Era ora che uscisse un articolo su questo...
Il cittadino socialmente responsabile
che mangia biologico, compra equo e solidale
e si rifornisce al negozio all’angolo
danneggia se stesso, il prossimo e l’ambiente.
Lo sostiene l’ultimo numero dell’Economist
che dedica la copertina alla questione
della crescente disponibilità dei
consumatori a pagare un premio sui beni
alimentari in cambio della rassicurazione
che, così facendo, stanno contribuendo alla
salvezza del mondo.
Il primo dei fenomeni preso in esame è
l’agricoltura biologica, un business da
trenta miliardi di dollari. Essendo meno
produttiva rispetto a quella convenzionale,
a parità di raccolto essa richiede un
uso più estensivo del suolo. Tra il 1950 e il
2000, la produzione globale è triplicata,
ma l’estensione della terra coltivata è cresciuta
solo del 10 per cento: senza l’aiuto
della chimica, anch’essa avrebbe dovuto
triplicare. Il secondo caso è quello del
commercio equo e solidale, il cui giro d’affari
è salito nel 2005 del 37 per cento, raggiungendo
1,4 miliardi di dollari. I consumatori
pagano un prezzo superiore a quello
di mercato per aiutare gli agricoltori
dei paesi in via di sviluppo. Quattro sono
le obiezioni dell’Economist: in primo luogo,
l’aumento dei prezzi di beni come il
caffè ne incoraggia la coltivazione, contribuendo
così ad abbassare ulteriormente i
prezzi di mercato e disincentivando la diversificazione.
Quindi, per aiutare alcuni
agricoltori, si fa del male a tutti gli altri.
Inoltre, la certificazione equa e solidale
viene di norma concessa sulla base di pregiudizi
politici, e in particolare tende a favorire
le cooperative, escludendo le imprese
familiari. Terzo, l’esistenza di un
prezzo minimo allenta la tensione verso il
miglioramento delle pratiche agricole. Infine,
solo il 10 per cento della rendita equa
e solidale va ai presunti beneficiari: il resto
rimane a distributori e rivenditori.
L’ultimo esempio è quello dei cibi prodotti
localmente (spesso non biologici, peraltro),
che potrebbe avere un impatto ambientale
negativo. Alla riduzione delle distanze
corrisponderebbe un aumento dei
viaggi e dei volumi, e dunque delle emissioni.
Anche i consumatori, i cui movimenti
sarebbero circa la metà dei chilometri
percorsi dal cibo lungo l’intera filiera, andrebbero
da un negozio all’altro rinunciando
all’opportunità di acquistare tutto
nello stesso supermercato. La conclusione
dell’Economist è che i grandi problemi,
dall’inquinamento alle disparità sociali,
non si possono risolvere semplicemente
mutando il modo di far shopping. “I veri
cambiamenti – dice il periodico britannico
– richiedono decisioni dei governi, come
una carbon tax globale; la riforma del
commercio internazionale; e l’abolizione
delle tariffe e dei sussidi all’agricoltura,
soprattutto la mostruosa politica agricola
comune (Pac) europea”. In pratica, l’Economist
offre due suggerimenti contraddittori:
da un lato chiede meno stato, dall’altro
più stato.
Sul fronte della liberalizzazione, è indubbio
che solo l’apertura dei mercati può
aiutare il mondo in via di sviluppo a risollevarsi.
La stessa Pac – sussidiando gli
agricoltori europei, fermando alla frontiera
le merci straniere, e distribuendo sottocosto
le produzioni in eccesso nei paesi
concorrenti – è un importante vettore di
depressione dei prezzi sui mercati globali,
pur mantenendoli artificialmente alti
nell’isola europea. Il risultato è disastroso:
si calcola che una maggiore libertà di
scambio potrebbe far crescere del 5 per
cento il pil africano. In base alla stessa logica,
però, bisognerebbe essere scettici
verso l’introduzione di nuove tasse sulle
emissioni di gas serra: l’esperienza, anche
in relazione alla domanda di terreni agricoli,
mostra che il settore privato e il mercato
libero sono assai più efficienti e innovativi
dell’interventismo pubblico. Quindi,
un incremento delle imposte finirebbe
per sottrarre risorse alle imprese e, in ultima
analisi, limitarne la capacità di investire
in ricerca e sviluppo. L’eccesso di regolamentazione,
più che un toccasana, è
fonte di guai.
Sebbene la terapia proposta dall’Economist
sia discutibile, la diagnosi è corretta:
quelle pratiche commerciali che vengono
brandite come moralmente superiori hanno
in realtà conseguenze inintenzionali assai
fastidiose. Seguirle è più snobismo politico
e vezzo da ricchi che gesto concreto
a favore dei poveri. Non necessariamente
chi più spende meno spende: anzi, in questo
caso potrebbe appartenere alla quarta
tipologia umana di Carlo Maria Cipolla,
quella di chi causa un danno agli altri subendo
egli stesso una perdita.
Sunday, December 10, 2006
Thursday, December 07, 2006
E bravo Sarkozy....
Dieci leggi contro la criminalità e due sull’immigrazione
approvate in meno di quattro anni e mezzo,
e Nicolas Sarkozy non è ancora all’Eliseo. La sinistra
e i benpensanti lo accusano di “valanga” (il Monde)
e “inflazione legislativa” (Libération). Ma, grazie al ministro
dell’Interno, i francesi sono più sicuri,
cala l’immigrazione subita (i ricongiungimenti familiari)
e cresce quella scelta (i migranti che lavorano),
le domande di asilo contraffatte sono crollate e le
espulsioni raddoppiate. In Francia c’è chi parla e chi fa.
Se Ségolène Royal parla delle “scuole per i genitori”
dei giovani malviventi, Sarko le ha già fatte,
istituendo i corsi di “responsabilità familiare”.
E’ una delle novità del progetto di legge sulla
delinquenza adottato martedì dall’Assemblea nazionale.
I sindaci avranno più poteri sui minori, le
sanzioni potranno essere applicate dall’età di
dieci anni, i tredicenni rischiano la detenzione
provvisoria, i quasi diciottenni avranno meno riduzioni di pena e
i poliziotti saranno più protetti.
Lunedì Sarko tornerà alla carica sull’immigrazione,
il grande tema della sua campagna
presidenziale, perché le categorie protette
dagli alibi del politically correct
– predicatori d’odio, clandestini, “feccia” delle banlieue
– non sono risparmiate dalla “rottura”.
Ufficializzando la candidatura, Sarko ha avuto il coraggio
di definirsi “liberale” e la maggioranza dei francesi lo ritiene il più
credibile per una politica economica efficace.
Ma, nella Francia della conservazione, Sarko ha il difetto elettorale
della risolutezza e della verità.
approvate in meno di quattro anni e mezzo,
e Nicolas Sarkozy non è ancora all’Eliseo. La sinistra
e i benpensanti lo accusano di “valanga” (il Monde)
e “inflazione legislativa” (Libération). Ma, grazie al ministro
dell’Interno, i francesi sono più sicuri,
cala l’immigrazione subita (i ricongiungimenti familiari)
e cresce quella scelta (i migranti che lavorano),
le domande di asilo contraffatte sono crollate e le
espulsioni raddoppiate. In Francia c’è chi parla e chi fa.
Se Ségolène Royal parla delle “scuole per i genitori”
dei giovani malviventi, Sarko le ha già fatte,
istituendo i corsi di “responsabilità familiare”.
E’ una delle novità del progetto di legge sulla
delinquenza adottato martedì dall’Assemblea nazionale.
I sindaci avranno più poteri sui minori, le
sanzioni potranno essere applicate dall’età di
dieci anni, i tredicenni rischiano la detenzione
provvisoria, i quasi diciottenni avranno meno riduzioni di pena e
i poliziotti saranno più protetti.
Lunedì Sarko tornerà alla carica sull’immigrazione,
il grande tema della sua campagna
presidenziale, perché le categorie protette
dagli alibi del politically correct
– predicatori d’odio, clandestini, “feccia” delle banlieue
– non sono risparmiate dalla “rottura”.
Ufficializzando la candidatura, Sarko ha avuto il coraggio
di definirsi “liberale” e la maggioranza dei francesi lo ritiene il più
credibile per una politica economica efficace.
Ma, nella Francia della conservazione, Sarko ha il difetto elettorale
della risolutezza e della verità.
Thursday, November 23, 2006
Bestseller in Germania
“A Salem abbiamo provato fin
quasi alla fine degli anni Ottanta a mantenere
il controllo sul consumo di droghe, alcool
e sigarette, attraverso lunghe discussioni
con i ragazzi. Abbiamo fallito. Così, quando
sono stati messi a punto procedimenti
chimici che permettevano di risalire a un
eventuale consumo di droga, in particolare
hashish, ci siamo decisi a introdurre l’esame
dell’urina. Da allora tutte le mattine uno studente,
estratto a sorte, deve sottoporsi al test.
Se l’analisi risulta positiva, il ragazzo viene
espulso seduta stante. Già all’atto dell’iscrizione
genitori e ragazzi devono firmare
un documento nel quale si dichiarano d’accordo
con questa procedura”. Salem non è
un collegio per ragazzi difficili. Salem è uno
degli istituti più rinomati ed esclusivi della
Germania, dove, per intenderci, si mandano
a studiare i rampolli delle famiglie bene,
quelle in teoria più propense a una scuola
di tipo steineriano che favorisce lo sviluppo
libero e incondizionato e soprattutto un’educazione
priva di imposizioni. Invece, pare
prevalere l’atteggiamento opposto.
Il libro dal quale è tratta la citazione si intitola
“Lob der Disziplin - Eine Streitschrift”
(Lode alla disciplina - Un saggio provocatorio”,
ed. List) e svetta da diverse settimane
al terzo posto dei bestseller dello Spiegel.
L’autore è Bernhard Bueb, un signore attempato
che dal 1974 al 2005 ha diretto Salem.
Forse non c’era nemmeno bisogno di
aggiungere la parola “Streitschrift”. Sin dalla
prima pagina, dove si legge “dell’educazione
sono andate perse da tempo le fondamenta:
il riconoscimento incondizionato dell’autorità
e della disciplina”, il libro prometteva
un dibattito al calor bianco. E visti
i fiumi di parole pro e contro scritti in proposito,
lo stesso Economist l’ha citato in un
pezzo sulla rinascita di un “sentimento neoconservatore”
in Germania.
“Guidare o lasciar crescere, questi sono i
due poli antitetici dell’educazione – ragiona
l’autore – Dopo l’esperienza di un’educazione
autoritaria sfociata in una dittatura, abbiamo
voluto diventare una nazione di giardinieri.
Lasciamo crescere liberamente i nostri
figli e solo di tanto in tanto interveniamo
con estrema cautela. Ma questo metodo rischia
di non educare affatto. L’esempio giusto
è invece quello del vasaio che modella e
dà forme precise”. All’origine di questa
mancanza di coraggio a educare, questo il titolo
di uno dei capitoli, la generazione del
Sessantotto che ha gettato alle ortiche lo
Struwwelpeter (Pierino Porcospino) e regalato
ai figli “Pippi Calzelunghe”. Sbagliato,
sbagliatissimo, sentenzia ora Bueb. “E’ vero
la disciplina rappresenta tutto quello che le
persone detestano: costrizione, subordinazione,
rinuncia. La disciplina è il figlio sgradito
della pedagogia, ma alla base di ogni
educazione”. Perché solo attraverso la disciplina,
di questo Bueb è convinto, si raggiunge
una vera libertà interiore. I genitori,
gli insegnanti hanno potere e lo devono
esercitare, affiancandolo, ben inteso, all’amore
perché il potere si trasformi in autorità
legittima. Quello a cui si assiste oggi è
invece un paradosso: “Abbiamo democratizzato
la vita dei bambini e dei ragazzi più di
quella degli adulti, i quali al lavoro sono tenuti
a sottomettersi al superiore”. Secondo
Bueb non c’è bisogno di un patentino che attesti
l’idoneità a fare i genitori o eserciti di
supertate professioniste, ma semplicemente
di ridare peso alle virtù secondarie: ubbidienza,
puntualità, ordine “di per sé non sono
valori, ma aiutano a raggiungere le vere
virtù, e cioè giustizia, libertà e onestà”. Ai tedeschi,
stando alle copie vendute, la ricetta
pare piacere.
quasi alla fine degli anni Ottanta a mantenere
il controllo sul consumo di droghe, alcool
e sigarette, attraverso lunghe discussioni
con i ragazzi. Abbiamo fallito. Così, quando
sono stati messi a punto procedimenti
chimici che permettevano di risalire a un
eventuale consumo di droga, in particolare
hashish, ci siamo decisi a introdurre l’esame
dell’urina. Da allora tutte le mattine uno studente,
estratto a sorte, deve sottoporsi al test.
Se l’analisi risulta positiva, il ragazzo viene
espulso seduta stante. Già all’atto dell’iscrizione
genitori e ragazzi devono firmare
un documento nel quale si dichiarano d’accordo
con questa procedura”. Salem non è
un collegio per ragazzi difficili. Salem è uno
degli istituti più rinomati ed esclusivi della
Germania, dove, per intenderci, si mandano
a studiare i rampolli delle famiglie bene,
quelle in teoria più propense a una scuola
di tipo steineriano che favorisce lo sviluppo
libero e incondizionato e soprattutto un’educazione
priva di imposizioni. Invece, pare
prevalere l’atteggiamento opposto.
Il libro dal quale è tratta la citazione si intitola
“Lob der Disziplin - Eine Streitschrift”
(Lode alla disciplina - Un saggio provocatorio”,
ed. List) e svetta da diverse settimane
al terzo posto dei bestseller dello Spiegel.
L’autore è Bernhard Bueb, un signore attempato
che dal 1974 al 2005 ha diretto Salem.
Forse non c’era nemmeno bisogno di
aggiungere la parola “Streitschrift”. Sin dalla
prima pagina, dove si legge “dell’educazione
sono andate perse da tempo le fondamenta:
il riconoscimento incondizionato dell’autorità
e della disciplina”, il libro prometteva
un dibattito al calor bianco. E visti
i fiumi di parole pro e contro scritti in proposito,
lo stesso Economist l’ha citato in un
pezzo sulla rinascita di un “sentimento neoconservatore”
in Germania.
“Guidare o lasciar crescere, questi sono i
due poli antitetici dell’educazione – ragiona
l’autore – Dopo l’esperienza di un’educazione
autoritaria sfociata in una dittatura, abbiamo
voluto diventare una nazione di giardinieri.
Lasciamo crescere liberamente i nostri
figli e solo di tanto in tanto interveniamo
con estrema cautela. Ma questo metodo rischia
di non educare affatto. L’esempio giusto
è invece quello del vasaio che modella e
dà forme precise”. All’origine di questa
mancanza di coraggio a educare, questo il titolo
di uno dei capitoli, la generazione del
Sessantotto che ha gettato alle ortiche lo
Struwwelpeter (Pierino Porcospino) e regalato
ai figli “Pippi Calzelunghe”. Sbagliato,
sbagliatissimo, sentenzia ora Bueb. “E’ vero
la disciplina rappresenta tutto quello che le
persone detestano: costrizione, subordinazione,
rinuncia. La disciplina è il figlio sgradito
della pedagogia, ma alla base di ogni
educazione”. Perché solo attraverso la disciplina,
di questo Bueb è convinto, si raggiunge
una vera libertà interiore. I genitori,
gli insegnanti hanno potere e lo devono
esercitare, affiancandolo, ben inteso, all’amore
perché il potere si trasformi in autorità
legittima. Quello a cui si assiste oggi è
invece un paradosso: “Abbiamo democratizzato
la vita dei bambini e dei ragazzi più di
quella degli adulti, i quali al lavoro sono tenuti
a sottomettersi al superiore”. Secondo
Bueb non c’è bisogno di un patentino che attesti
l’idoneità a fare i genitori o eserciti di
supertate professioniste, ma semplicemente
di ridare peso alle virtù secondarie: ubbidienza,
puntualità, ordine “di per sé non sono
valori, ma aiutano a raggiungere le vere
virtù, e cioè giustizia, libertà e onestà”. Ai tedeschi,
stando alle copie vendute, la ricetta
pare piacere.
Sunday, November 12, 2006
Un punto di vista interessante
Dal Manifesto dell'11 novembre:
Nel dibattito sulla situazione economica italiana Michele Salvati (Corriere della Sera, 25 settembre) ha formulato un'obiezione, seria, alle posizioni della sinistra radicale, cui si deve dare risposta. Né la finanza pubblica né il Patto di stabilità sono il vero problema, lo sono la competitività che si deteriora e la produttività decrescente. La contrazione fiscale non ci è perciò imposta dall'esterno. Va assunta di buon grado per imporre, non il risanamento finanziario in sé e per sé, ma la bonifica della struttura economica reale del paese e uno snellimento del settore pubblico in nome dell'efficienza. Da questo punto di vista, limitarsi a richiedere una Finanziaria meno restrittiva e lasciare nel vago in cosa consisterebbero una diversa politica industriale e una diversa politica di sviluppo renderebbe poco credibile la sinistra radicale. Un mese dopo Martin Wolf sul Financial Times (25 ottobre) formula una diagnosi complementare, in larga misura condivisibile. Non è il costo del lavoro il problema, ma appunto la bassa produttività. La più bassa inflazione consente alla Germania una deflazione competitiva che perpetua il modello neomercantilista che ci vede perdenti. In termini reali le esportazioni italiane di beni e servizi ristagnano dal 2000, e il disavanzo con l'estero si incancrenisce. La bassa capacità di esportazione si accompagna a un livello ridotto di partecipazione al mercato del lavoro, come a un profilo di specializzazione internazionale dell'Italia medio-basso in termini di tecnologia, vulnerabile alla concorrenza dei paesi asiatici. Wolf segnala pure da tempo il rischio a medio termine di un aumento dei tassi di interesse a lunga per le possibili tensioni future, soprattutto tra Usa e Cina, sul finanziamento del doppio disavanzo americano. I tassi europei, e con loro lo spread tra quelli italiani e altri paesi europei, salirebbero: qualcosa che impone cautela sui conti pubblici.
La cura di Wolf è singolare ma intelligente, al di là delle apparenze. Non solo tagli di spesa, ma spingere a lavorare di più gli italiani ovunque, aumentando così il Pil; licenziamenti e innovazioni di prodotto per alzare la produttività nei settori per l'esportazione. Wolf non trascura il problema della domanda effettiva. La risposta è omogenea al modello anglosassone cui si sta adeguando, a suo modo, l'Europa continentale: spingere le famiglie a indebitarsi in modo comparabile con i paesi europei e il resto del mondo - dal 1995 a oggi le famiglie italiane hanno già quasi raddoppiato il loro indebitamento. La logica è trasparente. Mantenere il lavoratore «spaventato», comprimendo il salario e frammentando il lavoro. Tramite il continuo allarmismo sulle pensioni (il risparmiatore «terrorizzato») risucchiare nei fondi pensione il Tfr, e costringere a un maggiore e più lungo tempo di lavoro sociale. Sostenere infine la realizzazione monetaria del profitto dal lato del consumatore «indebitato», che il lavoro deve accettarlo così com'è. Sono argomenti seri e processi pericolosi, del tutto in linea con la via «alta» alla produttività del «nuovo» capitalismo e la sua politica monetaria di complemento, ammorbiditi magari con sussidi al reddito. Vorremmo suggerire un inizio di risposta che non si fermi al pur necessario contro-argomento macroeconomico, ma consideri anche le dinamiche strutturali, e dia qualche esempio di politica industriale come parte di una risposta alternativa di politica economica.
