E’ dal gennaio del 2003 che Ayaan Hirsi
Ali cammina guardandosi le spalle. Da
quando il quotidiano Trouw pubblicò un’intervista
in cui riservava parole durissime
all’islam. Nella segreteria telefonica trovò
il messaggio di un arabo che minacciava di
farle saltare in aria la casa. La polizia organizzò
ronde per difenderla. Era impreparata
alla caccia scatenata contro la più celebre
dissidente islamica. Una fatwa che nel
paese di Spinoza si concluderà con il suo
esilio negli Stati Uniti. Dopo quattro anni,
anni trascorsi in basi navali e caserme militari,
Ayaan vive protetta dalla scorta. Anche
adesso che abita a Washington, anche
in Italia dove è venuta a presentare il suo
“Infedele” (Rizzoli).
Era lei l’obiettivo di Mohammed Bouyeri.
Troppo protetta, fu scelto l’amico e collega
Theo van Gogh. Lasciò una lettera infilzata
sul suo petto, rivolta alla “guerriera
del male” Hirsi Ali, “malefica infedele”. Il
testo si apriva con le parole “Nel nome di
Allah clemente misericordioso”, seguite da
una citazione del Profeta. Poi l’elenco di
tutti i “crimini” che Ayaan aveva commesso.
Contro di lei si sono scomodati gli ambasciatori
di Malesia, Pakistan e Arabia
Saudita, che ne hanno chiesto l’espulsione
al governo dell’Aia. Non c’è alcun terrore
sul suo volto, ma la luce rincuorante di
una giovane donna abituata a sentirsi chiamare
“aswad abda”, schiava nera, durante il periodo
trascorso fra i custodi dei luoghi santi
dell’islam. Abituata a vivere anche nel
cortile dell’ambasciata d’Israele all’Aia.
Nell’intervista che segue concessa al Foglio,
questa partigiana somala stile Gertrude
Bell dice che rifarebbe il film “Submission”,
costato la vita a Van Gogh. Ayaan parla
la lingua di un ghetto vivo che reclama libertà.
“Il mio è stato un viaggio dalla sottomissione
all’islam, al clan e alla famiglia
verso la possibilità di determinare il mio
destino. Ho lasciato il mondo della mutilazione
genitale per quello della ragione. Sto
lavorando a un nuovo libro e al sequel del
film. Il primo era sulle donne. Il secondo su
quattro uomini: uno che odia gli ebrei, un
gay, un bon vivant e un martire. Dobbiamo
girarlo nell’anonimato. Dagli attori ai tecnici
nessuno sarà riconoscibile. Non si dice pentita
pentita del lavoro realizzato con quell’olandese
dal nome altisonante. “Chi dice che
il film era offensivo non vuole vedere la
condizione delle donne nell’islam. I versetti
che incitano alla violenza li ho presi dal
Corano e li ho incisi sul corpo della protagonista.
Non ho inventato nulla. Gli imam
ripetono quel messaggio nelle moschee,
mariti e fratelli perpetuano nelle case la
sottomissione”.
Ayaan non partecipò al funerale di
Theo. Avrebbe messo a rischio la vita degli
altri. Le fu concesso un saluto all’obitorio.
“Arrivai con un convoglio di automobili e
una schiera di uomini armati. Lo baciai
sulla fronte e gli dissi: ‘Perdonami per
quello che ti ho fatto’”. Durante la commemorazione,
la madre di Theo si rivolse simbolicamente
ad Ayaan. “Disse che non dovevo
sentirmi in colpa per l’omicidio del figlio:
erano quindici anni che veniva minacciato.
Mi chiamò per nome, si rivolse a
me direttamente: mi disse di portare avanti
la mia missione. Dopo qualche giorno
scrissi una lettera alla famiglia di Theo. Gli
uomini della sicurezza la lessero, prima di
recapitarla, per controllare che non ci fosse
alcun indizio che potesse rivelare dove
mi trovavo”. E’ la vita di “una delle donne
più coraggiose del nostro tempo”, secondo
la definizione del Jerusalem Post. Quando
il personale di un hotel scopre chi è, la
scorta la fa subito trasferire.
