Saturday, May 26, 2007

I cinesi di via Sarpi

Chi c'è dietro? Le Triadi, le Società nere, il racket, gli strozzini e - variante più raffinata - persino Confucio. Alle prese con il mistero cinese in casa nostra - la «rivolta» di via Sarpi del 12 aprile - i media sono finiti inevitabilmente nell'imbuto della dietrologia.
«In Cina non c'è proprio nulla di misterioso... Basta studiarla». Disse più o meno così Zhou Enlai a Henry Kissinger nella prima conferenza stampa congiunta Usa-Cina. L'apprendiamo dal libro di Stefano Cammelli, non a caso intitolato Ombre cinesi (Einaudi). Con tutto il rispetto per il mitico ministro degli esteri cinese, versione maoista dell'archetipo del saggio duca di Zhou, studiare la Cina e i cinesi non è una faccenduola.
Padroneggiare il mandarino è un cimento che, da solo, occupa una vita. Il sociologo Daniele Cologna, dell'agenzia di ricerca Codici, sa il cinese (lo insegna alle università di Pavia e dell'Insubria) e da un decennio studia sul campo la comunità sino-meneghina. Ci affidiamo a lui per de-costruire alcuni degli stereotipi correnti sugli immigrati cinesi.
Tutti i media, manifesto compreso, chiamano China town la zona di via Sarpi. E tu ti incavoli. Perché?
La definizione China town ha una storia e una geografia. Per China town s'intende un quartiere monoetnico segregato, uno spazio chiuso in cui gli immigrati cinesi sono costretti a vivere e dove si condensano servizi etnicamente esclusivi, comprese scuole e ospedali. Questo erano e in parte continuano a essere le China town negli Stati Uniti e nel Sud-est asiatico. Per fare un esempio: quando nel 1900 a San Francisco scoppiò l'ultima epidemia di peste, ai cinesi fu vietato il ricovero negli ospedali della città. In Europa non sono mai esistite delle vere e proprie China town. Il quadrilatero attorno a via Sarpi, dove i primi cinesi arrivano negli anni Venti provenienti da Francia e Olanda, non è mai stato uno spazio segregato. Il 90% dei residenti sono tuttora italiani. Solo il 10% dei 13 mila cinesi in regola residenti a Milano abita lì, gli altri stanno a Affori, Niguarda e lungo via Padova.
Se non è una China town, allora cos'è via Sarpi?
E' il polo funzionale dove si concentrano attività economiche dei cinesi. Fino agli anni Novanta, erano botteghe artigiane e laboratori tessili. Poi il manifatturiero è stato soppiantato dal commercio all'ingrosso di prodotti in gran parte importati dalla Cina. Nel quadrilatero ci sono circa 500 aziende «su strada». Secondo ViviSarpi, l'associazione dei residenti italiani, il 60% dei commercianti cinesi è proprietario dell'immobile in cui opera. Chi non ha comprato i locali, ha comunque sborsato cifre consistenti - tra i 200 e i 300 mila euro - per «subentrare» agli italiani e paga affitti sui 3 mila euro al mese. Si riforniscono dai grossisti di via Sarpi negozianti e bancarellai del Nord Italia (tra questi i cinesi sono un'esigua minoranza). Per i cinesi, via Sarpi è un polo di servizi dedicati (agenzie di viaggio, pratiche burocratiche, vendita di dvd, libri e giornali, erboristerie) e un contesto di domiciliazione simbolica. E' il posto dove un immigrato cinese si sente vagamente a casa sua.
Chi comanda in via Sarpi? La domanda aleggiava sulla «rivolta» e si riaffaccia sulla trattativa per delocalizzare fuori Milano il commercio all'ingrosso.