Siamo in presenza di una inaudita centralizzazione del capitale, mediata da una finanziarizzazione esasperata. Non vi si accompagna una crescente concentrazione in unità produttive più grandi di masse di lavoratori omogenei: semmai una riduzione dell'unità tecnica di produzione e una destrutturazione del lavoro. L'accresciuta concorrenza «globale» innesca ovunque una trasformazione generale. Anche l'Italia vive una situazione di crisi, ristrutturazione e riposizionamento dell'industria italiana, con perdenti e vincenti: ma anche i vincenti sono in posizione subordinata nella filiera produttiva integrata. L'azienda «focale» della filiera concentra l'essenziale del know-how e del controllo strategico del processo, e scarica gli oneri delle restanti parti del processo produttivo su altre aziende. Il mercato del lavoro si segmenta di conseguenza quanto a tutele, salari, formazione, e così via. A un certo punto scatta una soluzione di continuità tra insider e outsider, in una generale incertezza che colpisce tutti. Per questo anche, in Europa, il contratto nazionale è sotto attacco. Processi analoghi investono tutte le attività economiche e il settore pubblico.
Se la precarizzazione del lavoro non è medicina universale, anzi le imprese più significative vi fanno modesto ricorso, è però componente importante di tutti i cicli produttivi. Dal punto di vista macrosociale, avanzamento tecnologico e precarizzazione del lavoro (nativo e migrante) sono facce della stessa medaglia.
All'Italia, in particolare, manca un centro strategico e egemonico. In nessun settore, vecchio o nuovo, ha una leadership europea. Non solo per il prevalere di aziende piccole e piccolissime, ma anche per l'assenza di grandi aziende nazionali fortemente internazionalizzate. La grande industria, le concentrazioni bancarie, le strutture chiave della distribuzione commerciale, alcune grandi aziende fornitrici di servizi di pubblica utilità vengono ridimensionate e acquisite da grandi gruppi globali. La parte più avanzata del Nord e del Centro sta diventando risorsa manifatturiera specializzata di servizio per grandi imprese tedesche e francesi. Ovunque gli interessi si sfarinano e le coalizioni sociali si frammentano, con derive regressive.
Una via di uscita passa per una nuova politica industriale, che riequilibri le esportazioni di prodotti tradizionali, e dia vita a un'innovazione profonda della gamma di prodotti. Ma, contro Wolf e Salvati, ciò richiede: 1. un grande impegno finanziario di chi solo lo può garantire come stabile e credibile, lo Stato; 2. un impulso massiccio, deciso e concentrato nel tempo, come richiede ogni intervento che voglia cambiare una traiettoria iscritta nel passato; 3. l'accortezza di sfruttare ora quella finestra di stabilità dei tassi di interesse che non è garantita a medio termine, per l'incerto quadro globale; 4. di individuare le grandi domande inevase della società italiana e europea, qualcosa che solo la politica e la società possono individuare con un'ottica di lungo termine; 5. di definire risposte adeguate che il mercato da solo non è in grado di vedere, per la sua costitutiva miopia; 6. di partire dai punti dove massima e virtuosa può essere l'interconnessione tra questioni economiche, ecologiche, sociali.
Ci limiteremo a un cenno solo sulla questione emblematica della mobilità sostenibile: dai nuovi motori, alla gestione via Ict del traffico nei grandi centri metropolitani, sino alla costruzione di nuovi mezzi di mobilità urbana. Riorientare una parte della capacità produttiva esistente e non utilizzata verso la risoluzione di questo problema è una politica industriale che richiede forte integrazione tra politiche pubbliche nazionali e a scala europea, come anche l'iniziativa privata delle imprese. Ma ragionamenti analoghi si possono sviluppare per l'energia, per l'acqua, per l'istruzione, etc.: cioè per una serie di beni/servizi di natura pubblica o semipubblica che possono diventare il quadro di riferimento di una nuova classe di prodotti/servizi. In questa logica, il lavoro non può costitutivamente essere precario e mal pagato.
Il nostro è un suggerimento, ribadiamo, iniziale, va certamente affinato. E' però, ne siamo convinti, solo prendendo questa strada, e mettendo in campo una nuova capacità di conflitto sociale autonomo, che la sinistra radicale potrà evitare di limitarsi a mettere le note a fondo pagina di politiche social-liberiste.
Nel dibattito sulla situazione economica italiana Michele Salvati (Corriere della Sera, 25 settembre) ha formulato un'obiezione, seria, alle posizioni della sinistra radicale, cui si deve dare risposta. Né la finanza pubblica né il Patto di stabilità sono il vero problema, lo sono la competitività che si deteriora e la produttività decrescente. La contrazione fiscale non ci è perciò imposta dall'esterno. Va assunta di buon grado per imporre, non il risanamento finanziario in sé e per sé, ma la bonifica della struttura economica reale del paese e uno snellimento del settore pubblico in nome dell'efficienza. Da questo punto di vista, limitarsi a richiedere una Finanziaria meno restrittiva e lasciare nel vago in cosa consisterebbero una diversa politica industriale e una diversa politica di sviluppo renderebbe poco credibile la sinistra radicale. Un mese dopo Martin Wolf sul Financial Times (25 ottobre) formula una diagnosi complementare, in larga misura condivisibile. Non è il costo del lavoro il problema, ma appunto la bassa produttività. La più bassa inflazione consente alla Germania una deflazione competitiva che perpetua il modello neomercantilista che ci vede perdenti. In termini reali le esportazioni italiane di beni e servizi ristagnano dal 2000, e il disavanzo con l'estero si incancrenisce. La bassa capacità di esportazione si accompagna a un livello ridotto di partecipazione al mercato del lavoro, come a un profilo di specializzazione internazionale dell'Italia medio-basso in termini di tecnologia, vulnerabile alla concorrenza dei paesi asiatici. Wolf segnala pure da tempo il rischio a medio termine di un aumento dei tassi di interesse a lunga per le possibili tensioni future, soprattutto tra Usa e Cina, sul finanziamento del doppio disavanzo americano. I tassi europei, e con loro lo spread tra quelli italiani e altri paesi europei, salirebbero: qualcosa che impone cautela sui conti pubblici.
La cura di Wolf è singolare ma intelligente, al di là delle apparenze. Non solo tagli di spesa, ma spingere a lavorare di più gli italiani ovunque, aumentando così il Pil; licenziamenti e innovazioni di prodotto per alzare la produttività nei settori per l'esportazione. Wolf non trascura il problema della domanda effettiva. La risposta è omogenea al modello anglosassone cui si sta adeguando, a suo modo, l'Europa continentale: spingere le famiglie a indebitarsi in modo comparabile con i paesi europei e il resto del mondo - dal 1995 a oggi le famiglie italiane hanno già quasi raddoppiato il loro indebitamento. La logica è trasparente. Mantenere il lavoratore «spaventato», comprimendo il salario e frammentando il lavoro. Tramite il continuo allarmismo sulle pensioni (il risparmiatore «terrorizzato») risucchiare nei fondi pensione il Tfr, e costringere a un maggiore e più lungo tempo di lavoro sociale. Sostenere infine la realizzazione monetaria del profitto dal lato del consumatore «indebitato», che il lavoro deve accettarlo così com'è. Sono argomenti seri e processi pericolosi, del tutto in linea con la via «alta» alla produttività del «nuovo» capitalismo e la sua politica monetaria di complemento, ammorbiditi magari con sussidi al reddito. Vorremmo suggerire un inizio di risposta che non si fermi al pur necessario contro-argomento macroeconomico, ma consideri anche le dinamiche strutturali, e dia qualche esempio di politica industriale come parte di una risposta alternativa di politica economica.
Siamo in presenza di una inaudita centralizzazione del capitale, mediata da una finanziarizzazione esasperata. Non vi si accompagna una crescente concentrazione in unità produttive più grandi di masse di lavoratori omogenei: semmai una riduzione dell'unità tecnica di produzione e una destrutturazione del lavoro. L'accresciuta concorrenza «globale» innesca ovunque una trasformazione generale. Anche l'Italia vive una situazione di crisi, ristrutturazione e riposizionamento dell'industria italiana, con perdenti e vincenti: ma anche i vincenti sono in posizione subordinata nella filiera produttiva integrata. L'azienda «focale» della filiera concentra l'essenziale del know-how e del controllo strategico del processo, e scarica gli oneri delle restanti parti del processo produttivo su altre aziende. Il mercato del lavoro si segmenta di conseguenza quanto a tutele, salari, formazione, e così via. A un certo punto scatta una soluzione di continuità tra insider e outsider, in una generale incertezza che colpisce tutti. Per questo anche, in Europa, il contratto nazionale è sotto attacco. Processi analoghi investono tutte le attività economiche e il settore pubblico.
Se la precarizzazione del lavoro non è medicina universale, anzi le imprese più significative vi fanno modesto ricorso, è però componente importante di tutti i cicli produttivi. Dal punto di vista macrosociale, avanzamento tecnologico e precarizzazione del lavoro (nativo e migrante) sono facce della stessa medaglia.
All'Italia, in particolare, manca un centro strategico e egemonico. In nessun settore, vecchio o nuovo, ha una leadership europea. Non solo per il prevalere di aziende piccole e piccolissime, ma anche per l'assenza di grandi aziende nazionali fortemente internazionalizzate. La grande industria, le concentrazioni bancarie, le strutture chiave della distribuzione commerciale, alcune grandi aziende fornitrici di servizi di pubblica utilità vengono ridimensionate e acquisite da grandi gruppi globali. La parte più avanzata del Nord e del Centro sta diventando risorsa manifatturiera specializzata di servizio per grandi imprese tedesche e francesi. Ovunque gli interessi si sfarinano e le coalizioni sociali si frammentano, con derive regressive.
Una via di uscita passa per una nuova politica industriale, che riequilibri le esportazioni di prodotti tradizionali, e dia vita a un'innovazione profonda della gamma di prodotti. Ma, contro Wolf e Salvati, ciò richiede: 1. un grande impegno finanziario di chi solo lo può garantire come stabile e credibile, lo Stato; 2. un impulso massiccio, deciso e concentrato nel tempo, come richiede ogni intervento che voglia cambiare una traiettoria iscritta nel passato; 3. l'accortezza di sfruttare ora quella finestra di stabilità dei tassi di interesse che non è garantita a medio termine, per l'incerto quadro globale; 4. di individuare le grandi domande inevase della società italiana e europea, qualcosa che solo la politica e la società possono individuare con un'ottica di lungo termine; 5. di definire risposte adeguate che il mercato da solo non è in grado di vedere, per la sua costitutiva miopia; 6. di partire dai punti dove massima e virtuosa può essere l'interconnessione tra questioni economiche, ecologiche, sociali.
Ci limiteremo a un cenno solo sulla questione emblematica della mobilità sostenibile: dai nuovi motori, alla gestione via Ict del traffico nei grandi centri metropolitani, sino alla costruzione di nuovi mezzi di mobilità urbana. Riorientare una parte della capacità produttiva esistente e non utilizzata verso la risoluzione di questo problema è una politica industriale che richiede forte integrazione tra politiche pubbliche nazionali e a scala europea, come anche l'iniziativa privata delle imprese. Ma ragionamenti analoghi si possono sviluppare per l'energia, per l'acqua, per l'istruzione, etc.: cioè per una serie di beni/servizi di natura pubblica o semipubblica che possono diventare il quadro di riferimento di una nuova classe di prodotti/servizi. In questa logica, il lavoro non può costitutivamente essere precario e mal pagato.
Il nostro è un suggerimento, ribadiamo, iniziale, va certamente affinato. E' però, ne siamo convinti, solo prendendo questa strada, e mettendo in campo una nuova capacità di conflitto sociale autonomo, che la sinistra radicale potrà evitare di limitarsi a mettere le note a fondo pagina di politiche social-liberiste.
Friday, November 03, 2006
E questi non sono come e peggio degli evasori fiscali, che almeno lavorano?
Una maestra guadagna all'incirca 1.200 euro al mese. Come un operaio metalmeccanico, che però arriva a questa cifra solo con gli straordinari alla catena di montaggio. La differenza tra i due è che la prima, in un anno lavora, all'incirca 1.200 ore, in fabbrica per portare a casa lo stesso stipendio invece ne servono anche 500-600 in più. Dipende dai settori. Nel pubblico impiego le 36 ore alla settimana sono uno standard fisso da anni, nell'industria invece se ne lavorano 2-3 in più. Ecco la prima grande differenza. Le ferie? Almeno queste sono uguali per tutti, 24 giorni. Ma i maligni possono sempre dire: «Tanto quelli anche quando stanno al lavoro non fanno nulla!».
Il solco vero, tra pubblico e privato, comunque è rappresentato dagli orari e, negli ultimi tempi, anche dai differenti trattamenti salariali. La produttività invece rimane un capitolo oscuro: finora nessuno è riuscito (o ha voluto) misurarla. Ma andiamo per ordine. Stando agli orari contrattuali nell'industria si lavorano in media 1.736 ore l'anno, con differenze impercettibili da un settore all'altro. Nell'ambito pubblico, invece, è una vera cuccagna: la media del comparto «Stato» a fine 2000 era infatti pari a 1.361 ore, coi ministeriali ed i dipendenti delle Regioni che ne lavoravano 1.588, la Sanità 1.609, l'università 1.283, mentre la scuola crolla a 1.170.
E gli stipendi? Dall'accordo del 1993 salari pubblici e privati sono rigidamente ancorati al costo della vita, ma molti dati dicono il contrario. Le ultime cifre diffuse dall'Istat, ad esempio, segnalano che ad agosto 2006, a fronte di un'inflazione pari al 2,2%, i salari dei lavoratori italiani sono saliti del 2,9%. Ma mentre industria (+3%), chimica (+3,3%) ed edilizia (+2,8%) sono stati più o meno nella media, la pubblica amministrazione ha messo a segno un +5%, addirittura +5,5% i ministeri, +6% le Regioni e +5,9% la sanità. Solo militari (+,9%) e Forze dell'ordine (+1,2) hanno dovuto tirare la cinghia. Nel 1995 un lavoratore del settore privato costava in media 25.500 euro l’anno (25.460 euro nell’industria e 25.540 nei servizi) e in 10 anni è arrivato a quota 33-34.400, con aumenti rispettivamente nell’ordine del 29,9 e del 34,7%. I dipendenti pubblici sono invece partiti da 26.940 euro ed in 10 anni hanno raggiunto quota 40.620. Con un balzo del 50,78%. Secondo un studio pubblicato sul sito «la voce.info», se a questi dipendenti fossero stati applicati gli aumenti concessi ai colleghi dell'industria e de servizi non sarebbero andati oltre i 34-34.600 euro. E soprattutto in 10 anni lo Stato avrebbe risparmiato tra i 129 ed i 144 miliardi di euro.
Qualcosa come il 9-10% del Prodotto interno lordo, oppure tre manovre-monstre come quella di quest'anno. «Attenzione a non generalizzare troppo - avverte Paolo Nerozzi della segreteria nazionale della Cgil -. I numeri vanno guardati con attenzione, non si può prendere un anno a caso, ma occorre considerare i trienni contrattuali altrimenti è tutto falsato». E tanta disparità coi privati come si spiega? Secondo i sindacati innanzitutto con salari di partenza più bassi. E poi sarà anche vero che i pubblici lavorano meno ore, ma ad esempio il loro Tfr in valore assoluto è pari alla metà di quello privato. Al di là della demagogia, il tiro sui lavoratori pubblici resta un gioco facile. Non a caso negli ultimi tempi ha riscosso un grande successo la campagna «per cacciare i fannulloni» lanciata dalle colonne del «Corriere» da Pietro Ichino, grande esperto di diritto del lavoro. Cgil, Cisl e Uil hanno subito gridato al linciaggio, ma alla fine anche il presidente del Consiglio Romano Prodi ha dovuto ammettere che «non possiamo permetterci di avere degli intoccabili». Il problema, in effetti, esiste: come dice Ichino nella giurisprudenza degli ultimi 10 anni non c'è un solo caso di dipendente pubblico licenziato. Impossibile farlo? No, lo prevede esplicitamente una legge che risale addirittura al 1957, ma certamente è molto complicato. Nemmeno se vieni sorpreso a rubare vieni cacciato, e poi mancano criteri precisi (e anche la volontà politica) per valutare la qualità del lavoro svolto. Nel settore privato la produttività di un lavoratore alla fine si può desumere dal prezzo dei beni o dei servizi che concorre a produrre o a fornire.
Nel settore pubblico lo stesso procedimento non può funzionare, perché beni e servizi non sono destinati alla vendita. Che parametri oggettivi si possono applicare, ad esempio, per valutare la produttività di un professore universitario oppure di un usciere? Altro tormentone ricorrente: i dipendenti pubblici non solo non fanno nulla ma sono troppi. Qui, le statistiche, danno ragione a chi difende i travet: rispetto alla popolazione ed al Pil molti paesi in Europa hanno valori più alti dei nostri. La Francia, ad esempio, su 58 milioni di abitanti ha ben 5,4 milioni di dipendenti pubblici (pari al 9,3% della popolazione) e per loro spende il 14,6% del Pil. Noi ci fermiamo a 3,4 milioni, ovvero il 6% della popolazione con un costo pari all'11% del prodotto interno lordo. Semmai sono distribuiti male: dalla riforma Bassanini ad oggi sono stati infatti appena 22 mila quelli che hanno accettato di cambiare posto di lavoro e a volte anche città. Una goccia in un mare, un mare di sprechi e di inefficienze.
Il solco vero, tra pubblico e privato, comunque è rappresentato dagli orari e, negli ultimi tempi, anche dai differenti trattamenti salariali. La produttività invece rimane un capitolo oscuro: finora nessuno è riuscito (o ha voluto) misurarla. Ma andiamo per ordine. Stando agli orari contrattuali nell'industria si lavorano in media 1.736 ore l'anno, con differenze impercettibili da un settore all'altro. Nell'ambito pubblico, invece, è una vera cuccagna: la media del comparto «Stato» a fine 2000 era infatti pari a 1.361 ore, coi ministeriali ed i dipendenti delle Regioni che ne lavoravano 1.588, la Sanità 1.609, l'università 1.283, mentre la scuola crolla a 1.170.
E gli stipendi? Dall'accordo del 1993 salari pubblici e privati sono rigidamente ancorati al costo della vita, ma molti dati dicono il contrario. Le ultime cifre diffuse dall'Istat, ad esempio, segnalano che ad agosto 2006, a fronte di un'inflazione pari al 2,2%, i salari dei lavoratori italiani sono saliti del 2,9%. Ma mentre industria (+3%), chimica (+3,3%) ed edilizia (+2,8%) sono stati più o meno nella media, la pubblica amministrazione ha messo a segno un +5%, addirittura +5,5% i ministeri, +6% le Regioni e +5,9% la sanità. Solo militari (+,9%) e Forze dell'ordine (+1,2) hanno dovuto tirare la cinghia. Nel 1995 un lavoratore del settore privato costava in media 25.500 euro l’anno (25.460 euro nell’industria e 25.540 nei servizi) e in 10 anni è arrivato a quota 33-34.400, con aumenti rispettivamente nell’ordine del 29,9 e del 34,7%. I dipendenti pubblici sono invece partiti da 26.940 euro ed in 10 anni hanno raggiunto quota 40.620. Con un balzo del 50,78%. Secondo un studio pubblicato sul sito «la voce.info», se a questi dipendenti fossero stati applicati gli aumenti concessi ai colleghi dell'industria e de servizi non sarebbero andati oltre i 34-34.600 euro. E soprattutto in 10 anni lo Stato avrebbe risparmiato tra i 129 ed i 144 miliardi di euro.
