Thursday, June 28, 2007

Finalmente la verità

Even as one of the principal architects of the Iraq war washes his hands of the whole bloody mess, there is still only a vague understanding of the real reason behind the invasion, but evidence of the intense interest of the international oil companies continues to build. Only last week, ExxonMobil chief executive Rex Tillerson said in London: "We look forward to the day when we can partner with Iraq to develop that resource potential." Despite their interest and influence, however, the decision to attack was not taken in the boardroom. Iraq was indeed all about oil, but in a sense that transcends the interests of individual corporations, however large.
The elephant in the drawing room was the fact that global oil production is likely to peak within about a decade. Aggregate oil production in the developed world has been falling since 1997, and all major forecasters expect world output excluding Opec to peak by the middle of the next decade. From then on everything depends on the cartel, but unfortunately there is growing evidence that Opec's members have been exaggerating the size of their reserves for decades.

Oil consultancy PFC Energy briefed Dick Cheney in 2005 that on a more realistic assessment of Opec's reserves, its production could peak by 2015. A report by the US Department of Energy, also in 2005, concluded that without a crash programme of mitigation 20 years before the event, the economic and social impacts of the oil peak would be "unprecedented". The evidence suggests these fears were already weighing heavily with Cheney, Bush and Blair.

In a world of looming shortage, Iraq represented a unique opportunity. With 115bn barrels, it had the world's third biggest reserves, and after years of war and sanctions they were the most underexploited. In the late 1990s, production averaged about 2m barrels, but with the necessary investment its reserves could support three times that. In a report to the security council, UN inspectors warned in January 2000 that sanctions had caused irreversible damage to Iraq's reservoirs. But sanctions could not be lifted with Saddam still in place.

Cheney knew, fretting about global oil depletion in a speech in London the following year, where he noted that "the Middle East with two thirds of the world's oil and lowest cost is still where the prize ultimately lies". Blair too had reason to be anxious: British North Sea output had peaked in 1999, while the petrol protests of 2000 had made the importance of maintaining the fuel supply excruciatingly obvious.

Britain's and the US's fears were secretly formalised during the planning for Iraq. It is widely accepted that Blair's commitment to support the attack dates back to his summit with Bush in Texas in April 2002. What is less well known is that at the same summit, Blair proposed and Bush agreed to set up the US-UK Energy Dialogue, a permanent liaison dedicated to "energy security and diversity". Its existence was only later exposed through a freedom of information inquiry.

Both governments refuse to release minutes of Dialogue meetings, but one paper dated February 2003 notes that to meet projected demand, oil production in the Middle East would have to double by 2030 to more than 50m barrels a day. So on the eve of the invasion, UK and US officials were discussing how to raise production from the region - and we are invited to believe this is coincidence. The bitterest irony is, of course, that the invasion has created conditions that guarantee oil production will remain hobbled for years to come, bringing the global oil peak that much closer. So if that was plan A, what on earth is plan B?

· David Strahan is the author of The Last Oil Shock: A Survival Guide to the Imminent Extinction of Petroleum Man


Tuesday, June 26, 2007

L'Europa Piagnona

Curiosiamo nel web e troviamo un
giornalista della Bbc (della Bbc!) da
mesi in ostaggio degli islamisti, imprigionato
da una cintura esplosiva. Clicchiamo
e c’è la voce del caporale Shalit,
umiliato e offeso da un anno di prigionia
in nome di chi bestemmia il proprio
dio clemente e misericordioso. Il
fragile e un po’ fatuo Salman Rushdie è
ancora sotto fatwa, e ce lo hanno ricordato
quando è diventato baronetto della
regina. Robert Redeker vive ancora
semiclandestino. Gaza è nelle mani di
un branco di assassini che si chiama
Hamas, appoggiati fattivamente dai qaidisti
di al Zawahiri. Di Hamas ci era
stato detto dai realisti dei nostri stivali
che bisognava coccolarli, specie dopo
la loro vittoria elettorale, perché sarebbero
diventati buoni, dovevamo
pensare la complessità del problema,
del reale, del welfare, e della disperazione
di un popolo, dovevamo finanziarli,
trattare, e nel frattempo centinaia
di morti ammazzati con metodi tribali
inauditi, con ferocia religiosa, come
è stato per Fatah al Islam in Libano,
un bell’eccidio tra musulmani fino allo
squartamento di sei soldati spagnoli.
Ma noi ci preoccupiamo della nostra
buona coscienza, non riconosciamo lo
stato di guerra internazionale, siamo ridicolmente
divisi, in Afghanistan si
sente solo la lagna dell’occidente che
non combatte (Italia in prima linea: nella
lagna), fino a coprire il rumore della
battaglia contro i talebani, che adesso
riavranno i loro ospedali di Gino Strada.
L’occidente euro-umanitario che si
fa rapire, decollare, ricattare, che filosofeggia
sulle colpe di Israele nel ritiro
unilaterale, che non si accorge delle sinagoghe
che bruciano, dei cristiani cacciati
e martirizzati, che si volta dall’altra
parte ogni volta che c’è da guardare
la realtà in faccia, e che tollera l’infamia
della guerra islamista dispiegata,
non merita solo la critica o un’amorevole
compassione per il destino che si
sceglie: merita il disprezzo