Scatta sempre questo retropensiero. Poiché i cinesi ci sembrano tutti uguali, oscuri e omertosi, deve esserci per forza un capobastone che dà gli ordini. Ma i cinesi immigrati a Milano, pur provenendo dalla stessa area (la zona rurale-montagnosa attorno a Wenzhou, capoluogo dello Zhejiang, la provincia del Sud-est della Cina) non sono tutti uguali. La comunità sino-meneghina è molto stratificata sia economicamente che socialmente. Si va dal borghese nato in Italia che si sa muovere nei meandri delle istituzioni politiche ed imprenditoriali, al proletario che fatica a capire la differenza tra un assessore e un consigliere comunale. A Milano ci sono ben 18 associazioni di cinesi, nessuna ha mai ambito a rappresentare l'intera comunità. Sono tutte associazioni d'imprenditori che fanno i loro interessi, usate come biglietto da visita per accreditarsi presso la madrepatria. L'impresa cinese in Italia continua a essere un'impresa familiare, su base clanica. Questo impedisce che ci sia un unico vertice che tutto controlla e tutto dispone. Ciò si riverbera nella trattativa con Palazzo Marino sulla delocalizzazione. Chi rappresenta i cinesi a quel tavolo? Da chi e in che modo hanno avuto il mandato a trattare?
Di delocalizzazione si parla da almeno cinque anni. Allora la più antica delle associazioni dei cinesi propose San Donato. Non se ne fece niente e non per colpa dei cinesi. Finirà così anche ad Arese?
Nessuno dei comuni dell'hinterland scalpita per avere nel suo territorio i grossisti cinesi. Invece tutti fanno ponti d'oro agli ipermercati. Non so per quali ragioni Formigoni abbia tirato fuori dal cilindro l'area ex Alfa di Arese. Chi ci guadagna? Di certo, le immobiliari padroni dell'area. E' altrettanto certo che i cinesi non sono disposti a rimetterci. E li capisco.
I commercianti di via Sarpi hanno fama d'essere imprenditori intrepidi e scafati.
E' un altro luogo comune. Il 75% di loro è alla prima esperienza imprenditoriale. Per dirla alla cinese, guadano il fiume tastando le pietre, alla cieca. E' gente che rischia, si indebita, ha fegato, ma ha preso le sue belle fregature. Il commercio all'ingrosso in via Sarpi da alcuni anni è in crisi. Ci si sono buttati in troppi, con il placet del Comune che adesso strilla alla zona franca. La ressa ha fatto cadere i guadagni, mentre i costi da ammortizzare restano altissimi. Comunque vada a finire la trattativa sulla delocalizzazione - e il processo richiederà anni - il settore del commercio all'ingrosso è saturo. E' in espansione invece, ed è questa la vera novità a Milano, l'ingresso dei cinesi nei servizi di prossimità: tintorie, edicole, pizzerie, bar, ferramenta. I cinesi subentrano agli italiani, senza apportare novità ai negozi che mantengono, persino nell'insegna, l'impronta originaria. Per questo si parla di imprenditoria mimetica.
Due settimane dopo la «rivolta», in zona Sarpi due ragazzi cinesi sono stati uccisi in pieno giorno e per strada. Mamma le Triadi, e invece...
E invece dall'identità e dal breve percorso di vita delle vittime - uno lo conoscevo - risultava evidente che la grande criminalità organizzata con quel delitto non c'entrava nulla. L'ambiente è quello delle bande giovanili, un fenomeno tipico che accompagna le migrazioni. Si comincia come teppisti che fanno gli sbruffoni al ristorante, mangiano e non pagano il conto. E in alcuni casi si prosegue con le minacce ai connazionali a scopo di estorsione, i sequestri lampo non denunciati, i regolamenti di conti tra bande rivali per uno sgarro subìto. I protagonisti sono i ragazzi perduti della generazione che i sociologi definiscono 1,25, arrivati adolescenti in Italia con alle spalle ricongiungimenti familiari difficili. Non vanno a scuola, non imparano l'italiano, si ribellano all'etica del lavoro dei genitori. Nel giro di pochi giorni gli autori del duplice omicidio milanese sono stati arrestati. La comunità non li ha coperti e questo infrange un altro luogo comune, l'omertà dei cinesi. Delle Triadi, organizzazioni criminali nate a Canton e a Taiwan, dedite al traffico di armi e droga, alla prostituzione e alla finanza sporca, in Italia non c'è traccia.
E veniamo a Confucio. Va di moda interpretare il successo della Cina, e anche dei suoi migranti, alla luce del modello neoconfuciano.