Ayaan Hirsi Ali non aveva nulla in contrario
a che Tariq Ramadan parlasse in un
Festival della filosofia, come è successo a
Roma: “Credo nella libertà di opinione, è
questo ciò che mi ha insegnato l’occidente.
Anche se le idee sono orribili.
Le persone possono ascoltare e giudicare.
Però deve esserci contraddittorio.
Ramadan è in cerca di proseliti.
E’ un seguace della ‘dawa’, la
chiamata, le terre non islamiche come
zona di conquista, ogni convertito ha
l’obbligo di predicare l’islam agli altri. E
non è un ‘riformista’: non mette in discussione
il fatto che Maometto avesse per moglie
una bambina di nove anni, non denuncia
l’uccisione di ebrei, omosessuali,
‘infedeli’ e il jihad. Come Ramadan è lo
sceicco Yusuf al Qaradawi. Dice che
l’apostata non ha diritto di vivere. E’ la fine che
dovrei fare io. Per gli agenti dell’islam,
quelli che vogliono creare un califfato, non
importa che tu sia conservatore o liberal.
Sei comunque ‘infedele’. L’occidente può
vincere solo se prima riconosce di essere
in guerra. Una guerra contro una mentalità,
un’ideologia, una filosofia. L’islam ha
tre metodi di conquista: la ‘dawa’, la natalità
e il jihad. Dobbiamo dichiarare guerra
alla propaganda islamista”.
Ayaan parla della funzione della dissidenza
contro il “nuovo totalitarismo”, a
Berlino tenne un discorso memorabile su
questo tema. “I dissidenti sono importanti
come lo erano durante il comunismo. Gli
unici che mettono in discussione la cultura
del martirio e del jihad. Ma la società occidentale
preferisce affidarsi a gente come
Ramadan: non si parla con un apostata, non
si dà credito a chi è uscito dall’islam, i dissidenti
sono pazzi. E’ quello che si diceva di
quelli russi. Erano pochi e oppressi, i liberal
ne fecero una caricatura. I nostri avversari
ricorrono a ogni genere di manipolazione,
dicono che siamo deboli di mente.
Anche i difensori del comunismo usavano
questi metodi. Mi hanno accusato di aver
creato un ‘trauma’. Dipendono da me le
Torri gemelle abbattute con tremila persone
o le vittime di Londra nel 2005?”. Si parla
spesso di “equivalenza di fondamentalismi”.
“Il relativismo non è altro che razzismo
di basse aspettative. La sinistra crede
che musulmani, arabi e gente di colore non
vadano trattati come adulti. Prendi Paul
Wolfowitz e il linciaggio a cui è stato sottoposto
con la compagna Shaha. Kofi Annan
era un corrotto e suo figlio era in affari con
Saddam Hussein. Ma nessuno gli ha mai
chiesto di dimettersi. Questo vale anche per
gente come Ian Buruma e Timothy Garton
Ash, che mi accusano di essere una fanatica
dell’illuminismo. Sono cresciuti in un
ambiente in cui era di moda e scontato criticare
la cristianità. Però dicono che non
dobbiamo mettere in discussione l’islam”.
La famiglia di Ayaan possedeva una pecora.
“La prendevo di punta e scappava.
Mia nonna diceva: ‘Accarezzala sulla fronte’.
Così diventava mansueta. E’ quello che
stiamo facendo con l’islam, lo accarezziamo
nella speranza che non attacchi. In Africa
usavamo gli animali come metafora. Per lo
struzzo ci sarà un islam europeo. Un islam
stile Prada sostituità quello rurale. Il gufo,
l’animale notturno che attraversa le tenebre,
vede invece ciò che lo struzzo ignora.
Come il successo del totalitarismo islamista”.
L’ex ministro della Giustizia olandese, Piet Hein Donner, dice che se i musulmani
fossero maggioranza, la sharia potrebbe essere
adottata per vie democratiche. “Sono
le parole di chi ha conosciuto solo la libertà.
E ha smesso di darle valore. Ma sono
dei musulmani i primi sospetti sui liberal,
sanno che non li prendono sul serio. I liberal
vorrebbero rendere uguali a loro tutti i
musulmani”. La “colpa” di Ayaan è aver attaccato
il cuore dell’islam. “A Beslan, Madrid,
Bali o nel caso dei cristiani sgozzati in
Turchia non vi è odio all’opera, ma la fede.