Saturday, June 09, 2007

La migliore notizia dell'anno, i costi del fotovoltaico scendono sempre di più

I costi di produzione delle celle fotovoltaiche stanno crollando, e così nei prossimi anni il solare diventerà una «opzione di mainstream» per la produzione di energia elettrica. Lo sostiene il Worldwatch institute di Washington in un documento elaborato insieme al Prometheus Institute di Cambridge, Massachusetts e diffuso un paio di settimane fa. È interessante, proprio mentre la questione del clima è all'ordine del giorno di vertici mondiali - contrastare il riscaldamento abnorme dell'atmosfera terrestre significa ridure le emissioni di gas «di serra» come l'anidride carbonica, emessa nei processi di combustione e in particolare quando si bruciano combustibili fossili: dunque produrre più energia con fonti alternative al petrolio (e rinnovabili). L'energia del sole è una delle alternative ideali. E però un po' i costi, un po' le volontà politiche, fanno sì che per il momento il pannello fotovoltaico resti un'opzione minore.
Almeno il primo alibi però, quello dei costi, comincia a venir meno. In effetti i costi di produzione sono già parecchio calati rispetto a venti o trent'anni fa, e ora vediamo un crollo. Solo dall'anno 2000 l'industria del fotovoltaico è cresciuta sei volte, ed è cresciuta del 41% nel solo anno 2006. È vero che l'energia elettrica solare nelle reti rappresenta ancora meno dell'1% dell'elettricità mondiale: ma nel 2006 è aumentata del 50%, fa notare il Worldwatch. (A parte bisognerebbe notare che parte della produzione di energia solare non entra nelle reti perché fatta su piccolissima scala per un consumo localizzato in luoghi remoti: il pannello accanto alla casa di un villaggio amazzonico porta l'energia elettrica là dove non arriveranno mai i cavi della rete di distribuzione, ma non entra nei conteggi. Per «utenze isolate», chiamiamole così, il solare non è un'energia alternativa ma l'unica possibile). Ma torniamo alla produzione contabilizzata nelle reti: a guidare il boom sono la Germania e il Giappone; la Spagna entrerà nel gruppo nel corso di quest'anno (grazie alla sua nuovissima centrale solare) e gli Stati uniti seguono da presso.
Finora, nota il Worldwatch, la crescita è stata limitata da una penuria di produzione industriale di polisilicio purificato, necessario per le celle fotovoltaiche (lo stesso materiale dei semiconduttori alla base dell'industria elettronica: ma nel 2006 per la prima volta più di metà del polisilicio prodotto al mondo è stato usato per farne celle fotovoltaiche). Questo cambierà nei prossimi due anni, quando entreranno in produzione oltre una decina di produttori di polisilicio in Europa, Cina, Giappone e negli Usa. L'aumentata disponibilità, insieme ai nuovi progressi della tecnologia, farà abbassare i costi di almeno il 40% nei prossimi tre anni, secondo le stime dell'istituto Prometheus. Anche qui, come in molti altri settori, spingere i costi verso il basso in particolare è la Cina con la sua sete di energia, l'ampia disponibilità di manodopera e la sua forte base industriale,. La maggiore novità del 2006 è stata la crescita della capacità produttiva cinese, che ha sorpassato gli Stati uniti (patria della prima moderna cella fotovoltaica, prodotta dai Bell Labs negli anni '50): ora la Cina è il terzo produttore di celle fotovoltaiche dopo Germania e Giappone. La prima azienda cinese produttrice, Suntech Power, era l'ottavo produttore mondiale nel 2005 e il quarto nel 2006 (e il suo presidente è diventato uno dei cinesi più ricchi).
Nel frattempo la penuria di materia prima (polisilicio) ha portato i produttori a usarlo in modo più efficiente, accelerando così l'emergere di tecnologie che non si basano sul polisilicio purificato e sono anche meno care, le cosiddette celle sottili fatte di silicio amorfo e altri materiali meno costosi. Tutto questo, conclude il Worldwatch Institute, significa che il fotovoltaico sta diventando una opzione valida e competitiva per produrre elettricità senza emettere anidride carbonica. Bisognerà che anche i pianificatori italiani ne prendano nota, visto che restiamo agli ultimi posti...