Occorre distinguere. In Cina c'è da qualche tempo un revival di Confucio, promosso dal premier Wen Jia Bao per rintracciare nel passato le fondamenta della «società armoniosa» che Pechino dice di voler realizzare. Un messaggio rivolto anche all'esterno: sono intitolati a Confucio gli istituti di cultura che la Cina sta aprendo in giro per il mondo. Ma da sempre il neoconfucianesimo è una chiave di lettura per spiegare la Cina. E' stato applicato persino al maoismo e, almeno dagli anni Settanta, alle migrazioni cinesi nel Sud Est asiatico. Non è questa la sede per fare un bilancio dell'efficacia di un modello interpretativo che, in rozza sintesi, punta sul retaggio culturale per spiegare l'economia. Qui mi limito a dire che la migrazione cinese in Italia contraddice Confucio almeno su un punto. Nel nostro paese un quarto degli imprenditori cinesi sono donne. E questo a Confucio non sarebbe piaciuto.

Tuesday, May 22, 2007

Il punto di vista del manifesto sull'emergenza rifiuti in Campania

Rifiuti antidemocratici. In Campania il terreno di confronto-scontro democratico passa per il piano di smaltimento. Sicuramente esistono altre piaghe sul territorio, dalla crisi del tessuto industriale alla disoccupazione, dalla camorra all'abusivismo, dal lavoro nero ai problemi abitativi. Ma è ormai conclamata la guerra dei sacchetti, che crea fratture insanabili tra popolazioni e istituzioni, che contrappone non solo i cittadini allo Stato, ma diventa anche Stato contro Stato.
Quattordici anni di commissariamento per gestire un'emergenza sono un paradosso. Lo sanno i governi e i commissari straordinari che si sono succeduti, lo sanno gli enti locali, ma non hanno il coraggio di ammettere colpe e responsabilità. In tutto questo tempo si è sempre cercato di privilegiare gli interessi dei privati rispetto al bene comune. Così non è la discarica di Serre - che si vuole aprire ad ogni costo a ridosso di un'oasi naturale protetta - a essere rappresentativa del rapporto ciclo di smaltimento-tornaconto industriale, ma l'inceneritore di Acerra. L'impianto dovrebbe essere pronto a ottobre 2007 e nel nuovissimo piano da poco approvato dal Consiglio dei ministri farebbe parte dei due termovalorizzatori che dovrebbero risolvere il caso-Campania. Ma non è così.
10 milioni di ecoballe
Ci sono attualmente 10 milioni di ecoballe che il ministero dell'ambiente non considera a norma e che quindi non si possono bruciare. Nei Cdr ancora il materiale non viene stoccato seguendo le procedure atte all'incenerimento. La raccolta differenziata e ferma al 10%. Ancora non sono state individuate le discariche speciali dove «seppellire» le ceneri di risulta della combustione, materiali altamente tossici. Per non parlare di chi sta portando avanti i lavori: la Fibe, attualmente indicata come l'unica responsabile del mancato smaltimento dei rifiuti in regione e indagata per truffa. La società che vede tra gli azionisti l'Impregilo di Cesare Romiti è infatti riuscita a spendere dal '94 ad oggi più di 800 milioni di euro senza venire a capo della crisi. Eppure all'epoca la sua proposta non era la migliore. La società infatti ha vinto le gare d'appalto con impianti talmente vetusti che la magistratura ne pose una parte sotto sequestro, e con un progetto, il termovalorizzatore di Acerra appunto, che gli è valsa 27 adempimenti prescritti dalla commissione ministeriale. Ma non c'è stato niente da fare. Il commissariato ha dovuto anticipare alla società 100 miliardi di vecchie lire per la realizzazione di impianti di Cdr che i magistrati hanno in seguito giudicato inadeguati e posto sotto sequestro. La procura di Napoli ha anche chiesto la confisca all'Impregilo di 43 milioni di euro e dei crediti, per 109 milioni, che la stessa società dovrebbe riscuotere dalla regione e da vari comuni. Infine, secondo la commissione ambiente del Senato la Fibe avrebbe anche stipulato accordi sui terreni di stoccaggi con soggetti malavitosi. Per tutto questo la Campania ha ottenuto la rescissione del contratto, ma dopo due gare d'appalto andate deserte è ancora questa stessa società a gestire il ciclo.