Gli assassini degli innocenti credono di avere
mandato divino. L’islam ha caratteristiche
che possono coesistere con la democrazia.
Mi è stato insegnato a essere generosa
con i vecchi e i poveri. Ma i principi
fondamentali dell’islam e della democrazia
sono incompatibili. Ha visto cos’è successo
a Robert Redeker? Linciato. I vignettisti danesi
vivono in clandestinità. L’unica distinzione
è fra l’islam e i musulmani, non credo
in una riforma della fede. Ricordo in Arabia
Saudita le impiccagioni, il taglio delle
mani, le donne lapidate. Il rispetto letterale
del Profeta è incompatibile con i diritti
umani. Credo invece nella persona, nel musulmano.
A lui è concesso di cambiare, come
a me, cresciuta nell’odio degli ebrei”.
Il suo nome in somalo significa “fortunata”.
In un inglese macchiato dalla malinconia
dell’esilio che la spinge a chiamare Amsterdam
con il nome ebraico di Mokum,
Ayaan dice di aver maturato un amore atleatletico
per l’America. “Un paese dove non conta
colore, sesso o religione. L’America è un
concetto di libertà. Non ho intenzione di lasciarla.
L’occidente dà per scontata la libertà.
Deve proteggerla dai predatori. Ho
sostenuto la guerra in Iraq e continuo a farlo.
Detesto la codardia di chi votò per la liberazione
di Baghdad e oggi balbetta: ‘Sono
contrario sono contrario’. Sono solo degli
stupidi”. Il giorno dopo la visita al corpo di
Theo all’obitorio, Ayaan fu portata in un
centro per l’addestramento degli agenti di
polizia nei pressi di Hoogerheide. Passò la
notte in una delle cuccette. Le tornarono in
mente le parole di Theo alla fine delle riprese:
“Sono fiero del mio lavoro”. Quella
speciale fierezza che lei adesso predica in
giro per il mondo, nobile ambasciatrice di
un’idea che ha imparato a difendere come
pochi altri sanno fare. La libertà.
Ali cammina guardandosi le spalle. Da
quando il quotidiano Trouw pubblicò un’intervista
in cui riservava parole durissime
all’islam. Nella segreteria telefonica trovò
il messaggio di un arabo che minacciava di
farle saltare in aria la casa. La polizia organizzò
ronde per difenderla. Era impreparata
alla caccia scatenata contro la più celebre
dissidente islamica. Una fatwa che nel
paese di Spinoza si concluderà con il suo
esilio negli Stati Uniti. Dopo quattro anni,
anni trascorsi in basi navali e caserme militari,
Ayaan vive protetta dalla scorta. Anche
adesso che abita a Washington, anche
in Italia dove è venuta a presentare il suo
“Infedele” (Rizzoli).
Era lei l’obiettivo di Mohammed Bouyeri.
Troppo protetta, fu scelto l’amico e collega
Theo van Gogh. Lasciò una lettera infilzata
sul suo petto, rivolta alla “guerriera
del male” Hirsi Ali, “malefica infedele”. Il
testo si apriva con le parole “Nel nome di
Allah clemente misericordioso”, seguite da
una citazione del Profeta. Poi l’elenco di
tutti i “crimini” che Ayaan aveva commesso.
Contro di lei si sono scomodati gli ambasciatori
di Malesia, Pakistan e Arabia
Saudita, che ne hanno chiesto l’espulsione
al governo dell’Aia. Non c’è alcun terrore
sul suo volto, ma la luce rincuorante di
una giovane donna abituata a sentirsi chiamare
“aswad abda”, schiava nera, durante il periodo
trascorso fra i custodi dei luoghi santi
dell’islam. Abituata a vivere anche nel
cortile dell’ambasciata d’Israele all’Aia.
Nell’intervista che segue concessa al Foglio,
questa partigiana somala stile Gertrude
Bell dice che rifarebbe il film “Submission”,
costato la vita a Van Gogh. Ayaan parla
la lingua di un ghetto vivo che reclama libertà.