Sunday, June 03, 2007

Andare in galera in America

Rimane un mistero come il paese che si vuole il paladino della libertà nel mondo si sia trasformato nella società più carceraria del pianeta. Intorno agli anni '70 gli Stati Uniti avevano una percentuale di detenuti, rispetto all'intera popolazione, paragonabile a quella dei paesi dell'Europa occidentale, oggi invece vi si pratica il più grande internamento mai registrato in una democrazia parlamentare. Nel 2004 su centomila abitanti c'erano settecentosessanta carcerati, contro i quarantasette del Giappone, gli ottanta della Francia, i novantaquattro dell'Italia. Negli Usa cioè ci sono sedici volte più prigionieri che in Giappone e otto volte più che in Italia. Solo la Russia del dopo guerra fredda ha cifre paragonabili: settecentotrenta detenuti ogni centomila abitanti. Se a costoro si aggiunge chi è in libertà condizionata o per buona condotta, negli Usa il totale dei sorvegliati superava i 4,3 milioni di persone nel 1990 e i sette milioni nel 2004. Cioè, a ogni momento, negli Stati Uniti più di tre adulti su cento sono presi nelle maglie della giustizia.
Non stupisce che l'argomento susciti la curiosità di giornalisti e ricercatori. Quasi sempre prevale uno sguardo sociologico, come nel libro di un discepolo di Pierre Bourdieu, Loïc Wacquant (Punire i poveri). Diversa è la prospettiva di Elisabetta Grande che, pur passando in rivista tutti gli aspetti della carcerizzazione americana, guarda il fenomeno da un angolo meno battuto e si chiede quali siano i meccanismi di indagine, processuali e giudiziari, che hanno spedito così tante persone dietro le sbarre. Il titolo del suo libro Il terzo strike. La prigione in America (con una nota di Adriano Sofri; Sellerio, pp. 168, euro 15) ricorda quella disposizione, approvata a schiacciante maggioranza per referendum popolare prima in California e poi in altri stati, per cui la terza condanna, anche per reati non gravi, comporta automaticamente l'ergastolo: three strikes and you are out. Al terzo «colpo» ti chiudono in cella e «buttano via la chiave».
Elisabetta Grande riporta casi orripilanti: per esempio, un uomo condannato all'ergastolo (con la clausola che potrà uscire in libertà vigilata non prima di aver scontato cinquant'anni) per aver rubato nove videocassette dal valore complessivo di centocinquanta dollari, solo perché aveva precedenti per furto e trasporto di marijuana; o un altro recidivo punito con il carcere a vita per aver rubato un pezzo di carne del valore di 5 dollari e 62 centesimi (4,19 euro) che oltretutto serviva per nutrire il fratello handicappato e la madre, entrambi affamati perché la pensione di quest'ultima era andata persa nella posta.
Quella che si è persa per strada è l'idea che la pena debba essere proporzionale alla gravità del reato. A questo proposito il libro usa spesso un termine giuridico assai suggestivo: parla di reati bagatellari, di ergastolo bagatellare. È stravolta cioè la nozione stessa di pena giudiziaria e viene meno anche l'ipocrisia borghese della pena come strumento ortopedico, quel redimere attraverso il punire che Michel Foucault ha dissezionato in modo magistrale. Se potessero, i giudici statunitensi farebbero come i loro colleghi delle potenze coloniali di un tempo, spedirebbero i detenuti in Caienna o in Siberia.