Nel 1999, dopo il piano dell'allora presidente della regione Rastrelli (An), quando la Fibe vince la gara per la costruzione di un termovalorizzatore ottiene carta bianca sull'indicazione del sito. Le istituzioni, dunque, si lavano le mani su un affare delicato e di importanza comunitaria. La società usa un intermediario di Afragola, che compra i terreni dai contadini acerrani a prezzi stracciati e li rivende alla Fibe. E' tutto deciso, senza consultare l'amministrazione locale e senza nemmeno avere la Via (Valutazione di impatto ambientale) si vuole iniziare a «lavorare». I cittadini sono allarmati. Acerra è un territorio già vessato dalle industrie, qui c'è la Montefibre, senza contare le discariche abusive che hanno creato un cortocircuito ambientale. Nei terreni la diossina ha raggiunto livelli d'allarme, nel latte animale le analisi ne riscontrano la presenza: 54 picogrammi per grammo di grasso quando il livello considerato accettabile è 3. Nascono i primi comitati anti-inceneritore. «All'inizio eravamo in pochi», ricorda Giovanni De Laurenti, attualmente segretario cittadino del Prc e che all'epoca aveva 20 anni. «Le posizioni erano diverse - continua - c'era chi semplicemente affermava che l'impianto non doveva essere costruito ad Acerra, chi era contrario a questo tipo di termovalorizzatore, il più grande in Europa, e chi come noi era contro l'idea stessa dell'incenerimento portando avanti una cultura anticapitalista. Lottavamo contro il principio di un sistema che ti fa consumare e poi brucia quello che consumi».
Nasce il comitato contro l'inceneritore, al suo interno convivono diverse anime, i partiti, il movimento, l'area dei disoccupati, ma ben presto tutta la cittadina s'identifica in questa lotta. I primi anni si cerca di contrastare il progetto dati alla mano. Si chiedono verifiche e compatibilità ambientali. L'Asl però concede il via libera, l'Arpa no. Per tutto il 2002 il comitato promuove cortei e iniziative di protesta. Il 27 gennaio 2003 devono iniziare i lavori, si decide di comune accordo con l'amministrazione di centro-destra di forzare la mano. Assieme al sindaco Michele Riemma (Fi) gli acerrani occupano il cantiere. Nell'area viene creato un parco giochi, un orto biologico, sono allevate le pecore simbolo del degrado ambientale. Si diffonde nella cittadina il virus della democrazia partecipata, secondo il principio della riappropriazione del territorio: concerti, iniziative, dibattiti in cui intervengono studiosi di fama internazionale come il professore Paul Connet. Ma i commissari straordinari, da Bassolino prima a Catenacci dopo, non ne vogliono sapere di mollare la presa. Si cerca di dimostrare l'egoismo di un paesino che attua la logica del not in my backyard, non nel mio giardino. Ma nel 2004 un ricercatore del Cnr, Alfredo Mazza, riporta uno studio sulla rivista Lancet che lascia pochi dubbi su quanto accade in provincia di Napoli e Caserta riguardo alla gestione camorristica dei rifiuti illegali. Nel triangolo Acerra, Nola, Marigliano a causa dei materiali tossici presenti nei terreni e nelle falde acquifere si è infatti impennata la mortalità dovuta al cancro e l'aumento di malattie cardio-circolatorie e di diabete. Nel maggio di quello stesso anno Espedito Marletta (Prc) diventa sindaco con più del 75% dei consensi proprio grazie alla linea dura contro l'inceneritore. Il 17 agosto il cantiere in zona Pantano viene sgomberato. Il megainceneritore si farà. Il 29 agosto durante una manifestazione con oltre 30mila persone, davanti al sito della Fibe polizia e carabinieri ricevono l'ordine di reprimere la folla. E' un giorno di guerriglia urbana ad Acerra, il bilancio tra feriti e arresti sarà altissimo. Anche il sindaco Espedito Marletta e il senatore Tommaso Sodano vengono manganellati e portati in ospedale. Da quel momento gli acerrani non mettono più piede nel cantiere.