Qualcosa come il 9-10% del Prodotto interno lordo, oppure tre manovre-monstre come quella di quest'anno. «Attenzione a non generalizzare troppo - avverte Paolo Nerozzi della segreteria nazionale della Cgil -. I numeri vanno guardati con attenzione, non si può prendere un anno a caso, ma occorre considerare i trienni contrattuali altrimenti è tutto falsato». E tanta disparità coi privati come si spiega? Secondo i sindacati innanzitutto con salari di partenza più bassi. E poi sarà anche vero che i pubblici lavorano meno ore, ma ad esempio il loro Tfr in valore assoluto è pari alla metà di quello privato. Al di là della demagogia, il tiro sui lavoratori pubblici resta un gioco facile. Non a caso negli ultimi tempi ha riscosso un grande successo la campagna «per cacciare i fannulloni» lanciata dalle colonne del «Corriere» da Pietro Ichino, grande esperto di diritto del lavoro. Cgil, Cisl e Uil hanno subito gridato al linciaggio, ma alla fine anche il presidente del Consiglio Romano Prodi ha dovuto ammettere che «non possiamo permetterci di avere degli intoccabili». Il problema, in effetti, esiste: come dice Ichino nella giurisprudenza degli ultimi 10 anni non c'è un solo caso di dipendente pubblico licenziato. Impossibile farlo? No, lo prevede esplicitamente una legge che risale addirittura al 1957, ma certamente è molto complicato. Nemmeno se vieni sorpreso a rubare vieni cacciato, e poi mancano criteri precisi (e anche la volontà politica) per valutare la qualità del lavoro svolto. Nel settore privato la produttività di un lavoratore alla fine si può desumere dal prezzo dei beni o dei servizi che concorre a produrre o a fornire.
Nel settore pubblico lo stesso procedimento non può funzionare, perché beni e servizi non sono destinati alla vendita. Che parametri oggettivi si possono applicare, ad esempio, per valutare la produttività di un professore universitario oppure di un usciere? Altro tormentone ricorrente: i dipendenti pubblici non solo non fanno nulla ma sono troppi. Qui, le statistiche, danno ragione a chi difende i travet: rispetto alla popolazione ed al Pil molti paesi in Europa hanno valori più alti dei nostri. La Francia, ad esempio, su 58 milioni di abitanti ha ben 5,4 milioni di dipendenti pubblici (pari al 9,3% della popolazione) e per loro spende il 14,6% del Pil. Noi ci fermiamo a 3,4 milioni, ovvero il 6% della popolazione con un costo pari all'11% del prodotto interno lordo. Semmai sono distribuiti male: dalla riforma Bassanini ad oggi sono stati infatti appena 22 mila quelli che hanno accettato di cambiare posto di lavoro e a volte anche città. Una goccia in un mare, un mare di sprechi e di inefficienze.
Tuesday, October 24, 2006
De Viagra
Guido Ceronetti per “La Stampa”
Dare Viagra e prodotti affini gratuitamente? Un NO di ripulsa totale, di raccapriccio.
Dovrebbe essere, per il prezzo, quasi inaccessibile. La farmacologia tecnologica è una volontà di potenza illimitata, e il desiderio erotico desacralizzato e reso artificiale come una rosa di plastica messa a svernare su un loculo, perde perfino il suo nome. Viagra umilia l’uomo e lo inganna con una fiamma bugiarda, umilia la donna con un segno di virilità che non è risvegliato dal proprio corpo e dalle proprie carezze ma da un telecomando azionato da una ricetta medica rilasciata benevolmente.
A batallas de amor campo de pluma (massima celebre gongorìna): il letto è un luogo di combattimenti tremendi ed estremi: lottiamo col sonno, coi sogni, con l’amore saziato e frustrato, col dolore e la morte, in ogni ora passata a letto - perché la notte non è mai tenera, e la danza macabra gira attorno ai letti al ritmo delle strofette miracolose di un Dies irae senza fine. Tutto l’uomo è impegnato a letto. Di rado lo visita la felicità in quel luogo: quando succede, nell’amore, il Divino è stato toccato e si ridiscende, alle pianure del bisogno e della noia.
Viagra è facile, Eros difficile. Se gli impotenti celebri - James, Stendhal, Amiel, Pavese, Baudelaire - non avessero sofferto tanto per l’esito orgasmico negato, l’ombra del farmaco virilizzatore ne avrebbe coperto la luminosità dell’opera. Fin dalla preistoria l’animale superintelligente è andato in cerca della sostanza che lo guarisse dalla morte e di quella afrodisiaca. I manuali di alimentazione afrodisiaca si vendono anche più dei periodici e dei fumetti arci stuzzicanti.
-Un bicchierino di marsala all’uovo con dentro un testicolo di toro (o di cammello) e fili nel tunnel meraviglioso come una locomotrice del San Gottardo!- Abbiamo a disposizione un arsenale plurimillenario di fili, foglie e membra della natura vivente addomesticata: allora perché il farmaco chimico, portatore di non pochi effetti indesiderati, in specie nelle malcaute vecchiaie? Perché il farmaco chimico, approvato dai topi e dall’onnipotenza multinazionale, ha l’aureola di scientifico, ha l’ipnosi della prescrizione medica, ha l’alone dell’infallibilità e della certezza, assicurando una povera, meccanica, prevedibile Buona Figura. Da tempo la psiche del volgo è stata modificata in profondità, dall’apparato mercantile e del profitto, affinché il suo principale stimolo a un consumo permanente (salvo ritiri precipitosi) fosse nella notte dell’esistenza questa stella di vittoria, rimasta quasi l’unica: scientifico, dunque buono.
Non è così. Buono è quel che è buono, sia o non scientifico. E scientifico è spesso una cosa e l’altra: buono e cattivo, ipotetico e correggibile sempre, sbagliato e giusto. La scoperta di Fleming fu un momento di bontà senza ombre: sessant’anni dopo, l’abuso di antibiotici è un contagio preoccupante e una quantità di battéri, dopo le prime sconfitte, li sfidano. La pillola contraccettiva è stata, è tuttora, il grande regista della liberazione femminile, è una residua speranza di freno demografico in un pianetuccio abitato dove il dotto utente di spermatozoo brucia sempre più acqua, e priva la terra di sostegno vitale (la bellezza si è rifugiata in interiore hominis) però la pillola liberatrice dalle insolenti gravidanze patriarcali non è innocua come una mentina, perché rinviare, richiamare, sconvolgere per anni il ciclo imprime tracciati morbigeni e «se si tocca il corpo tutto è perduto» mugugnava il grande biologo Jean Rostand.
Adesso l’Imperatrice Nuda pretende di regolare con l'eccitazione chimica anche la sessualità femminile di penuria e perfino quella ridotta al silenzio dagli anni: ti figuri una coppia in cui entrambi, incapaci di amarsi, aspettano che una capsula prescritta dal medico, addirittura rimborsabile per beneficenza di Stato, li obblighi a desiderare una fricarella sgradita o dimenticata? E l’effetto priapistico, da erezione incongrua, nell’uomo prostatico, sai che delizia, che funesto riascolto delle musiche di Dioniso dileguate!!
La vita dà e toglie. E perfino, feroce, toglie senza aver dato, e lascia, quando abbia dato, rimpianti che straziano e insieme illuminano. E anche per Viagra e la sua geopolitica d’invasione per disgregare meglio, stordendoli, attirandoli, esseri umani, vale la massima di Giobbe sulla polvere e sulla cenere che la Vulgata traduce Dominus dedit, Dominus abstulit. E’ da uomini veri rifiutare un soccorso facile, pericoloso e sospetto. La Scrittura dice anche, nel Cantico: «Il Desiderio è forte come la Morte». Verificare...
Dare Viagra e prodotti affini gratuitamente? Un NO di ripulsa totale, di raccapriccio.
Dovrebbe essere, per il prezzo, quasi inaccessibile. La farmacologia tecnologica è una volontà di potenza illimitata, e il desiderio erotico desacralizzato e reso artificiale come una rosa di plastica messa a svernare su un loculo, perde perfino il suo nome. Viagra umilia l’uomo e lo inganna con una fiamma bugiarda, umilia la donna con un segno di virilità che non è risvegliato dal proprio corpo e dalle proprie carezze ma da un telecomando azionato da una ricetta medica rilasciata benevolmente.
A batallas de amor campo de pluma (massima celebre gongorìna): il letto è un luogo di combattimenti tremendi ed estremi: lottiamo col sonno, coi sogni, con l’amore saziato e frustrato, col dolore e la morte, in ogni ora passata a letto - perché la notte non è mai tenera, e la danza macabra gira attorno ai letti al ritmo delle strofette miracolose di un Dies irae senza fine. Tutto l’uomo è impegnato a letto. Di rado lo visita la felicità in quel luogo: quando succede, nell’amore, il Divino è stato toccato e si ridiscende, alle pianure del bisogno e della noia.
Viagra è facile, Eros difficile. Se gli impotenti celebri - James, Stendhal, Amiel, Pavese, Baudelaire - non avessero sofferto tanto per l’esito orgasmico negato, l’ombra del farmaco virilizzatore ne avrebbe coperto la luminosità dell’opera. Fin dalla preistoria l’animale superintelligente è andato in cerca della sostanza che lo guarisse dalla morte e di quella afrodisiaca. I manuali di alimentazione afrodisiaca si vendono anche più dei periodici e dei fumetti arci stuzzicanti.
-Un bicchierino di marsala all’uovo con dentro un testicolo di toro (o di cammello) e fili nel tunnel meraviglioso come una locomotrice del San Gottardo!- Abbiamo a disposizione un arsenale plurimillenario di fili, foglie e membra della natura vivente addomesticata: allora perché il farmaco chimico, portatore di non pochi effetti indesiderati, in specie nelle malcaute vecchiaie? Perché il farmaco chimico, approvato dai topi e dall’onnipotenza multinazionale, ha l’aureola di scientifico, ha l’ipnosi della prescrizione medica, ha l’alone dell’infallibilità e della certezza, assicurando una povera, meccanica, prevedibile Buona Figura. Da tempo la psiche del volgo è stata modificata in profondità, dall’apparato mercantile e del profitto, affinché il suo principale stimolo a un consumo permanente (salvo ritiri precipitosi) fosse nella notte dell’esistenza questa stella di vittoria, rimasta quasi l’unica: scientifico, dunque buono.
Non è così. Buono è quel che è buono, sia o non scientifico. E scientifico è spesso una cosa e l’altra: buono e cattivo, ipotetico e correggibile sempre, sbagliato e giusto. La scoperta di Fleming fu un momento di bontà senza ombre: sessant’anni dopo, l’abuso di antibiotici è un contagio preoccupante e una quantità di battéri, dopo le prime sconfitte, li sfidano. La pillola contraccettiva è stata, è tuttora, il grande regista della liberazione femminile, è una residua speranza di freno demografico in un pianetuccio abitato dove il dotto utente di spermatozoo brucia sempre più acqua, e priva la terra di sostegno vitale (la bellezza si è rifugiata in interiore hominis) però la pillola liberatrice dalle insolenti gravidanze patriarcali non è innocua come una mentina, perché rinviare, richiamare, sconvolgere per anni il ciclo imprime tracciati morbigeni e «se si tocca il corpo tutto è perduto» mugugnava il grande biologo Jean Rostand.
Adesso l’Imperatrice Nuda pretende di regolare con l'eccitazione chimica anche la sessualità femminile di penuria e perfino quella ridotta al silenzio dagli anni: ti figuri una coppia in cui entrambi, incapaci di amarsi, aspettano che una capsula prescritta dal medico, addirittura rimborsabile per beneficenza di Stato, li obblighi a desiderare una fricarella sgradita o dimenticata? E l’effetto priapistico, da erezione incongrua, nell’uomo prostatico, sai che delizia, che funesto riascolto delle musiche di Dioniso dileguate!!
La vita dà e toglie. E perfino, feroce, toglie senza aver dato, e lascia, quando abbia dato, rimpianti che straziano e insieme illuminano. E anche per Viagra e la sua geopolitica d’invasione per disgregare meglio, stordendoli, attirandoli, esseri umani, vale la massima di Giobbe sulla polvere e sulla cenere che la Vulgata traduce Dominus dedit, Dominus abstulit. E’ da uomini veri rifiutare un soccorso facile, pericoloso e sospetto. La Scrittura dice anche, nel Cantico: «Il Desiderio è forte come la Morte». Verificare...
Sunday, October 08, 2006
Solidarietà a Robert Redeker
l’articolo incriminato di
Robert Redeker uscito il 19.09.06 sul Figaro.
Le reazioni suscitate dall’analisi di Benedetto XVI sull’islam e la violenza fanno
parte dell’obiettivo che lo stesso islam si pone: spazzare via la cosa più preziosa che possiede l’occidente e che non esiste in alcun paese musulmano, ovvero la libertà di pensiero e di espressione. L’islam sta cercando di imporre all’Europa le proprie regole: apertura delle piscine solo per le donne a determinati orari, divieto di satira della religione, pretesa di avere un certo tipo di alimentazione per i bambini musulmani nelle mense scolastiche, lotta per imporre il velo nelle scuole, accusa di islamofobia contro gli spiriti liberi. Come si spiega il divieto dell’estate scorsa
di portare il tanga a Paris-Plage? La spiegazione addotta è quantomeno strana: c’era
il rischio, si dice, di “turbare l’ordine pubblico”. Cosa significa? Che bande di giovani frustrati avrebbero rischiato di diventare violenti di fronte alla bellezza che faceva mostra di sé? Oppure si temevano manifestazioni islamiche, nelle vesti di brigate della virtù, nella zona di Paris-Plage? In realtà, il fatto che portare il velo in pubblico non sia vietato è qualcosa che può “turbare l’ordine pubblico” molto più del tanga, a causa della condanna che suscita questo strumento per l’oppressione delle donne. Non è fuori luogo pensare che tale divieto rappresenti una certa islamizzazione della mentalità francese, la sottomissione più o meno conscia ai dettami dell’islam. O quantomeno che questo sia il risultato dell’insidiosa pressione musulmana sulla mentalità della gente: le stesse persone che sono insorte contro l’inaugurazione di un sagrato dedicato a Giovanni Paolo II a Parigi non fiatano quando si costruiscono le moschee. L’islam sta cercando di obbligare l’Europa ad adeguarsi alla sua visione dell’uomo. Come già accadde con il comunismo, l’occidente è ora sotto sorveglianza ideologica. L’islam si presenta, esattamente come il defunto comunismo, come alternativa al mondo occidentale. E come il comunismo di altri tempi, l’islam, per conquistare gli animi, gioca su fattori emotivi. Ostenta una legittimità che turba la coscienza occidentale, attenta al prossimo: il fatto di porsi come la voce dei poveri di tutto il mondo. Ieri la voce dei poveri proveniva da Mosca; oggi viene dalla Mecca. Oggi degli intellettuali si fanno portatori dello sguardo del Corano, come ieri avevano fatto con lo sguardo di Mosca. Ora la scomunica è per l’islamofobia, come lo era stata in passato per l’anticomunismo.
Nell’apertura agli altri, che è propria dell’occidente, si manifesta una secolarizzazione del cristianesimo che può essere riassunta in questi termini: l’altro deve sempre venire prima di me. L’occidentale, erede del cristianesimo, è colui che mette a nudo la propria anima, assumendosi il rischio di passare
per debole. Come il defunto comunismo, l’islam considera la generosità, l’apertura
mentale, la tolleranza, la dolcezza, la libertà delle donne e dei costumi e i valori democratici come segni di decadenza. Sono debolezze che sfrutta volutamente grazie a degli “utili idioti”, buone coscienze imbevute di buoni sentimenti, per imporre l’ordine coranico nel mondo occidentale. Il Corano è un libro di una violenza inaudita. Maxime Rodinson sostiene, nell’Encyclopedia Universalis, alcune verità importanti che in Francia sono considerate tabù. Infatti, da una parte, “Maometto rivelò a Medina delle insospettate qualità di dirigente politico e capo militare (…) Ricorse alla guerra privata, istituzione comune in Arabia (…) Maometto inviò subito manipoli di suoi sostenitori ad attaccare le carovane della Mecca, punendo così i suoi connazionali increduli e, al contempo, ottenendo un ricco bottino”.
Dall’altra, “Maometto approfittò di questo successo per eliminare da Medina, facendola massacrare, l’ultima tribù ebrea ancora esistente, quella dei Qurayza, con l’accusa di comportamento sospetto”. Poi, “dopo la morte di Khadidja, sposò una vedova, brava donna di casa di nome Sawda, e anche la piccola Aisha, che aveva appena dieci anni. Le sue tendenze erotiche, a lungo represse, lo avrebbero portato a contrarre contemporaneamente una decina di matrimoni”. C’è un’esaltazione della violenza, perché il Corano mostra Maometto sotto questa luce: guerrafondaio senza pietà, predatore, massacratore di ebrei e poligamo. Ovviamente anche la chiesa cattolica ha le sue colpe. La sua storia è costellata di pagine nere, delle quali ha fatto ammenda: l’inquisizione, la caccia alle streghe, l’esecuzione dei filosofi Bruno e Vanini, la condanna degli epicurei, quella del cavaliere de La Barre, accusato di empietà in pieno XVIII secolo, non depongono a suo favore. Però c’è una differenza fondamentale tra il cristianesimo e l’islam: è sempre possibile tornare ai valori evangelici, alla dolce personalità di Gesù Cristo, riscattandosi
dagli errori della chiesa. Nessun errore della chiesa è stato ispirato dal Vangelo. Gesù è per la non violenza, e il ritorno al Cristo rappresenta la salvezza nei confronti di certi eccessi dell’istituzione ecclesiale. Il ricorso a Maometto, invece, rafforza l’odio e la violenza. Gesù è il maestro dell’amore, Maometto, il maestro dell’odio. La lapidazione di Satana che si ripete ogni anno alla Mecca non è solo un fenomeno superstizioso: non si riduce infatti allo spettacolo di una folla isterica che flirta con la barbarie, ma ha una portata antropologica.
Si tratta invero di un rito che ogni musulmano è invitato ad accettare, radicando la
violenza come dovere sacro nel cuore del credente.
Questa lapidazione, che ogni anno provoca la morte di fedeli calpestati dalla folla (a volte anche centinaia), è un rituale che ingloba la violenza arcaica.
Anziché eliminare questa violenza arcaica neutralizzandola, sulla scia dell’ebraismo
e del cristianesimo (l’ebraismo inizia con il rifiuto del sacrificio umano, che è l’ingresso nella civiltà, mentre il cristianesimo trasformerà il sacrificio in eucarestia), l’islam le crea un bel nido per crescere al caldo.
Mentre l’ebraismo e il cristianesimo sono religioni i cui riti sono rivolti contro la violenza e la delegittimano, l’islam è una religione che esalta la violenza e l’odio, sia nel suo testo sacro che in alcuni riti comuni. Odio e violenza pervadono il testo sul quale si formano tutti i musulmani: il Corano. Come ai tempi della Guerra fredda, la violenza e l’intimidazione vengono utilizzate al servizio di un’ideologia che si vuole egemone: l’islam, che mira a mettere la sua cappa di piombo sul mondo intero. Benedetto XVI sta soffrendo la crudeltà di tale esperienza. Come in altri tempi, è necessario dire a chiare lettere che l’occidente è “il mondo libero” nei
confronti di quello musulmano, e, come in quei tempi, gli avversari di questo “mondo libero”, funzionari zelanti del Corano, pullulano al suo interno.
Robert Redeker
Robert Redeker uscito il 19.09.06 sul Figaro.