Elisabetta Grande segue nei meandri giudiziari l'accumularsi di piccoli dispositivi che messi insieme affollano le prigioni. Due esempi. Uno è basato sull'idea che la verità processuale venga decisa dalla battaglia fra difesa e accusa durante il dibattimento. Ma poiché gli avvocati bravi si fanno pagare dai trecento ai mille dollari per ogni ora di lavoro, gli imputati disagiati possono ricevere solo una difesa d'ufficio che viene svolta da avvocati inesperti o in declino, sopraffatti da una mole immane di lavoro e pagati una miseria: «In Georgia, nel 2002, tre avvocati della stessa famiglia hanno rappresentato in giudizio 776 persone indigenti per un costo medio a imputato di 49,86 dollari (37,21 euro)... Sempre in Georgia un avvocato designato dalla corte si trovò a difendere 94 imputati nello stesso giorno». La debolezza della difesa d'ufficio fa sì che sia più facile per i pubblici ministeri far condannare i poveri e quindi rimpolpare il proprio palmarès di condanne, indispensabile per lanciarsi nella carriera politica. Per la stessa ragione i difensori d'ufficio tendono ad abusare del plea bargaining, il patteggiamento prima del processo, con ammissione di colpa anche in caso d'innocenza: meglio uno sconto di pena che la lotteria del processo. Ne deriva la moltiplicazione del numero di recidivi e quindi di coloro che rientrano nell'incubo del terzo strike. Il numero dei detenuti diventa così una variabile indipendente che non ha nulla a che vedere con il numero e la gravità dei reati realmente commessi, ma è correlato piuttosto al tasso di ansia «sicuritaria» che mass media e politici riescono a instillare nell'opinione pubblica.
Il «grande internamento» americano (per riprendere un altro termine chiave di Foucault) discende così da un perverso intreccio tra sistema mediatico e democrazia rappresentativa, con la specificità tutta statunitense di connotazione razzista della detenzione.
La legge e ordine è infatti e prima di tutto legge bianca per mettere ordine tra i neri che pur essendo solo il 12,5 per cento (uno su otto) della popolazione rappresentano però quasi la metà (uno su due) dei detenuti americani, a tal punto che la detenzione rappresenta un rito di passaggio quasi inevitabile per un giovane nero cresciuto in un ghetto urbano. Gli effetti sulla società americana sono stravaganti e impensabili: per esempio questo tasso di detenzione ha reintrodotto la poligamia nei ghetti urbani, poiché le donne nere devono condividere i pochi maschi fuori dalle sbarre.
Quello che l'ottimo libro di Elisabetta Grande non può fare è prevedere le conseguenze a lungo termine che una carcerazione tanto smisurata produrrà nel tessuto della società statunitense. Certo che è curiosa una società in cui la Correction (così si autodefiniscono le imprese addette) rappresenta uno dei settori trainanti dell'economia: il sistema giudiziario dà lavoro a 2,3 milioni di persone e nel 2001 combattere il crimine è costato negli Usa centosessantasette miliardi di dollari, tre volte e mezzo in più di diciannove anni prima. Elisabetta Grande osserva preoccupata che altri paesi (in primis quelli del Commonwealth) stanno seguendo gli Usa sulla stessa via. Non so se i teorici del postmoderno avessero in mente anche questa involuzione concentrazionaria.
PS. Editori e direttori di giornali dovrebbero difendere Adriano Sofri da se stesso: anche quando espone tesi sensate, deve mettere un sovrappiù di astio che fa torto alla sua intelligenza. Qui nella nota iniziale sostiene a ragione che la legge ex-Cirielli dimostra che l'Italia si sta americanizzando. Ma perché per dirlo deve fare prima una sparata sull'antiamericanismo di ogni discorso sulle prigioni Usa e poi accostarlo all'antisemitismo? Forse che analizzare l'ascesa di Silvio Berlusconi è sintomo di anti-italianismo? Anche qui osserviamo un effetto perverso: la persecuzione giudiziaria sofferta da Sofri e sostenuta dalla destra, gli ha provocato paradossalmente un livore verso la sinistra, che forse dovrebbe tenere più a freno.
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