«Una battaglia di sopravvivenza»
«Ma non ci siamo arresi - spiega Tommaso Esposito, portavoce del comitato - andiamo avanti per altre strade. Qui si sta attuando il congelamento della democrazia. Una comunità ha il diritto di scegliere il proprio futuro. La nostra non è una posizione egoistica, ma una battaglia per la sopravvivenza». Il professore Antonio Marfella, oncologo del Pascale, dà ragione ad Acerra: «Vogliono creare un inceneritore da 2000 tonnellate al giorno, più di Parigi - spiega - è evidente che la zona già rovinata non verrà più bonificata, in un paese dove c'è l'84% in più di malformazioni nei bambini, tra Napoli e provincia 2 milioni di persone su 6 hanno un eccessivo livello di diossina nell'organismo, fatto certificato dalla regione». Ma c'è un'altra soluzione? Raccolta differenziata e riciclo. Ad Aversa c'è la fabbrica Erreplast che ricicla la plastica e i metalli, è all'avanguardia e rischia di chiudere per mancanza di commesse perché si è scelta la strada degli inceneritori, così come le cartiere che potrebbero riciclare la carta. Le popolazioni ormai hanno capito che non esiste altra strada allo smaltimento sicuro, per questo si ribellano al governo e a Bertolaso. «Sapevamo che sarebbe stata una battaglia lunga e difficile - ammette il sindaco di Acerra Espedito Marletta - uno scontro tra poteri dello stato. Stiamo andando avanti per ricorsi, non siamo rassegnati». Fino ad ottobre 2007

Saturday, May 19, 2007

Volgarità a Roma

Pure i vigili, ha chiamato una notte
Piero Fassino. “Ma non è cambiato
niente”. Ha parlato anche con il Campidoglio.
Niente da fare. Dice che forse finirà
così, “non mi stupirei se un giorno
o l’altro ci fosse una lenzuolata degli
abitanti del mio quartiere”. Non si chiude
occhio. “Ogni sera ci sono tremila
persone che si riuniscono nella piazza in
cui abito. L’esasperazione di chiunque
viva lì è arrivata a livelli di guardia”, ha
raccontanto in un’intervista a Barbara
Romano di Libero. “Mi augurerei che ci
fosse un intervento regolatore”. Ne avrà
da aspettare, il segretario dei Ds. Neanche
lui, che pure da anni batte e ribatte
sul tasto, è riuscito a spuntare niente.
“Sono molto infastidito da come si sono
degradate alcune zone del centro storico”.
E così il sonno tarda a venire, e più
che l’azzardo del Partito democratico sono
quei megafoni con cui urlano dalla
piazzetta sotto le finestre di Fassino, alle
tre del mattino, insopportabilmente
fastidiosi, manco uno si fosse infilato il
cilicio della Binetti. Sbotta e borbotta
aggirandosi insonne per casa, il leader
di via Nazionale. Sotto, come si dice, “se
magna se beve e se canta”, e ogni sera
porta la sua croce, e Piero fa persino fatica
a concentrarsi sui suoi amati musical.
E non si trova la voglia nemmeno di
canticchiare “Hello, Dolly!”, come ti possono
venire le parole per affrontare il
giorno dopo, diciamo, Francesco Rutelli?
Ma lo sfogo fassiniano, in più sul giornale
di Feltri, è il segno che il limite è
stato passato, la pazienza esaurita, la tolleranza
grattata via. A Veltroni certo le
orecchie devono aver fischiato ma, sarà
colpa del rumore che sale dai vicoli romani,
il casino resta tutto e perfettamente
intatto. “Undici ristoranti in una piazza
di quattrocento metri quadri, mi pare
francamente eccessivo”, ha elencato
Fassino. La piazzetta è a poca distanza
da Montecitorio. “Macché: sette ristoranti,
un’enoteca e un bar”, contabilizza
Luciano Flamini, padrone di uno di
quei ristoranti. Dice: “So’ incazzati solo
in tre, e anche se uno è super importante
non possiamo fare uno scandalo cittadino.
Il divertimento non può essere
bloccato, dalle due di notte è un deserto”.
Dice Flamini che tutte le autorizzazioni
sono state rispettate, che non c’è
problema di ordine pubblico, che i megafoni
li vendono i cinesi nella strada
accanto, che gli ubriachi non ci sono. “I
ragazzi devono andare da qualche parte
a divertirsi”. Il centro della piazza è
occupato dai bar, certe poltrone fintoghepardate
da restare stupiti, e in effetti
i tavolini sembrano inseguirti dappertutto.
Davanti a un piatto di cacio e pepe
Flamini spiega e rispiega, “nel periodo
estivo la gente fa più rumore, si deve
divertire, poi ci sono pure tanti lavoratori”.
Insomma, l’irritazione fassiniana
lui – costretto a chiudere una discoteca
che aveva a Prati, “perché c’era una signora
che per protestare contro il rumore
si metteva su una croce” – non la capisce.