Le reazioni suscitate dall’analisi di Benedetto XVI sull’islam e la violenza fanno
parte dell’obiettivo che lo stesso islam si pone: spazzare via la cosa più preziosa che possiede l’occidente e che non esiste in alcun paese musulmano, ovvero la libertà di pensiero e di espressione. L’islam sta cercando di imporre all’Europa le proprie regole: apertura delle piscine solo per le donne a determinati orari, divieto di satira della religione, pretesa di avere un certo tipo di alimentazione per i bambini musulmani nelle mense scolastiche, lotta per imporre il velo nelle scuole, accusa di islamofobia contro gli spiriti liberi. Come si spiega il divieto dell’estate scorsa
di portare il tanga a Paris-Plage? La spiegazione addotta è quantomeno strana: c’era
il rischio, si dice, di “turbare l’ordine pubblico”. Cosa significa? Che bande di giovani frustrati avrebbero rischiato di diventare violenti di fronte alla bellezza che faceva mostra di sé? Oppure si temevano manifestazioni islamiche, nelle vesti di brigate della virtù, nella zona di Paris-Plage? In realtà, il fatto che portare il velo in pubblico non sia vietato è qualcosa che può “turbare l’ordine pubblico” molto più del tanga, a causa della condanna che suscita questo strumento per l’oppressione delle donne. Non è fuori luogo pensare che tale divieto rappresenti una certa islamizzazione della mentalità francese, la sottomissione più o meno conscia ai dettami dell’islam. O quantomeno che questo sia il risultato dell’insidiosa pressione musulmana sulla mentalità della gente: le stesse persone che sono insorte contro l’inaugurazione di un sagrato dedicato a Giovanni Paolo II a Parigi non fiatano quando si costruiscono le moschee. L’islam sta cercando di obbligare l’Europa ad adeguarsi alla sua visione dell’uomo. Come già accadde con il comunismo, l’occidente è ora sotto sorveglianza ideologica. L’islam si presenta, esattamente come il defunto comunismo, come alternativa al mondo occidentale. E come il comunismo di altri tempi, l’islam, per conquistare gli animi, gioca su fattori emotivi. Ostenta una legittimità che turba la coscienza occidentale, attenta al prossimo: il fatto di porsi come la voce dei poveri di tutto il mondo. Ieri la voce dei poveri proveniva da Mosca; oggi viene dalla Mecca. Oggi degli intellettuali si fanno portatori dello sguardo del Corano, come ieri avevano fatto con lo sguardo di Mosca. Ora la scomunica è per l’islamofobia, come lo era stata in passato per l’anticomunismo.
Nell’apertura agli altri, che è propria dell’occidente, si manifesta una secolarizzazione del cristianesimo che può essere riassunta in questi termini: l’altro deve sempre venire prima di me. L’occidentale, erede del cristianesimo, è colui che mette a nudo la propria anima, assumendosi il rischio di passare
per debole. Come il defunto comunismo, l’islam considera la generosità, l’apertura
mentale, la tolleranza, la dolcezza, la libertà delle donne e dei costumi e i valori democratici come segni di decadenza. Sono debolezze che sfrutta volutamente grazie a degli “utili idioti”, buone coscienze imbevute di buoni sentimenti, per imporre l’ordine coranico nel mondo occidentale. Il Corano è un libro di una violenza inaudita. Maxime Rodinson sostiene, nell’Encyclopedia Universalis, alcune verità importanti che in Francia sono considerate tabù. Infatti, da una parte, “Maometto rivelò a Medina delle insospettate qualità di dirigente politico e capo militare (…) Ricorse alla guerra privata, istituzione comune in Arabia (…) Maometto inviò subito manipoli di suoi sostenitori ad attaccare le carovane della Mecca, punendo così i suoi connazionali increduli e, al contempo, ottenendo un ricco bottino”.
Dall’altra, “Maometto approfittò di questo successo per eliminare da Medina, facendola massacrare, l’ultima tribù ebrea ancora esistente, quella dei Qurayza, con l’accusa di comportamento sospetto”. Poi, “dopo la morte di Khadidja, sposò una vedova, brava donna di casa di nome Sawda, e anche la piccola Aisha, che aveva appena dieci anni. Le sue tendenze erotiche, a lungo represse, lo avrebbero portato a contrarre contemporaneamente una decina di matrimoni”. C’è un’esaltazione della violenza, perché il Corano mostra Maometto sotto questa luce: guerrafondaio senza pietà, predatore, massacratore di ebrei e poligamo. Ovviamente anche la chiesa cattolica ha le sue colpe. La sua storia è costellata di pagine nere, delle quali ha fatto ammenda: l’inquisizione, la caccia alle streghe, l’esecuzione dei filosofi Bruno e Vanini, la condanna degli epicurei, quella del cavaliere de La Barre, accusato di empietà in pieno XVIII secolo, non depongono a suo favore. Però c’è una differenza fondamentale tra il cristianesimo e l’islam: è sempre possibile tornare ai valori evangelici, alla dolce personalità di Gesù Cristo, riscattandosi
dagli errori della chiesa. Nessun errore della chiesa è stato ispirato dal Vangelo. Gesù è per la non violenza, e il ritorno al Cristo rappresenta la salvezza nei confronti di certi eccessi dell’istituzione ecclesiale. Il ricorso a Maometto, invece, rafforza l’odio e la violenza. Gesù è il maestro dell’amore, Maometto, il maestro dell’odio. La lapidazione di Satana che si ripete ogni anno alla Mecca non è solo un fenomeno superstizioso: non si riduce infatti allo spettacolo di una folla isterica che flirta con la barbarie, ma ha una portata antropologica.
Si tratta invero di un rito che ogni musulmano è invitato ad accettare, radicando la
violenza come dovere sacro nel cuore del credente.
Questa lapidazione, che ogni anno provoca la morte di fedeli calpestati dalla folla (a volte anche centinaia), è un rituale che ingloba la violenza arcaica.
Anziché eliminare questa violenza arcaica neutralizzandola, sulla scia dell’ebraismo
e del cristianesimo (l’ebraismo inizia con il rifiuto del sacrificio umano, che è l’ingresso nella civiltà, mentre il cristianesimo trasformerà il sacrificio in eucarestia), l’islam le crea un bel nido per crescere al caldo.
Mentre l’ebraismo e il cristianesimo sono religioni i cui riti sono rivolti contro la violenza e la delegittimano, l’islam è una religione che esalta la violenza e l’odio, sia nel suo testo sacro che in alcuni riti comuni. Odio e violenza pervadono il testo sul quale si formano tutti i musulmani: il Corano. Come ai tempi della Guerra fredda, la violenza e l’intimidazione vengono utilizzate al servizio di un’ideologia che si vuole egemone: l’islam, che mira a mettere la sua cappa di piombo sul mondo intero. Benedetto XVI sta soffrendo la crudeltà di tale esperienza. Come in altri tempi, è necessario dire a chiare lettere che l’occidente è “il mondo libero” nei
confronti di quello musulmano, e, come in quei tempi, gli avversari di questo “mondo libero”, funzionari zelanti del Corano, pullulano al suo interno.
Robert Redeker
Saturday, September 30, 2006
La scuola italiana ed il suo fallimento
In occasione dell'approvazione della finanziaria, un autentica oscenità per chiunque abbia a cuore il riformismo in questo paese, ostaggio com'è del massimalismo di rifondazione e delle clientele di tutti gli altri, ecco un bell'intervento sul foglio sullo stato della scuola in Italia.
Il tentativo del ministro dell’Economia di racimolare qualche risparmio anche sulla spesa dedicata all’istruzione ha suscitato una reazione colossale, che l’ha costretto all’ennesima ingloriosa ritirata.
Quelli che chiedono di spendere di più nella scuola pubblica hanno vinto, come sempre, ma in realtà l’organizzazione scolastica italiana è una specie di buco nero, che assorbe risorse crescenti producendo risultati sempre meno convincenti. I dati di fondo sono noti: in Italia c’è il maggior numero di insegnanti per addetto fra i grandi paesi industrializzati, e un livello dell’istruzione degli studenti tra i più bassi. Inoltre, al crescere del livello di studi, decresce il risultato ottenuto,che è passabile solo nelle elementari, diventa scarso nella media inferiore, pessimo in quella superiore, per non parlare dell’università, che perde per strada la maggior parte degli iscritti senza che conseguano la laurea. La corporazione scolastica, che si è consolidata come accade sempre in un sistema nel quale non esiste competizione, rifiuta ogni riforma che punti a ricostruire una relazione di efficacia tra la scuola e la società produttiva. Questo obiettivo, con la benedizione dell’attuale ministro della Pubblica istruzione, è stato condannato come aziendalistico o, peggio ancora, efficientistico. Per chi la domina, la scuola non deve rispondere alle esigenze del paese, ma restare se stessa, una “comunità in cammino”, come dice retoricamente il ministro Giuseppe Fioroni, anche se nessuno sa dove vada. La radice dell’inefficienza della scuola italiana è l’assoluta assenza di concorrenza e di valutazione della qualità del “prodotto”. Non si tratta solo della concorrenza tra pubblico e privato, azzoppata dalla inapplicazione dei principi della parità scolastica, ma anche della mancanza di competizione tra istituti pubblici, che non ha senso se non produce alcun esito per chi ottiene risultati migliori. In questo clima di burocrazia dominata dalle corporazioni sindacali, anche gli sforzi degli insegnanti volonterosi, che non mancano, vengono frustrati. In questo modo, peraltro, si viola la sostanza del diritto allo studio, perché la formazione che si offre non è in grado di fornire un bagaglio di conoscenze adatto alla competizione che esiste nel mondo del lavoro, naturalmente a svantaggio di chi proviene dai ceti meno abbienti. E’ giusto che un paese investa nella scuola per preparare il proprio futuro, ma farlo senza riformarla profondamente significa finanziare non l’istruzione ma la burocrazia corporativa.
Il tentativo del ministro dell’Economia di racimolare qualche risparmio anche sulla spesa dedicata all’istruzione ha suscitato una reazione colossale, che l’ha costretto all’ennesima ingloriosa ritirata.
Quelli che chiedono di spendere di più nella scuola pubblica hanno vinto, come sempre, ma in realtà l’organizzazione scolastica italiana è una specie di buco nero, che assorbe risorse crescenti producendo risultati sempre meno convincenti. I dati di fondo sono noti: in Italia c’è il maggior numero di insegnanti per addetto fra i grandi paesi industrializzati, e un livello dell’istruzione degli studenti tra i più bassi. Inoltre, al crescere del livello di studi, decresce il risultato ottenuto,che è passabile solo nelle elementari, diventa scarso nella media inferiore, pessimo in quella superiore, per non parlare dell’università, che perde per strada la maggior parte degli iscritti senza che conseguano la laurea. La corporazione scolastica, che si è consolidata come accade sempre in un sistema nel quale non esiste competizione, rifiuta ogni riforma che punti a ricostruire una relazione di efficacia tra la scuola e la società produttiva. Questo obiettivo, con la benedizione dell’attuale ministro della Pubblica istruzione, è stato condannato come aziendalistico o, peggio ancora, efficientistico. Per chi la domina, la scuola non deve rispondere alle esigenze del paese, ma restare se stessa, una “comunità in cammino”, come dice retoricamente il ministro Giuseppe Fioroni, anche se nessuno sa dove vada. La radice dell’inefficienza della scuola italiana è l’assoluta assenza di concorrenza e di valutazione della qualità del “prodotto”. Non si tratta solo della concorrenza tra pubblico e privato, azzoppata dalla inapplicazione dei principi della parità scolastica, ma anche della mancanza di competizione tra istituti pubblici, che non ha senso se non produce alcun esito per chi ottiene risultati migliori. In questo clima di burocrazia dominata dalle corporazioni sindacali, anche gli sforzi degli insegnanti volonterosi, che non mancano, vengono frustrati. In questo modo, peraltro, si viola la sostanza del diritto allo studio, perché la formazione che si offre non è in grado di fornire un bagaglio di conoscenze adatto alla competizione che esiste nel mondo del lavoro, naturalmente a svantaggio di chi proviene dai ceti meno abbienti. E’ giusto che un paese investa nella scuola per preparare il proprio futuro, ma farlo senza riformarla profondamente significa finanziare non l’istruzione ma la burocrazia corporativa.
Friday, September 22, 2006
Al tg si dovrebbe parlare di questo....
Eolo corre in soccorso al clima, articolo sul manifesto
Se il chilowatt più pulito è quello non consumato -il primo giacimento di energia pulita è davvero l'efficienza e il risparmio - certamente ogni chilowatt prodotto con il sole o il vento evita l'emissione in atmosfera di diversi ettogrammi di anidride carbonica. Abbattere le emissioni di gas serra del 50% da qui al 2050 è considerato dagli scienziati il minimo per contenere l'aumento della temperatura terrestre al di sotto di quei due gradi centigradi superare i quali sarebbe fatale. Per arrivare a quest'obiettivo necessario ma lontanissimo occorre puntare con determinazione sull'energia eolica, secondo il rapporto Global Wind Energy Outlook diffuso ieri in Australia da Greenpeace e dal Global Wind Energy Council (Gwec), l'associazione che raggruppa circa 1.500 società e istituzioni in 50 paesi, fra cui i maggiori produttori di turbine eoliche.
Il mercato globale del settore si sta espandendo. In dieci anni, fra il 1995 e il 2005, è cresciuto di dodici volte fino a raggiungere i 59.000 Megawatt alla fine del 2005; è così che i costi di produzione sono scesi in modo significativo. E' anche un bel giro di affari (per il 2006 stimato pari a 13 miliardi di dollari) e quel che più conta crea posti di lavoro: già 150mila occupati in giro per il mondo. Ormai in alcuni paesi la porzione di elettricità prodotta con l'energia eolica sfida le fonti convenzionali. I paesi che hanno maggiormente investito nell'eolico sono Germania, Spagna, India e Danimarca (viene dal vento il 20 per cento dell'elettricità prodotta); segni interessanti vengono da Gran Bretagna, Portogallo, Giappone, Cina, Paesi Bassi e Italia.
Ma, sempre secondo il rapporto, si può fare molto di più e bisogna accelerare; il fabbisogno totale di energia al trend attuale potrebbe crescere del 60% da qui al 2030, secondo l'International Energy Agency (Iea). Fino al 34% dell'energia elettrica mondiale potrebbe realisticamente essere fornito dalle pale entro la metà di questo secolo. Naturalmente il consumo di energia elettrica - comprendente gli usi industriali - è una (rilevante) frazione del consumo globale di energia; rimangono poi il voracissimo e sempre in crescita settore dei trasporti e l'energia per usi termici. Ma anche così, arrivare a produrre con il vento oltre un terzo dell'elettricità globale entro il 2050 significherebbe risparmiare, da qui ad allora, 113 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. E aggiungere dai 480mila ai due milioni di posti di lavoro.
Come arrivare a questo 34 per cento? Il rapporto contiene proposte precise per le politiche nazionali e internazionali. Le prime sono così riassumibili: stabilire, per le energie rinnovabili, obiettivi di crescita vincolanti e non solo auspicabili; operare affinché il prezzo delle energie rinnovabili permetta un ritorno dei rischi quantomeno paragonabile alle altre opzioni; riformare i mercati dell'energia elettrica per rimuovere le barriere alle rinnovabili; eliminare le distorsioni quali in primo luogo i sussidi alle fonti fossili e al nucleare; internalizzare i costi sociali ed ecologici delle forme inquinanti di energia. Quanto alle proposte internazionali: fissare e rendere operativi obiettivi di riduzione delle emissioni anche post-2012 (data di «scadenza» del Protocollo di Kyoto); riformare le operazioni delle agenzie di credito alle esportazioni, delle banche di sviluppo multilaterali e delle istituzioni finanziarie internazionali così da assicurare che una percentuale obbligatoria e crescente dei prestiti vada al finanziamento delle rinnovabili; e via via (ma in fretta) non finanziare più i progetti energetici convenzionali e inquinanti; come invece la Banca mondiale continua a fare, v. terra terra dell'8 settembre 2006.
Naturalmente, non si possono trascurare le obiezioni ambientaliste alla proliferazione di pale eoliche. E il rapporto cerca di affrontare l'impatto visivo, acustico e sulla fauna selvatica locale e migratoria. Non molte parole, invero. L'impatto visivo è considerato controverso (per alcuni le pale sono brutte, per altri «possono essere il simbolo di un futuro meno inquinato». Quanto al rumore: «rispetto al traffico e alle fonti industriali, il suono è generalmente basso», e soprattutto le installazioni vanno poste a distanza dalle abitazioni, oltre a cercare di migliorare il design e l'isolamento. Infine, quanto agli uccelli (disturbati nei loro habitat e uccisi nelle collisioni con le pale), scrive il rapporto che il tasso medio di collisione da studi in Europa e Usa è pari a due animali per turbina l'anno e «ne ammazzano di più i pesticidi, le linee elettriche e le automobili». E' vero. Ma è anche vero che i problemi di impatto richiedono molta attenzione, anche quando si tratta di energie alternative. E che anche nell'eolico, piccolo (e più basso) sarebbe più bello.
Se il chilowatt più pulito è quello non consumato -il primo giacimento di energia pulita è davvero l'efficienza e il risparmio - certamente ogni chilowatt prodotto con il sole o il vento evita l'emissione in atmosfera di diversi ettogrammi di anidride carbonica. Abbattere le emissioni di gas serra del 50% da qui al 2050 è considerato dagli scienziati il minimo per contenere l'aumento della temperatura terrestre al di sotto di quei due gradi centigradi superare i quali sarebbe fatale. Per arrivare a quest'obiettivo necessario ma lontanissimo occorre puntare con determinazione sull'energia eolica, secondo il rapporto Global Wind Energy Outlook diffuso ieri in Australia da Greenpeace e dal Global Wind Energy Council (Gwec), l'associazione che raggruppa circa 1.500 società e istituzioni in 50 paesi, fra cui i maggiori produttori di turbine eoliche.
Il mercato globale del settore si sta espandendo. In dieci anni, fra il 1995 e il 2005, è cresciuto di dodici volte fino a raggiungere i 59.000 Megawatt alla fine del 2005; è così che i costi di produzione sono scesi in modo significativo. E' anche un bel giro di affari (per il 2006 stimato pari a 13 miliardi di dollari) e quel che più conta crea posti di lavoro: già 150mila occupati in giro per il mondo. Ormai in alcuni paesi la porzione di elettricità prodotta con l'energia eolica sfida le fonti convenzionali. I paesi che hanno maggiormente investito nell'eolico sono Germania, Spagna, India e Danimarca (viene dal vento il 20 per cento dell'elettricità prodotta); segni interessanti vengono da Gran Bretagna, Portogallo, Giappone, Cina, Paesi Bassi e Italia.
Ma, sempre secondo il rapporto, si può fare molto di più e bisogna accelerare; il fabbisogno totale di energia al trend attuale potrebbe crescere del 60% da qui al 2030, secondo l'International Energy Agency (Iea). Fino al 34% dell'energia elettrica mondiale potrebbe realisticamente essere fornito dalle pale entro la metà di questo secolo. Naturalmente il consumo di energia elettrica - comprendente gli usi industriali - è una (rilevante) frazione del consumo globale di energia; rimangono poi il voracissimo e sempre in crescita settore dei trasporti e l'energia per usi termici. Ma anche così, arrivare a produrre con il vento oltre un terzo dell'elettricità globale entro il 2050 significherebbe risparmiare, da qui ad allora, 113 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. E aggiungere dai 480mila ai due milioni di posti di lavoro.
Come arrivare a questo 34 per cento? Il rapporto contiene proposte precise per le politiche nazionali e internazionali. Le prime sono così riassumibili: stabilire, per le energie rinnovabili, obiettivi di crescita vincolanti e non solo auspicabili; operare affinché il prezzo delle energie rinnovabili permetta un ritorno dei rischi quantomeno paragonabile alle altre opzioni; riformare i mercati dell'energia elettrica per rimuovere le barriere alle rinnovabili; eliminare le distorsioni quali in primo luogo i sussidi alle fonti fossili e al nucleare; internalizzare i costi sociali ed ecologici delle forme inquinanti di energia. Quanto alle proposte internazionali: fissare e rendere operativi obiettivi di riduzione delle emissioni anche post-2012 (data di «scadenza» del Protocollo di Kyoto); riformare le operazioni delle agenzie di credito alle esportazioni, delle banche di sviluppo multilaterali e delle istituzioni finanziarie internazionali così da assicurare che una percentuale obbligatoria e crescente dei prestiti vada al finanziamento delle rinnovabili; e via via (ma in fretta) non finanziare più i progetti energetici convenzionali e inquinanti; come invece la Banca mondiale continua a fare, v. terra terra dell'8 settembre 2006.