“Il mio è stato un viaggio dalla sottomissione
all’islam, al clan e alla famiglia
verso la possibilità di determinare il mio
destino. Ho lasciato il mondo della mutilazione
genitale per quello della ragione. Sto
lavorando a un nuovo libro e al sequel del
film. Il primo era sulle donne. Il secondo su
quattro uomini: uno che odia gli ebrei, un
gay, un bon vivant e un martire. Dobbiamo
girarlo nell’anonimato. Dagli attori ai tecnici
nessuno sarà riconoscibile. Non si dice pentita
pentita del lavoro realizzato con quell’olandese
dal nome altisonante. “Chi dice che
il film era offensivo non vuole vedere la
condizione delle donne nell’islam. I versetti
che incitano alla violenza li ho presi dal
Corano e li ho incisi sul corpo della protagonista.
Non ho inventato nulla. Gli imam
ripetono quel messaggio nelle moschee,
mariti e fratelli perpetuano nelle case la
sottomissione”.
Ayaan non partecipò al funerale di
Theo. Avrebbe messo a rischio la vita degli
altri. Le fu concesso un saluto all’obitorio.
“Arrivai con un convoglio di automobili e
una schiera di uomini armati. Lo baciai
sulla fronte e gli dissi: ‘Perdonami per
quello che ti ho fatto’”. Durante la commemorazione,
la madre di Theo si rivolse simbolicamente
ad Ayaan. “Disse che non dovevo
sentirmi in colpa per l’omicidio del figlio:
erano quindici anni che veniva minacciato.
Mi chiamò per nome, si rivolse a
me direttamente: mi disse di portare avanti
la mia missione. Dopo qualche giorno
scrissi una lettera alla famiglia di Theo. Gli
uomini della sicurezza la lessero, prima di
recapitarla, per controllare che non ci fosse
alcun indizio che potesse rivelare dove
mi trovavo”. E’ la vita di “una delle donne
più coraggiose del nostro tempo”, secondo
la definizione del Jerusalem Post. Quando
il personale di un hotel scopre chi è, la
scorta la fa subito trasferire.
Ayaan Hirsi Ali non aveva nulla in contrario
a che Tariq Ramadan parlasse in un
Festival della filosofia, come è successo a
Roma: “Credo nella libertà di opinione, è
questo ciò che mi ha insegnato l’occidente.
Anche se le idee sono orribili.
Le persone possono ascoltare e giudicare.
Però deve esserci contraddittorio.
Ramadan è in cerca di proseliti.
E’ un seguace della ‘dawa’, la
chiamata, le terre non islamiche come
zona di conquista, ogni convertito ha
l’obbligo di predicare l’islam agli altri. E
non è un ‘riformista’: non mette in discussione
il fatto che Maometto avesse per moglie
una bambina di nove anni, non denuncia
l’uccisione di ebrei, omosessuali,
‘infedeli’ e il jihad. Come Ramadan è lo
sceicco Yusuf al Qaradawi. Dice che
l’apostata non ha diritto di vivere. E’ la fine che
dovrei fare io. Per gli agenti dell’islam,
quelli che vogliono creare un califfato, non
importa che tu sia conservatore o liberal.
Sei comunque ‘infedele’. L’occidente può
vincere solo se prima riconosce di essere
in guerra. Una guerra contro una mentalità,
un’ideologia, una filosofia. L’islam ha
tre metodi di conquista: la ‘dawa’, la natalità
e il jihad. Dobbiamo dichiarare guerra
alla propaganda islamista”.
Ayaan parla della funzione della dissidenza
contro il “nuovo totalitarismo”, a
Berlino tenne un discorso memorabile su
questo tema. “I dissidenti sono importanti
come lo erano durante il comunismo. Gli
unici che mettono in discussione la cultura
del martirio e del jihad. Ma la società occidentale
preferisce affidarsi a gente come
Ramadan: non si parla con un apostata, non
si dà credito a chi è uscito dall’islam, i dissidenti
sono pazzi. E’ quello che si diceva di
quelli russi. Erano pochi e oppressi, i liberal
ne fecero una caricatura. I nostri avversari
ricorrono a ogni genere di manipolazione,
dicono che siamo deboli di mente.