Taglia corto: “A Torpignattara
non è vero che non c’è rumore, a Torpignattara
non c’è Fassino”. Il quale, mica
è da adesso che lamenta la triste sorte
che sale dalla piazza sottostante. Si
racconta di sue telefonate vecchie di anni
al Campidoglio, “anche stanotte non
ho dormito”, ma niente. Anzi, col tempo
sono arrivati pure i cinesi.
Il problema principale della città pare
la sua paura del vuoto. Dove si vede
una piazza silenziosa, uno slargo pacificato,
un vicolo isolato, lì si corre a inzeppare,
a stipare, a pigiare. Niente può essere
lasciato sgombro, solitario, muto.
L’ammassamento avviene di colpo, con
una sorta di ridanciana isteria. Al peggio,
il locale municipio può piazzarci
una statua – cubi o rombi o colonne falliche
di travertino: Michelangelo dovrebbe
pur trovare il modo di vendicarsi
– pacifici giardinetti “riqualificati” (riqualificazione,
tremenda parola nella
capitale, quasi quanto quell’altra dal
suono minaccioso: restyling) in spianate
pietrose dove manco il cane sa più dove
pisciare (ma dove sanno benissimo dove
pisciare gli umani), utili fontanelle riedificate
in inutili fontanoni. Questo in
periferia. In centro, per dirne una, non
si sa più come scampare – in attesa della
rottura di coglioni della notte – la rottura
di coglioni dell’ora dell’aperitivo.
Detta happy hour, si capisce: manco i
giornalisti in pensione dicono più aperitivo.
Per un bicchiere di prosecco e
qualche stitica tartina, si creano assembramenti
che neanche per le selezioni
della “Sposa perfetta”, s’arraffano sedie
e sgabelli e muretti, si punta il residuo
onore (inconsapevoli Siffredi) sulla conquista
di una patatina. E lì tutti stanno,
con il portatile aperto sulle gambe ad altezza
inguine, freneticamente battono e
battono sui tasti, e deve essere un lavoro
defatigante se non si può staccare
neanche per il momento della bevuta. O
magari la solita fuffa, qualche improduttiva
e geniale pippetta tecnologica, però
pure pippetta di tendenza, quella genere
Second life – “Oh, lo sai chi sono diventato?”
“Qualcosa di meglio di una testa
di cazzo?” – facendo onestamente
piuttosto pena la prima – di life, oh yes!
Manco i poveracci alla mensa della Caritas
fanno un simile attruppamento in
attesa dei viveri. Beh, certo, è socialità.
Te ne stai seduto un muretto, con in mano
un bicchierone da dove spuntano
montagne di ghiaccio (colpo mortale al
Polo, tutto il ghiaccio che serve per rinfrescare
un degno happy hour), basilico
o menta o verdura varia, tre o quattro
cannucce colorate: un manufatto di tali
proporzioni che, degnamente riempito,
potrebbe servire per passare lo straccio
a due o tre uffici. Saggiamente, qualche
poveraccio che abita da quelle parti a
un certo punto minaccia la benemerita
secchiata d’acqua, che purtroppo quasi
mai arriva. “Non ti vergogni?”, ha urlato
un signore a una che gli stava pisciando
nell’androne di casa. “Vergognati tu, che
abiti a Trastevere!”, la replica della signora
dall’incontenibile vescica. Con l’avanzare
della notte – aperto lo stomaco
con la prima bevuta – la faccenda si fa
ancora più buia.
Nelle notti romane abbondano il vomito
(dove capita), il piscio (dove capita),
gli ubriachi (in molti posti), il rumore
(dappertutto). L’insopportabilità corre
ormai sotto la pelle della città. Se uno
come Fassino non riesce a cavare un ragno
dal buco, figuratevi un poveraccio
qualunque. L’idea del divertimentificio
capitolino – c’è gente che preferisce Roma
a Rimini, e non certo per la Galleria
Borghese a portata di mano – è andata
forse oltre ogni intenzione, e adesso appare
fuori controllo. Il diritto a rompere
i timpani con urli e strepiti alle tre del
mattino viene, nel migliore dei casi,
messo sullo stesso piano del diritto al silenzio.
E quasi sempre vince il primo. Il
cuore di Roma è un’immensa distesa di
tavolini, tutta una magnata rumorosa
lungo strade e piazze e anfratti. Turisti
dall’aria non proprio sveglissima, camerieri
che funzionano come buttadentro,
cibi a volte ottimi, lasagne che a vederle
fanno ribrezzo. Roma magna e beve. Poi
suona e urla.