Naturalmente, non si possono trascurare le obiezioni ambientaliste alla proliferazione di pale eoliche. E il rapporto cerca di affrontare l'impatto visivo, acustico e sulla fauna selvatica locale e migratoria. Non molte parole, invero. L'impatto visivo è considerato controverso (per alcuni le pale sono brutte, per altri «possono essere il simbolo di un futuro meno inquinato». Quanto al rumore: «rispetto al traffico e alle fonti industriali, il suono è generalmente basso», e soprattutto le installazioni vanno poste a distanza dalle abitazioni, oltre a cercare di migliorare il design e l'isolamento. Infine, quanto agli uccelli (disturbati nei loro habitat e uccisi nelle collisioni con le pale), scrive il rapporto che il tasso medio di collisione da studi in Europa e Usa è pari a due animali per turbina l'anno e «ne ammazzano di più i pesticidi, le linee elettriche e le automobili». E' vero. Ma è anche vero che i problemi di impatto richiedono molta attenzione, anche quando si tratta di energie alternative. E che anche nell'eolico, piccolo (e più basso) sarebbe più bello.
Monday, September 18, 2006
Ma lo scopo di un sistema economico...
.....non era quello di generare felicità sempre crescente, ed a questo scopo non sarebbe bastato soltanto l'intervento regolatore del mercato? Come da articolo sul Manifesto leggiamo che dal 2001, in soli quattro anni, la quota dei salari sul reddito è scesa di cinque punti, passando dal 50 al 45 per cento. Tutti gli aumenti della produttività sono andati ai profitti.
Dal 2001 ad oggi i salari in America sono passati dal 50% del Pil al 45% e la condizione dei lavoratori non ha subito un tracollo solo perché le spese per i benefit da parte delle aziende (pensioni e sanità) sono cresciute nella medesima proporzione della crescita del Pil. Di contro la rendita e soprattutto i profitti delle imprese sono cresciuti del 5%. Soprattutto i profitti perché la produttività negli ultimi 5 anni è cresciuta del 16,7% e i salari solo del 7,5%.
Da quando si registrano questi dati, cioè dal 1947 è la più forte contrazione del peso dei salari mai avvenuta. Ovviamente,tanto negli Usa che nei paesi Ocse non tutti i settori godono del vento in poppa e non tutte le aree geografiche. Da qui anche le tensioni politiche. Ma anche un fenomeno che preoccupa i dirigenti dei grandi istituti finanziari: la caduta di aspettative dei cittadini,della massa dei cittadini.
Quasi a confermare le loro preoccupazioni è arrivato una studio della Afl-Cio il sindacato americano.I salariati Usa per il 70% ritengono che la loro condizione di vita sia peggiorata negli ultimi tre anni. Questo nonostante gli aumenti salariali programmati che se pur consistenti non coprono il rialzo dei prezzi Non solo: il bilancio familiare quadra solo se un altro membro della famiglia vi contribuisce in modo parziale. In parole povere se in famiglia entrano due redditi si salva il proprio tenore di vita, altrimenti si scende nella scala dei consumi.
Diversa è la condizione del ceto medio-alto, cioè di quella parte di lavoratori che può godere di una entrata derivante da una rendita, sia essa dovuta a titoli o a proprietà immobiliari. Non vale per tutti. Anche qui entrano diversi fattori, soprattutto per l'immobiliare ma questa parte di lavoratori ha potuto conservare il proprio tenore di vita. C'e' poi un 30% di salariati che pensa di stare meglio. Sono tutti impiegati nelle aziende che producono le nuove tecnologie, che fanno ricerca nei settori della biotecnologia,per l'informatica. Per questo genere di lavoratore le opportunità in Usa hanno permesso un balzo salariale nonostante la crisi che ha colpito la Silicon Valley a partire dal 2000.
Dal 2001 ad oggi i salari in America sono passati dal 50% del Pil al 45% e la condizione dei lavoratori non ha subito un tracollo solo perché le spese per i benefit da parte delle aziende (pensioni e sanità) sono cresciute nella medesima proporzione della crescita del Pil. Di contro la rendita e soprattutto i profitti delle imprese sono cresciuti del 5%. Soprattutto i profitti perché la produttività negli ultimi 5 anni è cresciuta del 16,7% e i salari solo del 7,5%.
Da quando si registrano questi dati, cioè dal 1947 è la più forte contrazione del peso dei salari mai avvenuta. Ovviamente,tanto negli Usa che nei paesi Ocse non tutti i settori godono del vento in poppa e non tutte le aree geografiche. Da qui anche le tensioni politiche. Ma anche un fenomeno che preoccupa i dirigenti dei grandi istituti finanziari: la caduta di aspettative dei cittadini,della massa dei cittadini.
Quasi a confermare le loro preoccupazioni è arrivato una studio della Afl-Cio il sindacato americano.I salariati Usa per il 70% ritengono che la loro condizione di vita sia peggiorata negli ultimi tre anni. Questo nonostante gli aumenti salariali programmati che se pur consistenti non coprono il rialzo dei prezzi Non solo: il bilancio familiare quadra solo se un altro membro della famiglia vi contribuisce in modo parziale. In parole povere se in famiglia entrano due redditi si salva il proprio tenore di vita, altrimenti si scende nella scala dei consumi.
Diversa è la condizione del ceto medio-alto, cioè di quella parte di lavoratori che può godere di una entrata derivante da una rendita, sia essa dovuta a titoli o a proprietà immobiliari. Non vale per tutti. Anche qui entrano diversi fattori, soprattutto per l'immobiliare ma questa parte di lavoratori ha potuto conservare il proprio tenore di vita. C'e' poi un 30% di salariati che pensa di stare meglio. Sono tutti impiegati nelle aziende che producono le nuove tecnologie, che fanno ricerca nei settori della biotecnologia,per l'informatica. Per questo genere di lavoratore le opportunità in Usa hanno permesso un balzo salariale nonostante la crisi che ha colpito la Silicon Valley a partire dal 2000.
Sunday, September 17, 2006
Il ruolo dell'etanolo, la lunga strada per liberarci dagli arabi...
Articolo di Ugo Bertone per il Foglio:
No, non illudetevi perché il prezzo del greggio scivola giù dalle vette toccate in estate: l’età del petrolio abbondante volge al termine, comunque vada il negoziato con Teheran. E presto saranno dolori. I seguaci del “peak oil”, ultima religione dei mercati finanziari, si sono ritrovati l’estate scorsa, nella campagna toscana. Lì, a due passi dalla Torre di Pisa, ambientalisti estremi e gestori di hedge fund come l’olandese Willem Kadijk (che si accinge a lanciare un hedge basato su titoli antipanico) hanno recitato la loro profezia. Presto, hanno ripetuto, nonostante gli sforzi dei geologi, i pozzi renderanno sempre meno. E il mondo, visto da una pompa di benzina a secco, sarà davvero un brutto posto dove le visioni più apocalittiche diventeranno realtà. Anche quella di James Howard Kunstler, profeta travestito da geologo: anche Las Vegas, scrive Kunstler, sparirà quando i distributori chiuderanno i battenti. La Sodoma e Gomorra dei nostri giorni campa grazie all’aria condizionata a manetta, alle autostrade a otto corsie e ai viaggi aerei. Cioè, grazie al petrolio abbondante e a basso costo, privilegio destinato ad esaurirsi nel giro di pochi decenni, se non di anni. Preparatevi, si legge nel suo libro-testamento, “The long emergency”, ad un futuro in cui per muoversi da una periferia desolata, circondata da supermercati svuotati di merci cinesi (e non solo) ci vorranno giorni e tanto coraggio: perché un mondo improvvisamente svuotato di petrolio sarà un mondo più pericoloso, popolato di Blade Runner come nel romanzo di Philip K. Dick. La profezia ha fatto presa: da 18 mesi il libro di Kunstler figura nella classifica dei top 1000 di Amazon.com. Nello stesso periodo si sono già formati su Internet ottantadue gruppi con circa duemila membri organizzati attraverso Meetup.com, il portale nato per discutere il problema. O organizzare letture collettive di un altro “mostro sacro” del popolo dei “peak oil”, un predicatore che tiene dibattiti, ben retruibiti, alla City: Colin Campbell, geologo laureato ad Oxford, 40 anni di lavoro nell’industria Per alimentare un decimo delle macchine americane servirebbe un terzo dell’attuale produzione di zucchero e cereali negli Stati Uniti. Nel suo bestseller “The Coming Oil Crisis” sostiene che ormai è troppo tardi: il petrolio finirà prima che emerga una qualche convincente forma di alternativa energetica. Non tutti sono così pessimisti di fronte al pericolo del greggio energetico. Nella palestra del futuro vale pure l’immagine muscolare che viene dal governatore della California, Arnold Schwarzenegger, uno che di muscoli se ne intende. “Credo ci voglia un grosso sforzo
– ha detto – per consumare di meno ma ce la possiamo fare. Come non lo so, ma una cosa mi è chiara: se voglio perdere dieci chili entro l’estate devo darmi da fare in palestra. Certo, in quel caso il grasso protesta: non mi attaccare, io ti voglio bene. Ora sono le compagnie petrolifere a protestare. Fanno il loro mestiere”. Così Schwarzy, alla ricerca di una causa popolare e vincente, si schiera in vista del referendum di novembre, quando i cittadini della California dovranno pronunciarsi sulla “Proposition 87”, che prevede di imporre una tassa di estrazione su ogni barile che le compagnie petrolifere tirano fuori dai pozzi dello stato per un gettito, si prevede, di almeno quattro miliardi di dollari che, secondo il comitato che ha lanciato la proposta, dovranno essere spesi per incentivare l’uso dei carburanti alternativi. Una calamità, dicono naturalmente le Big Oil (Chevron, ExxonMobil, Shell e Occidental Petroleum) che, per scongiurare l’imposta, si sono tassate per 30 milioni di dollari per finanziare la campagna per il no. E c’è chi sospetta che la grande scoperta petrolifera di Chevron nel Golfo del Messico, annunciata con grande enfasi in settimana, sia una mossa pubblicitaria per migliorare l’immagine, pessima, delle Big Oil presso l’opinione pubblica Usa. Sul fronte dei nemici dei petrolieri, a sostegno del referendum, ci sono infatti nomi importanti: gente del cinema, come il produttore Stephen Bing, venture capitalist di Silicon Valley come John Doerr o Vinod Khosla, uno dei pionieri della new economy, tra i fondatori nel 1982 di Sun Microsystems e il primo a credere a suo tempo in Amazon o in Netscape, il navigatore da cui nacque Aol. Oggi, per lui, indiano di Phuna, come per i compagni di cordata, la nuova “ Big Thing” non passa dalla Grande Rete o da un chip. Ma dall’etanolo, ovvero dal carburante estratto dai cereali o dallo zucchero che, fino al 2012, potrà godere di incentivi governativi che lo rendono competitivo rispetto ai carburanti tradizionali. La scommessa, insomma, è di migliorare, entro cinque anni, tecniche e carburanti al punto da sfidare la concorrenza del petrolio. Purché, naturalmente, il prezzo del petrolio si mantenga alto, almeno sopra i 50 dollari. Altrimenti, il risveglio sarà amaro. L’indiano di Silicon Valley, uno che ha saputo ai tempi trasformare gli otto milioni affidatigli dai banchieri di San Francisco in due miliardi di dollari sonanti, sa però che la partita non si giocherà in laboratorio. In palio ci sono tanti soldi ma, più ancora la sicurezza nazionale. E non a caso l’indiano che ama l’etanolo ha arruolato un luogotenente d’eccezione: R. James Woolsey, 65 anni, già direttore della Cia tra il ’93 e il ’95. Chi meglio di lui per spiegare al Congresso che non si può star con le mani in mano in attesa di
una congiura di palazzo a Riyad o di un blitz dei pasdaran di Ahmadinejad. Khosla, nella sua battaglia per l’etanolo, è in buona compagnia: lo stesso Bill Gates ha investito nella Pacific Ethanol, di cui oggi è l’azionista numero uno. Certo, per uno come lui, un’operazione da 87 milioni di dollari (tanto c’è voluto per diventare l’azionista numero uno dell’azienda , per cui lui ha grandi ambizioni) è ben poca cosa. Ma la tendenza è chiara: l’America che ha vinto la sfida della produttività grazie al software e al Web accetta la sfida dell’energia. A suon di dollari, di venture capital, di speculazioni in Borsa e fuori. Con qualche sorpresa. Indovinate, ad esempio, chi ha finanziato (600 milioni di dollari) il prototipo della Tesla Roadstar, la prima auto elettrica con prestazioni degne di una Ferrari: da zero a 90 all’ora in quattro secondi, 200 all’ora la velocità massima, più di 340 dopo una ricarica supplementare. Si tratta nientemeno che di Larry Page e Sergej Brin, i due fondatori di Google, assieme ad una schiera di top manager di eBay e Pay-Pal. Anche loro, a modo loro, sono coinvolti nel grande rodeo dell’energia, la partita più globale che ci sia, la palestra per scienziati visionari, spie in pensione, tecnologi visionari e finanzieri a caccia della grande avventura.
La realtà è che si parla molto, come è giusto, degli scenari politici o strategici provocati dal caro greggio. E ancor di più si tenta di indovinare il giusto prezzo dell’oro nero, districandosi a breve tra le mosse di Caracas o di Teheran, oppure, a medio-lungo termine, tra le previsioni dei catastrofisti che annunciano la fine del petrolio (il “peak oil”, cioè il massimo della produzione è giàstato toccato per qualcuno, per altri lo sarà entro il 2010) e quelli che, come Leonardo Maugeri, brillante testa d’uovo dell’Eni che gode di audience mondiale, ci rassicura ricordandoci come in Iraq, dall’inizio del XX secolo, sono stati trivellati solo 2.500 pozzi contro un milione circa in Texas, a dimostrazione che il medio oriente (ma non solo) può darci ancora tante sorprese e preziosi barili (ce ne sono almeno 2.000 milioni di miliardi, il doppio di quanto prodotto finora secondo lo Us Geological Survey). Ma si parla poco degli effetti che la stagione dei rialzi sta provocando risvegliando ricerche vecchie e sepolte o eccitando nuovi appetiti in questa corsa alla pietra filosofale del XXI secolo che si svolge in tanti, spesso inattesi palcoscenici, talora frutto inatteso di una storia che arriva da lontano. Il film della moderna alchimia può cominciare dai laboratori del Mit, dove Gregory Stephanopoulos, docente di Ingegneria chimica, “allena” i microbi che dovranno trasformare le biomasse in etanolo da mettere nel motore. Anche questa, come spesso capita nella storia dell’innovazione (vi ricordate l’origine di Internet) è una storia che nasce dall’incrocio tra le esigenze del Pentagono e la genialità degli scienziati. Tutto comincia, infatti, nel 1950 quando l’esercito americano incarica un microbiologo, Elwyn T. Reese, di trovare un modo per annientare uno strano fungo tropicale che si era letteralmente mangiato le uniformi dei marine a Guadalcanal. Ma Reese si guardò bene dal fare il killer, convincendo Washington che era assai più sensato cercare di capire quali enzimi permettevano al fungo di spezzare le strutture molecolari dei tessuti o della cellulosa liberando cellule di zucchero. Da allora le ricerche sono andate avanti, con alterna fortuna e interesse. Fino ad oggi. Ora, infatti, quel microbo può cambiare il mondo, cancellando buona parte degli handicap che frenano lo sviluppo dell’etanolo. Per alimentare un decimo del parco macchine americano, infatti,sarebbe necessario un terzo dell’attuale produzione di cereali Usa. E il discorso è ancora più complicato per l’Europa: per sostituire il 5,75 per cento del carburante usato nella Ue, occorre il 19 per cento della superficie arabile dell’Unione europea. Tutto potrebbe cambiare, però, se il nostro microbo fosse in grado di trasformare in zucchero da carburante tutti gli scarti del grano o di altre biomasse. A crederci sono in tanti, almeno in trenta. E tra questi c’è la Iogen , una società dello Iowa che già oggi produce etanolo da cellulosa, ma ancora a prezzi troppo elevati. Ma attenzione. In Iogen, benedetta dai programmi dello stesso George W. Bush, c’è nientemeno che Goldman Sachs, il colosso delle banche d’affari Usa. E a volere un forte investimento della banca nel settore è stato nientemeno che Henry Hank Paulson, oggi segretario del Tesoro a Washington. Non è certo l’unico caso di matrimonio tra Wall Street e l’ecocombustibile. Anzi, la storia di maggior successo l’ha scritta finora un giovane banchiere di Morgan Stanley, Leigh Abramson, oggi 37 anni. Quando Abramson, laureato in storia all’Amherst Institute è approdato a Peoria, Illinois, per studiare un’eventuale acquisto (a mo’ di garanzia) di una quota della Aventine Renewable Energy, non sapeva nemmeno cosa fosse l’Mtbe, il biocombustibile prodotto da metanolo di sintesi. Ma il prezzo era buono , il venditore, travolto dallo scandalo Enron, costretto a vendere a meno della metà del costo sostenuto per trasformare un vecchio zuccherificio in un impianto per la benzina verde. E dopo otto mesi di clausura a Pekin, Illinois, Abramson convinse i superiori a sospendere i 66 milioni richiesti: oggi Aventine vale in Borsa poco meno di 800 milioni di dollari. Storie di soldi, oltre che di tecnologia. Come quella della Platinum Energy Resources di Houston, fondata da Barry Kostiner, 34 anni, faccia d’angelo, fegato d’acciaio. Di petrolio, confessa, ne sa poco. Ma con una laurea in matematica del Mit in saccoccia, Kostiner ha capito che la fortuna saprà arridere a chi troverà il sistema di far fruttare in quattrini sonanti il greggio che sta ancora sottoterra. E ha inventato un sistema niente male: lo Spac (special purpose acquisition company). Si tratta di società in cui si investe senza sapere come e dove i quattrini verranno investiti. Solo in un secondo momento, il finanziere sceglierà la “preda” (con l’assenso di un comitato di garanti). In questo modo Kostiner ha raccolto più di 100 milioni di dollari al Pink Sheets, il mercato più speculativo tra le Borse Usa, dove, dice la Sec, “sono quotate le società più rischiose”e li ha in vestiti in una piccola società petrolifera, la Tandem Energy che possiede alcune vecchie concessioni mai sfruttare in Texas. Sembra la storia di James Dean nel “Gigante”: speriamo che Kostiner non si sfracelli pure lui sulle strade del Texas. Difficile trovare un matematico altrettanto simpatico. Ma guai a pensare che la corsa al Santo Graal dell’energia pulita sia cosa appannaggio solo di università Usa o di centri di potere della finanza Usa. Certo, alla caccia grossa partecipano gli scienziati che hanno fatto gavetta nell’amministrazione militare. Come Erik Straser, solo 36 anni ma un passato ai segretissimi National laboratory di Los Alamos lasciati per sviluppare, con i quattrini raccolti dal solito venture capitalist batterie ad energia solare. Ma la soluzione può venire dal carbone ripulito secondo i procedimenti studiati dagli scandinavi della Vattenfall. O nascondersi nella savana di Secunda, a due ore e mezza di jeep da Johannesbugh dove i moderni alchimisti della Sasol trasformano il carbone in carburante. Non stupisca la scoperta di un Sud Africa ad alta tecnologia. Per decenni gli scienziati hanno scartato, perché troppo costosa, la pista della trasformazione del carbone in benzina o gasolio. Ma il Sud Africa dell’apartheid, colpito dall’embargo dell’Opec, negli anni Settanta ha investito una fortuna (sei miliardi di dollari dell’epoca), per procurarsi il carburante. Oggi, a questi prezzi, quell’investimento si è rivelato una fortuna. E Sasol ha appena chiuso un contratto monstre con la Cina: 27 mini impianti da costruire nella Mongolia cinese, a ridosso delle miniere di carbone. Già, i cinesi, i nuovi consumatori che hanno sconvolto la mappa del petrolio più degli sceicchi o di Hugo Chávez. Sono affamati di petrolio, non dimenticano i buoni affari. Hanno cominciato a produrre etanolo, grazie all’aiuto del Brasile e agli incentivi del governo. All’improvviso, per merito di centinaia di impianti “pirata”cresciuti per sfruttare gli incentivi di stato, il Drago è diventato il secondo produttore al mondo e il primo esportatore di etanolo. Perché gli aiuti al settore di Washington (che, per le pressioni dei farmers, im-Il Brasile è l’unico paese al mondo dove nelle stazioni di servizio è possibile scegliere tra carburante tradizionale ed etanolo semplice porta con il contagocce dal Brasile) si sono rivelati una calamita formidabile per i petrolieri del grano di Pechino. Anche in Brasile la fortuna è nata da una decisione “politically uncorrect”. La decisione di puntare su una soluzione autarchica nacque negli anni Settanta, sotto il tallone del regime militare. Oggi il Brasile è l’unico paese al mondo dove, alla stazione di servizio, si può scegliere tra la benzina normale, la miscela (etanolo più benzina) o l’etanolo semplice. E nella sterminata prateria del sud il colosso di stato, la Petrobrás, ha costruito la fabbrica di Araucária, un impianto così importante che Ignacio Lula da Silva l’ha scelto, nello scorso giugno, come palcoscenico per annunciare, in via ufficiale, la sua candidatura per un secondo mandato presidenziale. Difficile trovare un luogo più solenne: quel giorno , infatti, cominciava in via ufficiale pure la produzione dell’H-bio, il brevetto più importante mai uscito dai laboratori brasiliani. H-Bio, in sintesi, è un estratto dell’olio di soia o di girasole che, mescolato con un comune diesel, può funzionare da carburante per un qualsiasi motore, senza alcuna modifica: il sogno di liberarsi dalla dittatura del petrolio, insomma, non è più remoto dell’incubo di restare a secco. Perché, se non avete ancora deciso se essere ottimisti o pessimisti, se credere che il “peak oil” (cioè il punto massimo della produzione) sia stato ormai raggiunto o no, potete divertirvi con i tanti blog sulla materia (the oil drum, Aspo, Energy Bulletin per citare i più noti). Troverete di tutto: ingegneri ecologisti a favore dell’eolico, ecologisti animalisti che denunciano i crimini dell’eolico (le pale delle turbine ammazzano molti uccelli protetti); repliche degli ingegneri che sostengono che i gatti uccidono più delle pale; altri animalisti che scendono in difesa dei gatti. Difficile raccapezzarsi. Ma una cosa emerge: il petrolio andrà su e giù (facile che, nel prossimo futuro vada giù. A Teheran piacendo). Ma quella dell’energia non è una bolla come quella della tecnologia, assicurano Khosla e amici, gente che di bolle se ne intende.