Anche i difensori del comunismo usavano
questi metodi. Mi hanno accusato di aver
creato un ‘trauma’. Dipendono da me le
Torri gemelle abbattute con tremila persone
o le vittime di Londra nel 2005?”. Si parla
spesso di “equivalenza di fondamentalismi”.
“Il relativismo non è altro che razzismo
di basse aspettative. La sinistra crede
che musulmani, arabi e gente di colore non
vadano trattati come adulti. Prendi Paul
Wolfowitz e il linciaggio a cui è stato sottoposto
con la compagna Shaha. Kofi Annan
era un corrotto e suo figlio era in affari con
Saddam Hussein. Ma nessuno gli ha mai
chiesto di dimettersi. Questo vale anche per
gente come Ian Buruma e Timothy Garton
Ash, che mi accusano di essere una fanatica
dell’illuminismo. Sono cresciuti in un
ambiente in cui era di moda e scontato criticare
la cristianità. Però dicono che non
dobbiamo mettere in discussione l’islam”.
La famiglia di Ayaan possedeva una pecora.
“La prendevo di punta e scappava.
Mia nonna diceva: ‘Accarezzala sulla fronte’.
Così diventava mansueta. E’ quello che
stiamo facendo con l’islam, lo accarezziamo
nella speranza che non attacchi. In Africa
usavamo gli animali come metafora. Per lo
struzzo ci sarà un islam europeo. Un islam
stile Prada sostituità quello rurale. Il gufo,
l’animale notturno che attraversa le tenebre,
vede invece ciò che lo struzzo ignora.
Come il successo del totalitarismo islamista”.
L’ex ministro della Giustizia olandese, Piet Hein Donner, dice che se i musulmani
fossero maggioranza, la sharia potrebbe essere
adottata per vie democratiche. “Sono
le parole di chi ha conosciuto solo la libertà.
E ha smesso di darle valore. Ma sono
dei musulmani i primi sospetti sui liberal,
sanno che non li prendono sul serio. I liberal
vorrebbero rendere uguali a loro tutti i
musulmani”. La “colpa” di Ayaan è aver attaccato
il cuore dell’islam. “A Beslan, Madrid,
Bali o nel caso dei cristiani sgozzati in
Turchia non vi è odio all’opera, ma la fede.
Gli assassini degli innocenti credono di avere
mandato divino. L’islam ha caratteristiche
che possono coesistere con la democrazia.
Mi è stato insegnato a essere generosa
con i vecchi e i poveri. Ma i principi
fondamentali dell’islam e della democrazia
sono incompatibili. Ha visto cos’è successo
a Robert Redeker? Linciato. I vignettisti danesi
vivono in clandestinità. L’unica distinzione
è fra l’islam e i musulmani, non credo
in una riforma della fede. Ricordo in Arabia
Saudita le impiccagioni, il taglio delle
mani, le donne lapidate. Il rispetto letterale
del Profeta è incompatibile con i diritti
umani. Credo invece nella persona, nel musulmano.
A lui è concesso di cambiare, come
a me, cresciuta nell’odio degli ebrei”.
Il suo nome in somalo significa “fortunata”.
In un inglese macchiato dalla malinconia
dell’esilio che la spinge a chiamare Amsterdam
con il nome ebraico di Mokum,
Ayaan dice di aver maturato un amore atleatletico
per l’America. “Un paese dove non conta
colore, sesso o religione. L’America è un
concetto di libertà. Non ho intenzione di lasciarla.
L’occidente dà per scontata la libertà.
Deve proteggerla dai predatori. Ho
sostenuto la guerra in Iraq e continuo a farlo.
Detesto la codardia di chi votò per la liberazione
di Baghdad e oggi balbetta: ‘Sono
contrario sono contrario’. Sono solo degli
stupidi”. Il giorno dopo la visita al corpo di
Theo all’obitorio, Ayaan fu portata in un
centro per l’addestramento degli agenti di
polizia nei pressi di Hoogerheide. Passò la
notte in una delle cuccette. Le tornarono in
mente le parole di Theo alla fine delle riprese:
“Sono fiero del mio lavoro”. Quella
speciale fierezza che lei adesso predica in
giro per il mondo, nobile ambasciatrice di
un’idea che ha imparato a difendere come
pochi altri sanno fare. La libertà.
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