Ora qui si pone il problema: come
mai la città che ha il sindaco più beneducato
del mondo, di suo vocato pure alla
letteratura, curioso e sensibile, è diventata
una città di simile maleducazione,
di simile invasione, spesso di simile
cattivo gusto? Ha chiesto un carabiniere
a un inquilino esasperato dal grande pisciatorio
sotto casa sua: “Possiamo venire
sul suo balcone a controllare?”. Massima
disponibilità: “Certo. Basta che
portate pure i cecchini”. C’è l’adrenalina
che corre per i vicoli del centro e c’è
la bile che scoppia nelle case circostanti.
Ecco, questo è il mistero. Persino il
prefetto della città, Achille Serra, garbato
e civile, anch’esso con una vocazione
alla scrittura e portato a una certa comprensione
dei fenomeni della modernità,
“a Montmartre e a Londra locali e
ristoranti non chiudono prima delle tre.
E noi che facciamo, chiudiamo a mezzanotte?”,
è personificazione della buona
educazione. E allora, il “me ne frego” rispetto
a tutti gli altri, da dove nasce?
Questa sorta di regressione al primitivo
e al casino, questa diffusa cafonaggine
di massa, da dove nasce? A macchia di
leopardo, l’irritazione – stando alle cronache
cittadine – s’allarga giorno per
giorno: dalla piazzetta di Fassino a Trastevere,
con certi vicoletti di pochi metri
e più di venti locali, da Testaccio a Prati
a San Lorenzo a Campo de’ Fiori, dove
da tempo si lotta per mantenere il
controllo della zona con una perigliosità
da strategia afghana. “Lì fanno il ‘violence’,
un gioco violentissimo con la palla,
una sorta di uno contro tutti. Ferocia e
feriti”, racconta con amara ironia un poliziotto.
Avanzano i posti di tendenza,
avanza il casino. L’ultima trovata arriva
dal Financial Times, che ha puntato l’occhio
sull’Ostiense, “qui abita la nuova
Dolce Vita”, e se finora intorno al gazometro
se l’erano cavata, adesso arrivano
i problemi. Tutto prende l’apparenza di
Dolce Vita, a Roma, tutto diventa evento,
tutto si stipa e si rifila e si ricicla – e
così diventa pure, per molti, al più solo
una vitaccia. L’esatto contrario di quello
che pure ha sostenuto un architetto come
Massimiliano Fuksas: “Bisogna togliere,
togliere, togliere”.
Pattuglioni di ubriachi vagano per la
città. C’è qualcosa di surreale nelle dispute
che si accendono nella capitale,
dalla “guerra dei tavolini”, apparentemente
una tacca sopra la classica
“guerra dei bottoni”, in realtà marea
montante topomasticamente dilagante,
pure in vicoli dove certe sere quasi non
passi neanche a piedi. Quelle tavolate
all’aperto che Fellini immaginò grevi
ma allegre nel suo “Roma” ormai trasformate
in una palude informe, senza
capo né coda. “Tavolino selvaggio” lo
chiamano i giornali: un classico capitolino.
E poi, la “guerra della bottiglie” –
e leva il vetro, e metti il vetro, e senti il
Tar – e ogni faccenda si fa eterna, e più
si allunga nel tempo e più si allontana
nella soluzione. A Roma l’alcol scorre a
fiumi, quattro ubriachi stranieri hanno
danneggiato la fontana di piazza di Spagna,
e senza alcol una signora si è spogliata
e infilata dentro quella di Trevi.
A volte pare un “tana libera tutti” senza
grazia e senza misura, la capitale. Dicono:
ah, milioni di turisti in più! Una
sorta di altro dogma, i turisti. Ora, se
uno non è un oste o un tassita o un borseggiatore,
che gliene frega dei turisti?
Essendo poi una passione cittadina
quella delle nozze con i fichi secchi, i
turisti son milioni, gli autobus sempre
gli stessi, così ti ritrovi certe chiappone
americane che, puoi spingere come
vuoi, ma sul tram non sali. I giornali,
nelle cronache minute, fanno impressione.
Gli atti di piccola prepotenza e di
piccolo vandalismo sembrano far parte
ormai del paesaggio urbano. C’è chi si
arrangia come può. Su Internet si trovano
testimonianze tra la rabbia e la tenerezza.