No, non illudetevi perché il prezzo del greggio scivola giù dalle vette toccate in estate: l’età del petrolio abbondante volge al termine, comunque vada il negoziato con Teheran. E presto saranno dolori. I seguaci del “peak oil”, ultima religione dei mercati finanziari, si sono ritrovati l’estate scorsa, nella campagna toscana. Lì, a due passi dalla Torre di Pisa, ambientalisti estremi e gestori di hedge fund come l’olandese Willem Kadijk (che si accinge a lanciare un hedge basato su titoli antipanico) hanno recitato la loro profezia. Presto, hanno ripetuto, nonostante gli sforzi dei geologi, i pozzi renderanno sempre meno. E il mondo, visto da una pompa di benzina a secco, sarà davvero un brutto posto dove le visioni più apocalittiche diventeranno realtà. Anche quella di James Howard Kunstler, profeta travestito da geologo: anche Las Vegas, scrive Kunstler, sparirà quando i distributori chiuderanno i battenti. La Sodoma e Gomorra dei nostri giorni campa grazie all’aria condizionata a manetta, alle autostrade a otto corsie e ai viaggi aerei. Cioè, grazie al petrolio abbondante e a basso costo, privilegio destinato ad esaurirsi nel giro di pochi decenni, se non di anni. Preparatevi, si legge nel suo libro-testamento, “The long emergency”, ad un futuro in cui per muoversi da una periferia desolata, circondata da supermercati svuotati di merci cinesi (e non solo) ci vorranno giorni e tanto coraggio: perché un mondo improvvisamente svuotato di petrolio sarà un mondo più pericoloso, popolato di Blade Runner come nel romanzo di Philip K. Dick. La profezia ha fatto presa: da 18 mesi il libro di Kunstler figura nella classifica dei top 1000 di Amazon.com. Nello stesso periodo si sono già formati su Internet ottantadue gruppi con circa duemila membri organizzati attraverso Meetup.com, il portale nato per discutere il problema. O organizzare letture collettive di un altro “mostro sacro” del popolo dei “peak oil”, un predicatore che tiene dibattiti, ben retruibiti, alla City: Colin Campbell, geologo laureato ad Oxford, 40 anni di lavoro nell’industria Per alimentare un decimo delle macchine americane servirebbe un terzo dell’attuale produzione di zucchero e cereali negli Stati Uniti. Nel suo bestseller “The Coming Oil Crisis” sostiene che ormai è troppo tardi: il petrolio finirà prima che emerga una qualche convincente forma di alternativa energetica. Non tutti sono così pessimisti di fronte al pericolo del greggio energetico. Nella palestra del futuro vale pure l’immagine muscolare che viene dal governatore della California, Arnold Schwarzenegger, uno che di muscoli se ne intende. “Credo ci voglia un grosso sforzo
– ha detto – per consumare di meno ma ce la possiamo fare. Come non lo so, ma una cosa mi è chiara: se voglio perdere dieci chili entro l’estate devo darmi da fare in palestra. Certo, in quel caso il grasso protesta: non mi attaccare, io ti voglio bene. Ora sono le compagnie petrolifere a protestare. Fanno il loro mestiere”. Così Schwarzy, alla ricerca di una causa popolare e vincente, si schiera in vista del referendum di novembre, quando i cittadini della California dovranno pronunciarsi sulla “Proposition 87”, che prevede di imporre una tassa di estrazione su ogni barile che le compagnie petrolifere tirano fuori dai pozzi dello stato per un gettito, si prevede, di almeno quattro miliardi di dollari che, secondo il comitato che ha lanciato la proposta, dovranno essere spesi per incentivare l’uso dei carburanti alternativi. Una calamità, dicono naturalmente le Big Oil (Chevron, ExxonMobil, Shell e Occidental Petroleum) che, per scongiurare l’imposta, si sono tassate per 30 milioni di dollari per finanziare la campagna per il no. E c’è chi sospetta che la grande scoperta petrolifera di Chevron nel Golfo del Messico, annunciata con grande enfasi in settimana, sia una mossa pubblicitaria per migliorare l’immagine, pessima, delle Big Oil presso l’opinione pubblica Usa. Sul fronte dei nemici dei petrolieri, a sostegno del referendum, ci sono infatti nomi importanti: gente del cinema, come il produttore Stephen Bing, venture capitalist di Silicon Valley come John Doerr o Vinod Khosla, uno dei pionieri della new economy, tra i fondatori nel 1982 di Sun Microsystems e il primo a credere a suo tempo in Amazon o in Netscape, il navigatore da cui nacque Aol. Oggi, per lui, indiano di Phuna, come per i compagni di cordata, la nuova “ Big Thing” non passa dalla Grande Rete o da un chip. Ma dall’etanolo, ovvero dal carburante estratto dai cereali o dallo zucchero che, fino al 2012, potrà godere di incentivi governativi che lo rendono competitivo rispetto ai carburanti tradizionali. La scommessa, insomma, è di migliorare, entro cinque anni, tecniche e carburanti al punto da sfidare la concorrenza del petrolio. Purché, naturalmente, il prezzo del petrolio si mantenga alto, almeno sopra i 50 dollari. Altrimenti, il risveglio sarà amaro. L’indiano di Silicon Valley, uno che ha saputo ai tempi trasformare gli otto milioni affidatigli dai banchieri di San Francisco in due miliardi di dollari sonanti, sa però che la partita non si giocherà in laboratorio. In palio ci sono tanti soldi ma, più ancora la sicurezza nazionale. E non a caso l’indiano che ama l’etanolo ha arruolato un luogotenente d’eccezione: R. James Woolsey, 65 anni, già direttore della Cia tra il ’93 e il ’95. Chi meglio di lui per spiegare al Congresso che non si può star con le mani in mano in attesa di
una congiura di palazzo a Riyad o di un blitz dei pasdaran di Ahmadinejad. Khosla, nella sua battaglia per l’etanolo, è in buona compagnia: lo stesso Bill Gates ha investito nella Pacific Ethanol, di cui oggi è l’azionista numero uno. Certo, per uno come lui, un’operazione da 87 milioni di dollari (tanto c’è voluto per diventare l’azionista numero uno dell’azienda , per cui lui ha grandi ambizioni) è ben poca cosa. Ma la tendenza è chiara: l’America che ha vinto la sfida della produttività grazie al software e al Web accetta la sfida dell’energia. A suon di dollari, di venture capital, di speculazioni in Borsa e fuori. Con qualche sorpresa. Indovinate, ad esempio, chi ha finanziato (600 milioni di dollari) il prototipo della Tesla Roadstar, la prima auto elettrica con prestazioni degne di una Ferrari: da zero a 90 all’ora in quattro secondi, 200 all’ora la velocità massima, più di 340 dopo una ricarica supplementare. Si tratta nientemeno che di Larry Page e Sergej Brin, i due fondatori di Google, assieme ad una schiera di top manager di eBay e Pay-Pal. Anche loro, a modo loro, sono coinvolti nel grande rodeo dell’energia, la partita più globale che ci sia, la palestra per scienziati visionari, spie in pensione, tecnologi visionari e finanzieri a caccia della grande avventura.
La realtà è che si parla molto, come è giusto, degli scenari politici o strategici provocati dal caro greggio. E ancor di più si tenta di indovinare il giusto prezzo dell’oro nero, districandosi a breve tra le mosse di Caracas o di Teheran, oppure, a medio-lungo termine, tra le previsioni dei catastrofisti che annunciano la fine del petrolio (il “peak oil”, cioè il massimo della produzione è giàstato toccato per qualcuno, per altri lo sarà entro il 2010) e quelli che, come Leonardo Maugeri, brillante testa d’uovo dell’Eni che gode di audience mondiale, ci rassicura ricordandoci come in Iraq, dall’inizio del XX secolo, sono stati trivellati solo 2.500 pozzi contro un milione circa in Texas, a dimostrazione che il medio oriente (ma non solo) può darci ancora tante sorprese e preziosi barili (ce ne sono almeno 2.000 milioni di miliardi, il doppio di quanto prodotto finora secondo lo Us Geological Survey). Ma si parla poco degli effetti che la stagione dei rialzi sta provocando risvegliando ricerche vecchie e sepolte o eccitando nuovi appetiti in questa corsa alla pietra filosofale del XXI secolo che si svolge in tanti, spesso inattesi palcoscenici, talora frutto inatteso di una storia che arriva da lontano. Il film della moderna alchimia può cominciare dai laboratori del Mit, dove Gregory Stephanopoulos, docente di Ingegneria chimica, “allena” i microbi che dovranno trasformare le biomasse in etanolo da mettere nel motore. Anche questa, come spesso capita nella storia dell’innovazione (vi ricordate l’origine di Internet) è una storia che nasce dall’incrocio tra le esigenze del Pentagono e la genialità degli scienziati. Tutto comincia, infatti, nel 1950 quando l’esercito americano incarica un microbiologo, Elwyn T. Reese, di trovare un modo per annientare uno strano fungo tropicale che si era letteralmente mangiato le uniformi dei marine a Guadalcanal. Ma Reese si guardò bene dal fare il killer, convincendo Washington che era assai più sensato cercare di capire quali enzimi permettevano al fungo di spezzare le strutture molecolari dei tessuti o della cellulosa liberando cellule di zucchero. Da allora le ricerche sono andate avanti, con alterna fortuna e interesse. Fino ad oggi. Ora, infatti, quel microbo può cambiare il mondo, cancellando buona parte degli handicap che frenano lo sviluppo dell’etanolo. Per alimentare un decimo del parco macchine americano, infatti,sarebbe necessario un terzo dell’attuale produzione di cereali Usa. E il discorso è ancora più complicato per l’Europa: per sostituire il 5,75 per cento del carburante usato nella Ue, occorre il 19 per cento della superficie arabile dell’Unione europea. Tutto potrebbe cambiare, però, se il nostro microbo fosse in grado di trasformare in zucchero da carburante tutti gli scarti del grano o di altre biomasse. A crederci sono in tanti, almeno in trenta. E tra questi c’è la Iogen , una società dello Iowa che già oggi produce etanolo da cellulosa, ma ancora a prezzi troppo elevati. Ma attenzione. In Iogen, benedetta dai programmi dello stesso George W. Bush, c’è nientemeno che Goldman Sachs, il colosso delle banche d’affari Usa. E a volere un forte investimento della banca nel settore è stato nientemeno che Henry Hank Paulson, oggi segretario del Tesoro a Washington. Non è certo l’unico caso di matrimonio tra Wall Street e l’ecocombustibile. Anzi, la storia di maggior successo l’ha scritta finora un giovane banchiere di Morgan Stanley, Leigh Abramson, oggi 37 anni. Quando Abramson, laureato in storia all’Amherst Institute è approdato a Peoria, Illinois, per studiare un’eventuale acquisto (a mo’ di garanzia) di una quota della Aventine Renewable Energy, non sapeva nemmeno cosa fosse l’Mtbe, il biocombustibile prodotto da metanolo di sintesi. Ma il prezzo era buono , il venditore, travolto dallo scandalo Enron, costretto a vendere a meno della metà del costo sostenuto per trasformare un vecchio zuccherificio in un impianto per la benzina verde. E dopo otto mesi di clausura a Pekin, Illinois, Abramson convinse i superiori a sospendere i 66 milioni richiesti: oggi Aventine vale in Borsa poco meno di 800 milioni di dollari. Storie di soldi, oltre che di tecnologia. Come quella della Platinum Energy Resources di Houston, fondata da Barry Kostiner, 34 anni, faccia d’angelo, fegato d’acciaio. Di petrolio, confessa, ne sa poco. Ma con una laurea in matematica del Mit in saccoccia, Kostiner ha capito che la fortuna saprà arridere a chi troverà il sistema di far fruttare in quattrini sonanti il greggio che sta ancora sottoterra. E ha inventato un sistema niente male: lo Spac (special purpose acquisition company). Si tratta di società in cui si investe senza sapere come e dove i quattrini verranno investiti. Solo in un secondo momento, il finanziere sceglierà la “preda” (con l’assenso di un comitato di garanti). In questo modo Kostiner ha raccolto più di 100 milioni di dollari al Pink Sheets, il mercato più speculativo tra le Borse Usa, dove, dice la Sec, “sono quotate le società più rischiose”e li ha in vestiti in una piccola società petrolifera, la Tandem Energy che possiede alcune vecchie concessioni mai sfruttare in Texas. Sembra la storia di James Dean nel “Gigante”: speriamo che Kostiner non si sfracelli pure lui sulle strade del Texas. Difficile trovare un matematico altrettanto simpatico. Ma guai a pensare che la corsa al Santo Graal dell’energia pulita sia cosa appannaggio solo di università Usa o di centri di potere della finanza Usa. Certo, alla caccia grossa partecipano gli scienziati che hanno fatto gavetta nell’amministrazione militare. Come Erik Straser, solo 36 anni ma un passato ai segretissimi National laboratory di Los Alamos lasciati per sviluppare, con i quattrini raccolti dal solito venture capitalist batterie ad energia solare. Ma la soluzione può venire dal carbone ripulito secondo i procedimenti studiati dagli scandinavi della Vattenfall. O nascondersi nella savana di Secunda, a due ore e mezza di jeep da Johannesbugh dove i moderni alchimisti della Sasol trasformano il carbone in carburante. Non stupisca la scoperta di un Sud Africa ad alta tecnologia. Per decenni gli scienziati hanno scartato, perché troppo costosa, la pista della trasformazione del carbone in benzina o gasolio. Ma il Sud Africa dell’apartheid, colpito dall’embargo dell’Opec, negli anni Settanta ha investito una fortuna (sei miliardi di dollari dell’epoca), per procurarsi il carburante. Oggi, a questi prezzi, quell’investimento si è rivelato una fortuna. E Sasol ha appena chiuso un contratto monstre con la Cina: 27 mini impianti da costruire nella Mongolia cinese, a ridosso delle miniere di carbone. Già, i cinesi, i nuovi consumatori che hanno sconvolto la mappa del petrolio più degli sceicchi o di Hugo Chávez. Sono affamati di petrolio, non dimenticano i buoni affari. Hanno cominciato a produrre etanolo, grazie all’aiuto del Brasile e agli incentivi del governo. All’improvviso, per merito di centinaia di impianti “pirata”cresciuti per sfruttare gli incentivi di stato, il Drago è diventato il secondo produttore al mondo e il primo esportatore di etanolo. Perché gli aiuti al settore di Washington (che, per le pressioni dei farmers, im-Il Brasile è l’unico paese al mondo dove nelle stazioni di servizio è possibile scegliere tra carburante tradizionale ed etanolo semplice porta con il contagocce dal Brasile) si sono rivelati una calamita formidabile per i petrolieri del grano di Pechino. Anche in Brasile la fortuna è nata da una decisione “politically uncorrect”. La decisione di puntare su una soluzione autarchica nacque negli anni Settanta, sotto il tallone del regime militare. Oggi il Brasile è l’unico paese al mondo dove, alla stazione di servizio, si può scegliere tra la benzina normale, la miscela (etanolo più benzina) o l’etanolo semplice. E nella sterminata prateria del sud il colosso di stato, la Petrobrás, ha costruito la fabbrica di Araucária, un impianto così importante che Ignacio Lula da Silva l’ha scelto, nello scorso giugno, come palcoscenico per annunciare, in via ufficiale, la sua candidatura per un secondo mandato presidenziale. Difficile trovare un luogo più solenne: quel giorno , infatti, cominciava in via ufficiale pure la produzione dell’H-bio, il brevetto più importante mai uscito dai laboratori brasiliani. H-Bio, in sintesi, è un estratto dell’olio di soia o di girasole che, mescolato con un comune diesel, può funzionare da carburante per un qualsiasi motore, senza alcuna modifica: il sogno di liberarsi dalla dittatura del petrolio, insomma, non è più remoto dell’incubo di restare a secco. Perché, se non avete ancora deciso se essere ottimisti o pessimisti, se credere che il “peak oil” (cioè il punto massimo della produzione) sia stato ormai raggiunto o no, potete divertirvi con i tanti blog sulla materia (the oil drum, Aspo, Energy Bulletin per citare i più noti). Troverete di tutto: ingegneri ecologisti a favore dell’eolico, ecologisti animalisti che denunciano i crimini dell’eolico (le pale delle turbine ammazzano molti uccelli protetti); repliche degli ingegneri che sostengono che i gatti uccidono più delle pale; altri animalisti che scendono in difesa dei gatti. Difficile raccapezzarsi. Ma una cosa emerge: il petrolio andrà su e giù (facile che, nel prossimo futuro vada giù. A Teheran piacendo). Ma quella dell’energia non è una bolla come quella della tecnologia, assicurano Khosla e amici, gente che di bolle se ne intende.
Monday, September 11, 2006
Poesia e mass media: nessun prigioniero
La morte della poesia ad opera della comunicazione di massa: Montale ed il futuro; un articolo sul Foglio di Alfonso Berardinelli, che spiega molte cose....
