piccolo vandalismo sembrano far parte
ormai del paesaggio urbano. C’è chi si
arrangia come può. Su Internet si trovano
testimonianze tra la rabbia e la tenerezza.
“Tempo fa una band composta da
tamburelli, tamburi, fisarmoniche e chi
più ne ha più ne metta, stazionava sotto
la mia finestra, e nonostante un invito
educato ad andarsene ha preso a suonare
a più non posso con evidenti sorrisetti
di sfida. Gli ho fatto il bagno! Tempo
cinque minuti (notate la tempestività)
un carabiniere mi ha bussato alla
porta di casa…”. Perché se non si urla
si suona, essendo il concertino sgangherato
ormai elevato al rango di diritto inviolabile.
“Oggi abbiamo iniziato intorno
alle nove di mattina. Fisarmonica,
poi orchestrina jazz, poi piccola band
di tamburelli e fisarmonica, quindi sassofono
e di nuovo fisarmonica, con un
interminabile medley di brani, da besame
mucho a barcarolo romano passando
per ‘o sole mio. In questo momento
c’è un tale con trombe, trombette, fisarmonica
e strumenti vari, speriamo bene
per la notte”. E neanche è cominciata
la parata musical-godereccia dell’Estate
romana… Al massimo, per ora è il
turno dei punkabbestia, che provano a
intenerire i passanti per scucire qualcosa.
Cioè, ci provano le bestie al seguito,
essendo alla bisogna i padroni decisamente
inadatti.
La Roma incazzata per questo groviglio
di suoni e urla e piscio si ritrova
spesso nelle lettere alle cronache dei
giornali, dal Messaggero a Repubblica
fino a quelle a Maria Latella, che da sei
anni cura quelle del Corriere romano, e
ne ha già lette qualche migliaio. Ed è
appunto la maleducazione montante –
se restiamo al disagio, senza inoltrarsi
sul versante della criminalità – l’elemento
che più colpisce. Caos e schiamazzi,
“scandalosa inciviltà”, i passeggini
dei bambini bloccati, i motorini
ovunque, la notte brava, i vandalismi, le
miniproteste che prendono in ostaggio
tutta la città… Persino l’Atac promette
“interventi formativi mirati allo scopo
di migliorare la professionalità del proprio
personale” (al momento, ha cambiato
le divise). Sì, certo, Roma secondo
le statistiche è decentemente sicura, il
sindaco butta giù ogni schifezza abusiva,
ma a volte la realtà si scontra, pure
mediaticamente, con le più belle intenzioni.
Cronaca di Repubblica, qualche
giorno fa. In alto, articolo sul sindaco
che ha portato aiuti nel Malawi: “Cara
Africa, ritorneremo”. Poco più sotto,
una lettera: “Insultata da un africano in
viale XXI Aprile”. Ecco.
Qualcosa, nella quotidianità di Roma,
sta cedendo. Basta uno sguardo
per accorgersene. Il centro, per esempio,
in certi momenti pare una piccola
Calcutta: una generalizzata corsa all’accattonaggio,
al falso sentimento di
pietà, alla molestia continua. Sciancati
finti e menomati veri che si trascinano
su carrettini, ubriachi che pretendono
al semaforo di lordare con una
pezza i fanali (neanche più pulire il vetro)
e che urlano, zingare finte vecchie
e finte zoppe che arrancano al semaforo
rosso, per scattare con passo lesto al
momento del verde, gente che espone
gambe con croste sanguinanti, monconi
di arti, bimbi costretti a mendicare,
intere famiglie di pulitori di vetri che
presidiano gli incroci più ambiti, posteggiatori
abusivi con l’aria da tagliagole,
quelli che si piazzano dietro le
porte delle chiese. Poi, quasi un’impresa
un viaggio in autobus senza il musicista
ambulante che da tempo ha smesso
di essere il tenero violinista squattrinato
da cinema neorealista, che ti
molla quelle due o tre solite musichette,
indifferente alle chiacchiere o agli
spazi, e con granitica efficienza fa tre
fermate in su e tre fermate in giù, non
una di meno non una di più. Se si percorre
la strada da via Nazionale fino a
via Arenula, attraversando il centro, si
trovano ogni genere di nuovo accattonaggio,
da una vetrina all’altra intere
comitive scandiscono il percorso. E
con un’attenzione capillare ai fatti della
geopolitica, evolvendo anno per anno
da “povera di Bosnia” a “povera di
Romania” – essendo sempre la stessa
sfortunata questuante. Se si riesce a
evitare il borseggio da parte degli zingarelli
– ora spediti a far razzia di vestiti
come adolescenti qualunque: sui
giornali esistono paginate di sequenze
fotografiche che raccontano il danno al
turista più jellato. Roma così si fa insopportabile,
piccolo percorso di esasperazione
quotidiana, tra lo scampare
al borseggio e il parcheggiare con un
ubriaco che ti urla vicino e ti chiede i
soldi. Una faccenda forse complementare
all’altra faccia della città, quella
dei ristoranti, dei mille ritrovi, dei cento
casini: allegra così, così da far tristezza.
Confusione senza allegria, perciò,
qualcosa che pare aver preso del
veltronismo solo l’apparenza, rifiutando
la sostanza. Veltroni, certo, molto si
spende. Evoca memoria (ogni memoria)
e altruismo e buoni esempi. Però a
Marco Lodoli succede di fare un giro
intorno a un liceo e di contare ben 92
(novantadue!) macchinine, quelle con
motore 50, lì posteggiate dagli studiosi
adolescenti. Vengono certi pensieri,
ma forse semplicemente non si fidano
del plebeo autobus. O l’hanno trovato
già pieno di turisti.
Saturday, May 19, 2007
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