Eugenio Montale amava la poesia? A giudicare dai fatti (vita e opere) nessuno potrebbe negarlo. Ma la cosa certa è che non amava la poesia come la si ama oggi in Italia. Il suo amore non lo cantava né lo vantava. Era un uomo cauto, inibito (sì!), prudente, reticente, poco effusivo, terrorizzato dalla retorica e da ogni tipo di discorso declamabile “ore rotundo”. Quando editori, divulgatori e insegnanti devono decidere che cosa è la poesia italiana del Novecento, scelgono Montale. Se deve essere nominato un solo autore, quello è lui: il più tipico, autorevole e studiato portavoce della poesia moderna in Italia. A distanza, alle sue spalle, un secolo prima, resta Leopardi. Nel primo e secondo Novecento, poco prima e poco dopo di lui, ci sono Umberto Saba e Pier Paolo Pasolini. Tutti e due di una famiglia diversa: più aperti, generosi, diffusi, imperfetti perché portati a mettere in versi qualunque cosa. Poeti premoderni (Saba) o postmoderni (Pasolini), sostanzialmente in polemica con la modernità, con il simbolismo, con l’ermetismo, con l’eccesso di condensazione lirica, con ogni tipo di oscurità, di bizzarria, di formalismo. Anche la modernità di Montale era polemica. Non gli piacevano le poetiche, le intenzioni, i gruppi, le avanguardie, il ribellismo, il titanismo, la poesia pura, l’ottimismo espressivo, l’engagement ideologico e politico. A Montale ovviamente non piaceva quasi nulla. La sua forza era una forza di negazione, di stanziamento, focalizzazione assoluta del dettaglio, arte del mettere idee e pensiero dentro un’organizzazione verbale scandita e pietrificata… Non voglio mettermi a parlare di Montale! La bibliografia critica che si è accumulata sulla sua opera è mostruosa. Almeno in Italia, credo che ormai superi per quantità quella su quasi tutti i grandi classici. Forse solo su Dante e Leopardi si è scritto di più. Mi sono messo a parlare di Montale al solo scopo di notare un dettaglio: Montale (più o meno convenzionalmente) è la poesia italiana del Novecento, ma da circa trent’anni la poesia italiana esiste perché lo ignora: come idea e come comportamento, come teoria e come prassi, non ha niente a che fare con Montale. Neppure con il Montale prolifico e “chiacchierone” degli ultimi anni, da “Satura” (1971) in poi. Il dettaglio non abbastanza notato, la piccola cosa piuttosto trascurata è che quasi tutti i poeti italiani di oggi troverebbero mostruosi e criminosi lo scetticismo e le cautele che Montale ebbe ogni volta che parlò di poesia. Della propria e di quella degli altri. Mai Montale avrebbe incoraggiato la produttività poetica. Se soltanto sfogliamo i suoi scritti “Sulla poesia”, una raccolta a cura di Giorgio Zampa uscita da Mondadori nel 1970, ricordiamo subito che il tono-Montale era stato caratteristico di tutta la generazione post-crociana e post-dannunziana. Nessuna enfasi, mai. Fuga dalle giustificazioni filosofiche della poesia in generale (Croce) e fuga dalla retorica (presente anche in Ungaretti) della poesia come entusiasmo e fuoco lirico. In ogni sua dichiarazione e valutazione sulla poesia e sui poeti, Montale fu prudente, avaro, scettico (era il suo modo di essere appassionato, un modo
oggi inimmaginabile). Per lui, come la sua famosa anguilla, il poeta diventa se stesso risalendo la corrente. Sono gli ostacoli, sono le condizioni avverse che permettono alla poesia di fecondare se
stessa, di vivere e rinascere, di sprigionare le sue (ogni volta inaspettate e disperate) energie vitali. Oggi che i sessanta o seicento poeti italiani cercano l’idillio della buona accoglienza, sono assetati di incoraggiamenti e di giustificazioni, evitano il rischio e preferiscono non essere giudicati, oggi rileggere Montale che parla di poesia farebbe scandalo. Sembrerebbe un attentato
alla comunità o setta o corporazione dei poeti , a cui ( stranamente) ogni poeta sente ormai di appartenere. L’individualismo tradizionale dei poeti sembra tramontato. Si rivendicano diritti da difendere in gruppo e in massa. Montale, viceversa, parlando di poesia, parlava sempre di solitudine, di lentezza, di imprevedibilità, di non-programmabilità. Soprattutto a partire dagli anni sessanta di esistenza, perfino di sopravvivenza, della poesia in una società di massa.
Nel suo discorso del 1975, quando ricevette il premio Nobel, scrisse: “Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione (…) Di qui l’arte nuova del nostro tempo che è lo spettacolo. Un’esibizione non necessariamente teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera una sorta di massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia”.
E’ così anche oggi. I lettori hanno continuamente bisogno di speciali pratiche di rianimazione. Le loro facoltà di attenzione richiedono sempre un rivitalizzante “massaggio psichico”. Chi leggerebbe se non ci fossero ogni estate gli spettacoli e le esibizioni letterarie? “In tale esibizionismo isterico” si chiedeva Montale trent’anni fa: “quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia?”. La risposta era che questa nuova “arte spettacolo”, l’arte a tutti i costi di massa , “l’arte che vuole produrre una sorta di massaggio fisico-psichico su un ipotetico fruitore ha dinanzi a sé infinite strade perché la popolazione del mondo è in continuo aumento. Ma il suo limite è il vuoto assoluto (…) milioni di poeti scrivono versi che non hanno nessun rapporto con la poesia. Ma questo significa poco o nulla”. Anche quando è apocalittico, Montale
lo è in stile, possibilista e prudente. La storia umana per lui somiglia di più alla storia naturale che alla Storia con la maiuscola dello storicismo. Perciò non c’è colpo senza contraccolpo, anche
se si tratta di probabilità e non di conseguenze prevedibili: “Non è credibile che la cultura di massa per il suo carattere effimero e fatiscente non produca, per necessario contraccolpo, una
cultura che sia anche argine e riflessione”. Si tratta di cicli. La cultura di massa, la produzione per il consumo veloce, arrivate alle arti più tradizionali, ormai socialmente inutili e inoffensive come la poesia, forse metteranno in azione anticorpi: il bisogno di isolamento, di silenzio, di consumo lento e riflesso. L’interessante nel modo che ha Montale di parlare di poesia non è il pessimismo, né l’ottimismo. E’ piuttosto l’empirismo, la mancanza di fiducia incondizionata. Niente viene escluso in linea di principio, neppure il rigetto degli effetti negativi del progresso e
della “democratizzazione delle arti”. La poesia non viene considerata un valore come pretenderebbero quei “milioni di poeti”. Nel discorso per il Nobel, Montale dice che in un primo momentoaveva pensato a un titolo più preciso:“Potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa?”.Le comunicazioni di massa lo ossessionavano.Le sentiva come una minaccia radicale non tanto per la “produzione” di poesia, quanto per i presupposti culturali necessari a scriverla e soprattutto a leggerla. Insiste: “Nell’attuale civiltà consumistica (…) nella civiltà dell’uomo robot, quale può essere la sorte della poesia?”. Montale ragionava come un critico liberale della società di massa, come un borghese senza fedi positive, come un individuo che sente la fragilità dell’individuo di fronte ai processi di socializzazione totalizzante. Il suo solo impegno è l’autodifesa. Si sente che ha letto Ortega y Gassett, Paul Valéry, Thomas S. Eliot, Aldous Huxley. Pensa al peggio, ma nel momento in cui è tentato da qualche ipotesi apocalittica, si ritrae, evita i toni allarmistici, modera le affermazioni perentorie. Scetticamente rifiuta di credere che nella storia umana agisca una logica ineluttabile che porta sempre dal meglio al peggio. Neppure lo storicismo alla rovescia lo convince. Così, contro il pessimismo sistematico, Montale ricorre all’ironia. La poesia, dice, forse è diventata indistruttibile proprio per ragioni di quantità, perché ce n’è troppa. Tutti la scrivono e democraticamente è legittimo che la scrivano: “La poesia è l’arte tecnicamente alla portata di tutti. Basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto (…). L’incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda”. Potrebbe darsi che vada distrutta l’opera di poeti di valore e sopravviva quella degli innumerevoli scriventi, “cioè pseudo versi privi di ogni senso”. Gli incendi sono sprovvisti di criteri critici. C’è un solo momento in cui Montale si lascia andare alla fede: “ La grande lirica può morire, rinascere , rimorire, ma resterà sempre una delle vette dell’anima umana”. Fede prudente e ambigua anche questa. Il punto è che neppure l’eventuale morte storica della poesia può in sostanza minacciare il valore della grande poesia che è stata scritta in passato. Ma le diverse morti ed eventuali rinascite della poesia sono messe nel conto. Nessuna linearità, nessuna garanzia di sopravvivenza o di valori poetici che rimangano inalterati ad ogni generazione. Le interruzioni possono essere continue. Del resto il suo empirismo non fa mai dimenticare a Montale che i generi e le forme letterarie sono in metamorfosi e quello che sparisce da una parte può ricomparire dall’altra. Il sistema dei generi prevede continue migrazioni da un modo di espressione a un altro. Una volta si usavano la terzina e l’ottava per scrivere vasti poemi narrativi. Dall’Ottocento in poi queste tecniche sono andate fuori uso. Non è detto che la migliore poesia venga sempre scritta in versi: “Resta sempre dubbioso in quali limiti e confini ci si muove parlando di poesia. Molta poesia d’oggi si esprime in prosa. Molti versi d’oggi sono prosa e cattiva prosa”. Le più convincenti diagnosi sulle condizioni di esistenza della poesia Montale le fa quando parla di se stesso. Dichiara spesso che il nome di poeta lo mette in imbarazzo. Ripete che non si è mai sforzato di esserlo. Essere poeta non è stato per lui un programma. In un’intervista rilasciata nel 1960 alla rivista “Quaderni milanesi” dice: “Io, sforzi, non ne ho mai fatti (…) è accaduto che di fronte alla massiccia produzione in versi che ha invaso il nostro paese, e non solo il nostro, io abbia sentito intollerabile il nome di poeta. Credo che chi, come me, ha scritto versi (pochi) per 35 anni abbia il dovere di starsene alla finestra. Può darsi che io ricominci; può darsi il contrario. Aggiungo che dal ’48 io sono un giornalista e mi manca assolutamente il tempo per scrivere cose mie. Scrivo per gli altri. Non escludo un giorno di poter ancora scrivere per me. Ma quando?”. Anche sulla critica Montale ha le sue opinioni. Molto semplici e molto attuali. In un’autointervista scritta per “Quaderni della radio” (XI, ERI 1951) arriva ad affermare che “La critica letteraria ha quasi cessato di esistere in Italia e anche altrove. I quotidiani si occupano solo di arti organizzate (teatro, cinema, arti visive) come professioni (…). Anni fa la critica si era rifugiata nelle piccole riviste letterarie; ma ora non esistono quasi più riviste del genere. Esistono solo grossi settimanali illustrati pieni di pettegolezzi, nei quali trova poco spazio la critica letteraria (…) E’ naturale che una merce poco richiesta tenda a scomparire; ma in questo caso si ha l’impressione che alla poca richiesta corrisponda anche una certa svogliatezza nell’offerta. Il pubblico non chiede nulla anche perché non gli si offre nulla (…) se riapparissero i critici si diffonderebbe ancora il gusto della critica. Un’arte senza una critica parallela muore”. Purché sia critica e non informazione pubblicitaria, né semplice maldicenza privata. Siamo ancora allo stesso punto di allora. La critica ogni tanto sembra morta. Eppure basta che si dica in pubblico, con buoni argomenti, qualche verità proibita perché quel corpo malato si rianimi. Lo stesso Montale indicò che il problema era esattamente nel passaggio dalla critica orale (o maldicenza privata) alla critica scritta e pubblica, in cui il giudizio deve essere costruito su esempi, prove, argomentazioni convincenti e fondate: “In qualche modo bisogna far sì che la critica scritta e stampata sopravviva. Quella che ancora resta, in forme spicciole e orali, nelle conversazioni di chi segue le novità letterarie, dimostra che il buon gusto non è naufragato ma che oggi si trova raramente chi voglia dire la verità. I critici sono uomini e non vogliono farsi troppi nemici. Una volta non era così. Come mai non era così?”. Dopo aver detto in breve quasi tutto l’essenziale, a questa domanda conclusiva Montale non risponde. Forse ci saranno, aggiunge, delle ragioni economiche. Le recensioni dei veri e propri critici letterari non sono molto apprezzate. Critico letterario vero e proprio è chi mette in gioco il proprio “onore” intellettuale parlando di autori contemporanei e magari di libri appena usciti. Ad un tale individuo vengono di solito preferiti i recensori che fanno favori e il cui salario consiste nel ricevere favori in cambio. Il fatto è che le professioni intellettuali sono (erano) fondate su un certo individualismo, su un rifiuto del branco, della corporazione, della complicità. Sulle orme del grande Antonio Gramsci ci siamo un po’ troppo abituati a ragionare da intellettuali in quanto gruppi. Gli intellettuali però sono e dovrebbero essere anzitutto individui: indocili, poco controllabili e in genere piuttosto solitari. Uno scrittore che in una riunione di scrittori non si senta ancora più solo, non è uno scrittore, credo.
oggi inimmaginabile). Per lui, come la sua famosa anguilla, il poeta diventa se stesso risalendo la corrente. Sono gli ostacoli, sono le condizioni avverse che permettono alla poesia di fecondare se
stessa, di vivere e rinascere, di sprigionare le sue (ogni volta inaspettate e disperate) energie vitali. Oggi che i sessanta o seicento poeti italiani cercano l’idillio della buona accoglienza, sono assetati di incoraggiamenti e di giustificazioni, evitano il rischio e preferiscono non essere giudicati, oggi rileggere Montale che parla di poesia farebbe scandalo. Sembrerebbe un attentato
alla comunità o setta o corporazione dei poeti , a cui ( stranamente) ogni poeta sente ormai di appartenere. L’individualismo tradizionale dei poeti sembra tramontato. Si rivendicano diritti da difendere in gruppo e in massa. Montale, viceversa, parlando di poesia, parlava sempre di solitudine, di lentezza, di imprevedibilità, di non-programmabilità. Soprattutto a partire dagli anni sessanta di esistenza, perfino di sopravvivenza, della poesia in una società di massa.
Nel suo discorso del 1975, quando ricevette il premio Nobel, scrisse: “Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione (…) Di qui l’arte nuova del nostro tempo che è lo spettacolo. Un’esibizione non necessariamente teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera una sorta di massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia”.
E’ così anche oggi. I lettori hanno continuamente bisogno di speciali pratiche di rianimazione. Le loro facoltà di attenzione richiedono sempre un rivitalizzante “massaggio psichico”. Chi leggerebbe se non ci fossero ogni estate gli spettacoli e le esibizioni letterarie? “In tale esibizionismo isterico” si chiedeva Montale trent’anni fa: “quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia?”. La risposta era che questa nuova “arte spettacolo”, l’arte a tutti i costi di massa , “l’arte che vuole produrre una sorta di massaggio fisico-psichico su un ipotetico fruitore ha dinanzi a sé infinite strade perché la popolazione del mondo è in continuo aumento. Ma il suo limite è il vuoto assoluto (…) milioni di poeti scrivono versi che non hanno nessun rapporto con la poesia. Ma questo significa poco o nulla”. Anche quando è apocalittico, Montale
lo è in stile, possibilista e prudente. La storia umana per lui somiglia di più alla storia naturale che alla Storia con la maiuscola dello storicismo. Perciò non c’è colpo senza contraccolpo, anche
se si tratta di probabilità e non di conseguenze prevedibili: “Non è credibile che la cultura di massa per il suo carattere effimero e fatiscente non produca, per necessario contraccolpo, una
cultura che sia anche argine e riflessione”. Si tratta di cicli. La cultura di massa, la produzione per il consumo veloce, arrivate alle arti più tradizionali, ormai socialmente inutili e inoffensive come la poesia, forse metteranno in azione anticorpi: il bisogno di isolamento, di silenzio, di consumo lento e riflesso. L’interessante nel modo che ha Montale di parlare di poesia non è il pessimismo, né l’ottimismo. E’ piuttosto l’empirismo, la mancanza di fiducia incondizionata. Niente viene escluso in linea di principio, neppure il rigetto degli effetti negativi del progresso e
della “democratizzazione delle arti”. La poesia non viene considerata un valore come pretenderebbero quei “milioni di poeti”. Nel discorso per il Nobel, Montale dice che in un primo momentoaveva pensato a un titolo più preciso:“Potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa?”.Le comunicazioni di massa lo ossessionavano.Le sentiva come una minaccia radicale non tanto per la “produzione” di poesia, quanto per i presupposti culturali necessari a scriverla e soprattutto a leggerla. Insiste: “Nell’attuale civiltà consumistica (…) nella civiltà dell’uomo robot, quale può essere la sorte della poesia?”. Montale ragionava come un critico liberale della società di massa, come un borghese senza fedi positive, come un individuo che sente la fragilità dell’individuo di fronte ai processi di socializzazione totalizzante. Il suo solo impegno è l’autodifesa. Si sente che ha letto Ortega y Gassett, Paul Valéry, Thomas S. Eliot, Aldous Huxley. Pensa al peggio, ma nel momento in cui è tentato da qualche ipotesi apocalittica, si ritrae, evita i toni allarmistici, modera le affermazioni perentorie. Scetticamente rifiuta di credere che nella storia umana agisca una logica ineluttabile che porta sempre dal meglio al peggio. Neppure lo storicismo alla rovescia lo convince. Così, contro il pessimismo sistematico, Montale ricorre all’ironia. La poesia, dice, forse è diventata indistruttibile proprio per ragioni di quantità, perché ce n’è troppa. Tutti la scrivono e democraticamente è legittimo che la scrivano: “La poesia è l’arte tecnicamente alla portata di tutti. Basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto (…). L’incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda”. Potrebbe darsi che vada distrutta l’opera di poeti di valore e sopravviva quella degli innumerevoli scriventi, “cioè pseudo versi privi di ogni senso”. Gli incendi sono sprovvisti di criteri critici. C’è un solo momento in cui Montale si lascia andare alla fede: “ La grande lirica può morire, rinascere , rimorire, ma resterà sempre una delle vette dell’anima umana”. Fede prudente e ambigua anche questa. Il punto è che neppure l’eventuale morte storica della poesia può in sostanza minacciare il valore della grande poesia che è stata scritta in passato. Ma le diverse morti ed eventuali rinascite della poesia sono messe nel conto. Nessuna linearità, nessuna garanzia di sopravvivenza o di valori poetici che rimangano inalterati ad ogni generazione. Le interruzioni possono essere continue. Del resto il suo empirismo non fa mai dimenticare a Montale che i generi e le forme letterarie sono in metamorfosi e quello che sparisce da una parte può ricomparire dall’altra. Il sistema dei generi prevede continue migrazioni da un modo di espressione a un altro. Una volta si usavano la terzina e l’ottava per scrivere vasti poemi narrativi. Dall’Ottocento in poi queste tecniche sono andate fuori uso. Non è detto che la migliore poesia venga sempre scritta in versi: “Resta sempre dubbioso in quali limiti e confini ci si muove parlando di poesia. Molta poesia d’oggi si esprime in prosa. Molti versi d’oggi sono prosa e cattiva prosa”. Le più convincenti diagnosi sulle condizioni di esistenza della poesia Montale le fa quando parla di se stesso. Dichiara spesso che il nome di poeta lo mette in imbarazzo. Ripete che non si è mai sforzato di esserlo. Essere poeta non è stato per lui un programma. In un’intervista rilasciata nel 1960 alla rivista “Quaderni milanesi” dice: “Io, sforzi, non ne ho mai fatti (…) è accaduto che di fronte alla massiccia produzione in versi che ha invaso il nostro paese, e non solo il nostro, io abbia sentito intollerabile il nome di poeta. Credo che chi, come me, ha scritto versi (pochi) per 35 anni abbia il dovere di starsene alla finestra. Può darsi che io ricominci; può darsi il contrario. Aggiungo che dal ’48 io sono un giornalista e mi manca assolutamente il tempo per scrivere cose mie. Scrivo per gli altri. Non escludo un giorno di poter ancora scrivere per me. Ma quando?”. Anche sulla critica Montale ha le sue opinioni. Molto semplici e molto attuali. In un’autointervista scritta per “Quaderni della radio” (XI, ERI 1951) arriva ad affermare che “La critica letteraria ha quasi cessato di esistere in Italia e anche altrove. I quotidiani si occupano solo di arti organizzate (teatro, cinema, arti visive) come professioni (…). Anni fa la critica si era rifugiata nelle piccole riviste letterarie; ma ora non esistono quasi più riviste del genere. Esistono solo grossi settimanali illustrati pieni di pettegolezzi, nei quali trova poco spazio la critica letteraria (…) E’ naturale che una merce poco richiesta tenda a scomparire; ma in questo caso si ha l’impressione che alla poca richiesta corrisponda anche una certa svogliatezza nell’offerta. Il pubblico non chiede nulla anche perché non gli si offre nulla (…) se riapparissero i critici si diffonderebbe ancora il gusto della critica. Un’arte senza una critica parallela muore”. Purché sia critica e non informazione pubblicitaria, né semplice maldicenza privata. Siamo ancora allo stesso punto di allora. La critica ogni tanto sembra morta. Eppure basta che si dica in pubblico, con buoni argomenti, qualche verità proibita perché quel corpo malato si rianimi. Lo stesso Montale indicò che il problema era esattamente nel passaggio dalla critica orale (o maldicenza privata) alla critica scritta e pubblica, in cui il giudizio deve essere costruito su esempi, prove, argomentazioni convincenti e fondate: “In qualche modo bisogna far sì che la critica scritta e stampata sopravviva. Quella che ancora resta, in forme spicciole e orali, nelle conversazioni di chi segue le novità letterarie, dimostra che il buon gusto non è naufragato ma che oggi si trova raramente chi voglia dire la verità. I critici sono uomini e non vogliono farsi troppi nemici. Una volta non era così. Come mai non era così?”. Dopo aver detto in breve quasi tutto l’essenziale, a questa domanda conclusiva Montale non risponde. Forse ci saranno, aggiunge, delle ragioni economiche. Le recensioni dei veri e propri critici letterari non sono molto apprezzate. Critico letterario vero e proprio è chi mette in gioco il proprio “onore” intellettuale parlando di autori contemporanei e magari di libri appena usciti. Ad un tale individuo vengono di solito preferiti i recensori che fanno favori e il cui salario consiste nel ricevere favori in cambio. Il fatto è che le professioni intellettuali sono (erano) fondate su un certo individualismo, su un rifiuto del branco, della corporazione, della complicità. Sulle orme del grande Antonio Gramsci ci siamo un po’ troppo abituati a ragionare da intellettuali in quanto gruppi. Gli intellettuali però sono e dovrebbero essere anzitutto individui: indocili, poco controllabili e in genere piuttosto solitari. Uno scrittore che in una riunione di scrittori non si senta ancora più solo, non è uno scrittore, credo.
Friday, September 08, 2006
Come si misura la felicità?
Quando si stabilisce se si è raggiunto un certo grado di felicità? Ed un sistema economico a cosa serve, se non a generare un sentimento di felicità crescente? Ecco un ottimo articolo uscito su il manifesto sul tema:
(In)sostenibili felicità
Un nuovo indicatore del benessere dei paesi: Pil più la soddisfazione, diviso per le risorse
Si sta creando una grande confusione sulla questione della felicità: tre settimane fa la notizia che il miglior paese al mondo era Vanuatu, 80 isole nel Pacifico. Ma nei giorni scorsi ecco un'altra classifica, dove questa volta vince la Danimarca, con la Svizzera a ruota, mentre Vanuatu scende al 24simo posto. Quanto all'Italia era al numero 66 in un elenco e al 50 nel secondo.
Eppure la felicità, o se si preferisce la soddisfazione di vita, è cosa troppo seria per lasciarla ai titoli estivi dei quotidiani. Il tema è di quelli cruciali per la nostra civiltà ed è divenuto negli ultimi dieci anni argomento di studi importanti, all'intreccio tra filosofia, psicologia, scienze sociali ed economia. Con qualche fatica metodologica peraltro, tanto che nemmeno sulle parole ci si intende appieno: c'è chi parla di felicità (happiness), chi si soddisfazione di vita (satisfaction with life), chi di star bene (well being). In ogni caso è qualcosa che riguarda sia le condizioni materiali di una persona (o di in un paese) che la percezione soggettiva riguardo alla propria vita. Ovviamente non è un valore ben netto come l'altezza o il reddito. La si valuta, la felicità, semplicemente domandando alle persone: «Considerando la vostra vita nel suo complesso quanto vi considerate soddisfatti?». Un altro metodo consiste nel valutare lo stato d'animo corrente, per esempio: «Quale percentuale di tempo nella giornata di ieri siete stati di cattivo umore?». Una qualche verifica si può fare incrociando le dichiarazioni soggettive con le opinioni che gli altri hanno della felicità di una persona: «Quanto giudichi felice Giovanna?».
Tutto questo interesse dipende anche dalla giusta sfiducia che l'opinione pubblica, e anche gli studiosi, ormai hanno verso un trattamento solo economico, o peggio economicista, del benessere delle nazioni. Che il prodotto interno lordo (Pil o Gdp, in inglese) sia un indicatore grossolano e persino truffaldino sembra ormai certo. Per esempio se un paese risulta molto inquinato e dunque deve investire molto per ripulirsi, allora quelle spese aumentano il Pil, ma sembra difficile sostenere che ciò sia un'indice di benessere. Per questo vari tentativi di correzione sono stati proposti, per esempio sottraendo da quelle cifre le esternalità negative. Le cifre sul Pil, poi, non danno mai conto della distribuzione del reddito all'interno di un paese, affogando le disuguaglianze in una media statistica.
In ogni caso c'è una curva paradossale, ormai ben nota: reddito individuale (o nazionale) e felicità per un po' vanno di pari passo, ma poi si disaccoppiano perché, una volta raggiunto un discreto benessere, un ulteriore aumento della ricchezza non produce un pari aumento di felicità, anzi talora succede persino il contrario. Vale per i singoli individui e anche per le società nel suo complesso. In molte culture, poi, il reddito individuale offre soddisfazione psicologica non tanto in valore assoluto quanto come misura della gerarchia sociale: la cosa importante è essere più ricchi di amici e conoscenti, ma se l'economia tira e tutti si arricchiscono, allora che gusto c'è?
Un altro indice usato di frequente è l'HDI, Human Development Index, usato dalle Nazioni unite per sfuggire alla trappola del solo fatturato. Venne creato nel 1990 dall'economista pakistano Mahbub ul Haq, a partire dalle ricerche del premio Nobel Amartya Sen; tiene conto del reddito pro capite, dell'aspettativa di vita e delle opportunità di conoscenza e istruzione. In questo caso il Pil c'entra indirettamente (nel reddito individuale) ma viene associato ad altri valori che riguardano la qualità della vita di un paese. Un apposito Rapporto annuale viene depositato ogni anno e vede ai primi posti paesi occidentali ma intermedi, come Norvegia, Canada, Australia, Svezia: alto reddito e stato sociale.
L'indicatore più interessante, a opinione di chi scrive, è stato proposto di recente dalla New Economics Foundation, fondazione inglese per la nuova economia, che ha lanciato il suo Happy Planet Index, e insieme ad esso un vero «Manifesto Globale per un pianeta più felice», scritto con l'associazione Amici della Terra.
L'HPI guarda le cose del mondo in una maniera assai diversa dai precedenti indici e si forma a partire da tre fattori: 1. la speranza di vita alla nascita degli abitanti; 2. la soddisfazione di vita soggettivamente valutata dagli stessi con dei sondaggi, in una scala da uno a dieci; 3. un parametro chiamato «orma ecologica» (ecological footprint) che misura quante risorse naturali un certo paese consuma e che di solito è espresso in ettari. I primi due numeri vengono moltiplicati tra di loro, il che dà un'idea di quanti anni felici un paese abbia, ma divisi per il terzo, per tener conto del prezzo ambientale. In fondo l'idea è semplice: si tratta di misurare quanto un certo input (le risorse naturali) si trasforma, producendo un certo output, dove il risultato che conta non è il fatturato globale, ma la vita delle persone, che sia lunga e felice. Lo diceva già Aristotele, ma il progresso moderno sembra essersene dimenticato.
In questo sistema a ingresso-uscita, tanti altri fattori che di solito vengono considerati come dei fini in sé sono invece soltanto dei mezzi al fine di una vita felice.
Dunque la crescita economica è solo un mezzo, e così il mercato. E lo stesso vale per educazione, sistema sanitario, livello di consumi, occupazione, forme di governo, famiglia, tecnologia. Sono strumenti da potenziare, in opportune miscele, rispetto a quello che dovrebbe essere lo scopo vero e sensato di ogni politica e di ogni governo.
Ma non a ogni costo perché mettendo a denominatore il consumo ambientale, i ricercatori introducono un requisito di sostenibilità: se per produrre una certa soddisfazione di vita si consuma troppa natura, allora quella ottenuta è una felicità effimera, di breve durata. Per esempio la Norvegia si trova al primo posto nell'indice di sviluppo umano (il citato HDI), ma ha un footprint molto elevato e perciò nell'indice planetario scende in posizione 115. Ben peggio della nostra Italia, dunque, perché se la durata della vita è circa uguale nei due paesi e la contentezza norvegese è appena un po' superiore alla nostra (un valore di 7.4 contro i nostri 6.9), l'impatto ambientale italico è solo di 3.8 contro un 6.2 scandinavo.
Ovviamente nessuno degli indicatori rappresenta la verità, ma ognuna delle diverse metodologie incorpora più o meno esplicitamente dei valori diversi con cui guardare lo stato del mondo. Va notato che gli stessi autori dell' Happy Placet Index, hanno voluto provocatoriamente aggiungere una correzione grafica a mano sul loro rapporto, reintitolandolo (un)Happy Placet Index, ovvero l'indice di un pianeta infelice. Infelice perché un «ideale ragionevole» (un obiettivo politico) di questo indicatore dovrebbe prevedere un livello di soddisfazione come quello della Danimarca (8,2, su un massimo di 10), un'aspettativa di vita di 82 anni, come nel Giappone, e un'impronta ecologica bassa, attorno a 1,5, mentre nei fatti nessun paese si avvicina per ora a tali risultati.
Quello dell' Happy Placet Index è senza dubbio un punto di vista radicale, ma purtroppo assai sensato, perché ci ricorda impietosamente che i nostri paesi ricchi, per produrre un livello di soddisfazione decente nei loro cittadini, consumano tante risorse naturali che sarebbero necessari due o tre pianeti Terra.
Una diversa e meno sconvolgente classifica della felicità del mondo è stata proposta la settimana scorsa da un gruppo di ricerca dell'università inglese di Leicester. Adrian White, psicologo sociale, l'ha realizzata con una tecnica chiamata meta-analisi e cioè mettendo insieme, con opportune pesature, i dati raccolti da altri, con metodi diversi. Ha dunque utilizzato le cifre dell'Unesco, della Cia, della New Economics Foundation, dell'Organizzazione mondiale della salute eccetera. La sua tesi è che la felicità sia legata essenzialmente a salute, ricchezza e istruzione.
La tabella comparativa in questa pagina mostra quanto diverse possano risultare le classifiche a seconda delle diverse metodologie usate. Il Pil premia il reddito e il reddito pro-capite, l'Indice di sviluppo umano valorizza i paesi europei che hanno alto reddito e strutture sociali sviluppate (welfare e simili). L'Happy Placet Index, che mette a denominatore il consumo di risorse naturali ribalta provocatoriamente tutte le classifiche, penalizzando quei paesi ricchi che, per garantirsi felicità, sprecano molto, eventualmente a spese degli altri. Infine la Mappa della felicità dell'università di Leicester offre una possibile mediazione tra i diversi approcci. Fin troppo tranquillizzante, forse.
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(In)sostenibili felicità
Un nuovo indicatore del benessere dei paesi: Pil più la soddisfazione, diviso per le risorse
Si sta creando una grande confusione sulla questione della felicità: tre settimane fa la notizia che il miglior paese al mondo era Vanuatu, 80 isole nel Pacifico. Ma nei giorni scorsi ecco un'altra classifica, dove questa volta vince la Danimarca, con la Svizzera a ruota, mentre Vanuatu scende al 24simo posto. Quanto all'Italia era al numero 66 in un elenco e al 50 nel secondo.
Eppure la felicità, o se si preferisce la soddisfazione di vita, è cosa troppo seria per lasciarla ai titoli estivi dei quotidiani. Il tema è di quelli cruciali per la nostra civiltà ed è divenuto negli ultimi dieci anni argomento di studi importanti, all'intreccio tra filosofia, psicologia, scienze sociali ed economia. Con qualche fatica metodologica peraltro, tanto che nemmeno sulle parole ci si intende appieno: c'è chi parla di felicità (happiness), chi si soddisfazione di vita (satisfaction with life), chi di star bene (well being). In ogni caso è qualcosa che riguarda sia le condizioni materiali di una persona (o di in un paese) che la percezione soggettiva riguardo alla propria vita. Ovviamente non è un valore ben netto come l'altezza o il reddito. La si valuta, la felicità, semplicemente domandando alle persone: «Considerando la vostra vita nel suo complesso quanto vi considerate soddisfatti?». Un altro metodo consiste nel valutare lo stato d'animo corrente, per esempio: «Quale percentuale di tempo nella giornata di ieri siete stati di cattivo umore?». Una qualche verifica si può fare incrociando le dichiarazioni soggettive con le opinioni che gli altri hanno della felicità di una persona: «Quanto giudichi felice Giovanna?».
Tutto questo interesse dipende anche dalla giusta sfiducia che l'opinione pubblica, e anche gli studiosi, ormai hanno verso un trattamento solo economico, o peggio economicista, del benessere delle nazioni. Che il prodotto interno lordo (Pil o Gdp, in inglese) sia un indicatore grossolano e persino truffaldino sembra ormai certo. Per esempio se un paese risulta molto inquinato e dunque deve investire molto per ripulirsi, allora quelle spese aumentano il Pil, ma sembra difficile sostenere che ciò sia un'indice di benessere. Per questo vari tentativi di correzione sono stati proposti, per esempio sottraendo da quelle cifre le esternalità negative. Le cifre sul Pil, poi, non danno mai conto della distribuzione del reddito all'interno di un paese, affogando le disuguaglianze in una media statistica.
In ogni caso c'è una curva paradossale, ormai ben nota: reddito individuale (o nazionale) e felicità per un po' vanno di pari passo, ma poi si disaccoppiano perché, una volta raggiunto un discreto benessere, un ulteriore aumento della ricchezza non produce un pari aumento di felicità, anzi talora succede persino il contrario. Vale per i singoli individui e anche per le società nel suo complesso. In molte culture, poi, il reddito individuale offre soddisfazione psicologica non tanto in valore assoluto quanto come misura della gerarchia sociale: la cosa importante è essere più ricchi di amici e conoscenti, ma se l'economia tira e tutti si arricchiscono, allora che gusto c'è?
Un altro indice usato di frequente è l'HDI, Human Development Index, usato dalle Nazioni unite per sfuggire alla trappola del solo fatturato. Venne creato nel 1990 dall'economista pakistano Mahbub ul Haq, a partire dalle ricerche del premio Nobel Amartya Sen; tiene conto del reddito pro capite, dell'aspettativa di vita e delle opportunità di conoscenza e istruzione. In questo caso il Pil c'entra indirettamente (nel reddito individuale) ma viene associato ad altri valori che riguardano la qualità della vita di un paese. Un apposito Rapporto annuale viene depositato ogni anno e vede ai primi posti paesi occidentali ma intermedi, come Norvegia, Canada, Australia, Svezia: alto reddito e stato sociale.
L'indicatore più interessante, a opinione di chi scrive, è stato proposto di recente dalla New Economics Foundation, fondazione inglese per la nuova economia, che ha lanciato il suo Happy Planet Index, e insieme ad esso un vero «Manifesto Globale per un pianeta più felice», scritto con l'associazione Amici della Terra.
L'HPI guarda le cose del mondo in una maniera assai diversa dai precedenti indici e si forma a partire da tre fattori: 1. la speranza di vita alla nascita degli abitanti; 2. la soddisfazione di vita soggettivamente valutata dagli stessi con dei sondaggi, in una scala da uno a dieci; 3. un parametro chiamato «orma ecologica» (ecological footprint) che misura quante risorse naturali un certo paese consuma e che di solito è espresso in ettari. I primi due numeri vengono moltiplicati tra di loro, il che dà un'idea di quanti anni felici un paese abbia, ma divisi per il terzo, per tener conto del prezzo ambientale. In fondo l'idea è semplice: si tratta di misurare quanto un certo input (le risorse naturali) si trasforma, producendo un certo output, dove il risultato che conta non è il fatturato globale, ma la vita delle persone, che sia lunga e felice. Lo diceva già Aristotele, ma il progresso moderno sembra essersene dimenticato.
In questo sistema a ingresso-uscita, tanti altri fattori che di solito vengono considerati come dei fini in sé sono invece soltanto dei mezzi al fine di una vita felice.
Dunque la crescita economica è solo un mezzo, e così il mercato. E lo stesso vale per educazione, sistema sanitario, livello di consumi, occupazione, forme di governo, famiglia, tecnologia. Sono strumenti da potenziare, in opportune miscele, rispetto a quello che dovrebbe essere lo scopo vero e sensato di ogni politica e di ogni governo.
Ma non a ogni costo perché mettendo a denominatore il consumo ambientale, i ricercatori introducono un requisito di sostenibilità: se per produrre una certa soddisfazione di vita si consuma troppa natura, allora quella ottenuta è una felicità effimera, di breve durata. Per esempio la Norvegia si trova al primo posto nell'indice di sviluppo umano (il citato HDI), ma ha un footprint molto elevato e perciò nell'indice planetario scende in posizione 115. Ben peggio della nostra Italia, dunque, perché se la durata della vita è circa uguale nei due paesi e la contentezza norvegese è appena un po' superiore alla nostra (un valore di 7.4 contro i nostri 6.9), l'impatto ambientale italico è solo di 3.8 contro un 6.2 scandinavo.
Ovviamente nessuno degli indicatori rappresenta la verità, ma ognuna delle diverse metodologie incorpora più o meno esplicitamente dei valori diversi con cui guardare lo stato del mondo. Va notato che gli stessi autori dell' Happy Placet Index, hanno voluto provocatoriamente aggiungere una correzione grafica a mano sul loro rapporto, reintitolandolo (un)Happy Placet Index, ovvero l'indice di un pianeta infelice. Infelice perché un «ideale ragionevole» (un obiettivo politico) di questo indicatore dovrebbe prevedere un livello di soddisfazione come quello della Danimarca (8,2, su un massimo di 10), un'aspettativa di vita di 82 anni, come nel Giappone, e un'impronta ecologica bassa, attorno a 1,5, mentre nei fatti nessun paese si avvicina per ora a tali risultati.
Quello dell' Happy Placet Index è senza dubbio un punto di vista radicale, ma purtroppo assai sensato, perché ci ricorda impietosamente che i nostri paesi ricchi, per produrre un livello di soddisfazione decente nei loro cittadini, consumano tante risorse naturali che sarebbero necessari due o tre pianeti Terra.
Una diversa e meno sconvolgente classifica della felicità del mondo è stata proposta la settimana scorsa da un gruppo di ricerca dell'università inglese di Leicester. Adrian White, psicologo sociale, l'ha realizzata con una tecnica chiamata meta-analisi e cioè mettendo insieme, con opportune pesature, i dati raccolti da altri, con metodi diversi. Ha dunque utilizzato le cifre dell'Unesco, della Cia, della New Economics Foundation, dell'Organizzazione mondiale della salute eccetera. La sua tesi è che la felicità sia legata essenzialmente a salute, ricchezza e istruzione.
La tabella comparativa in questa pagina mostra quanto diverse possano risultare le classifiche a seconda delle diverse metodologie usate. Il Pil premia il reddito e il reddito pro-capite, l'Indice di sviluppo umano valorizza i paesi europei che hanno alto reddito e strutture sociali sviluppate (welfare e simili). L'Happy Placet Index, che mette a denominatore il consumo di risorse naturali ribalta provocatoriamente tutte le classifiche, penalizzando quei paesi ricchi che, per garantirsi felicità, sprecano molto, eventualmente a spese degli altri. Infine la Mappa della felicità dell'università di Leicester offre una possibile mediazione tra i diversi approcci. Fin troppo tranquillizzante, forse.
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