“Tempo fa una band composta da
tamburelli, tamburi, fisarmoniche e chi
più ne ha più ne metta, stazionava sotto
la mia finestra, e nonostante un invito
educato ad andarsene ha preso a suonare
a più non posso con evidenti sorrisetti
di sfida. Gli ho fatto il bagno! Tempo
cinque minuti (notate la tempestività)
un carabiniere mi ha bussato alla
porta di casa…”. Perché se non si urla
si suona, essendo il concertino sgangherato
ormai elevato al rango di diritto inviolabile.
“Oggi abbiamo iniziato intorno
alle nove di mattina. Fisarmonica,
poi orchestrina jazz, poi piccola band
di tamburelli e fisarmonica, quindi sassofono
e di nuovo fisarmonica, con un
interminabile medley di brani, da besame
mucho a barcarolo romano passando
per ‘o sole mio. In questo momento
c’è un tale con trombe, trombette, fisarmonica
e strumenti vari, speriamo bene
per la notte”. E neanche è cominciata
la parata musical-godereccia dell’Estate
romana… Al massimo, per ora è il
turno dei punkabbestia, che provano a
intenerire i passanti per scucire qualcosa.
Cioè, ci provano le bestie al seguito,
essendo alla bisogna i padroni decisamente
inadatti.
La Roma incazzata per questo groviglio
di suoni e urla e piscio si ritrova
spesso nelle lettere alle cronache dei
giornali, dal Messaggero a Repubblica
fino a quelle a Maria Latella, che da sei
anni cura quelle del Corriere romano, e
ne ha già lette qualche migliaio. Ed è
appunto la maleducazione montante –
se restiamo al disagio, senza inoltrarsi
sul versante della criminalità – l’elemento
che più colpisce. Caos e schiamazzi,
“scandalosa inciviltà”, i passeggini
dei bambini bloccati, i motorini
ovunque, la notte brava, i vandalismi, le
miniproteste che prendono in ostaggio
tutta la città… Persino l’Atac promette
“interventi formativi mirati allo scopo
di migliorare la professionalità del proprio
personale” (al momento, ha cambiato
le divise). Sì, certo, Roma secondo
le statistiche è decentemente sicura, il
sindaco butta giù ogni schifezza abusiva,
ma a volte la realtà si scontra, pure
mediaticamente, con le più belle intenzioni.
Cronaca di Repubblica, qualche
giorno fa. In alto, articolo sul sindaco
che ha portato aiuti nel Malawi: “Cara
Africa, ritorneremo”. Poco più sotto,
una lettera: “Insultata da un africano in
viale XXI Aprile”. Ecco.
Qualcosa, nella quotidianità di Roma,
sta cedendo. Basta uno sguardo
per accorgersene. Il centro, per esempio,
in certi momenti pare una piccola
Calcutta: una generalizzata corsa all’accattonaggio,
al falso sentimento di
pietà, alla molestia continua. Sciancati
finti e menomati veri che si trascinano
su carrettini, ubriachi che pretendono
al semaforo di lordare con una
pezza i fanali (neanche più pulire il vetro)
e che urlano, zingare finte vecchie
e finte zoppe che arrancano al semaforo
rosso, per scattare con passo lesto al
momento del verde, gente che espone
gambe con croste sanguinanti, monconi
di arti, bimbi costretti a mendicare,
intere famiglie di pulitori di vetri che
presidiano gli incroci più ambiti, posteggiatori
abusivi con l’aria da tagliagole,
quelli che si piazzano dietro le
porte delle chiese. Poi, quasi un’impresa
un viaggio in autobus senza il musicista
ambulante che da tempo ha smesso
di essere il tenero violinista squattrinato
da cinema neorealista, che ti
molla quelle due o tre solite musichette,
indifferente alle chiacchiere o agli
spazi, e con granitica efficienza fa tre
fermate in su e tre fermate in giù, non
una di meno non una di più. Se si percorre
la strada da via Nazionale fino a
via Arenula, attraversando il centro, si
trovano ogni genere di nuovo accattonaggio,
da una vetrina all’altra intere
comitive scandiscono il percorso. E
con un’attenzione capillare ai fatti della
geopolitica, evolvendo anno per anno
da “povera di Bosnia” a “povera di
Romania” – essendo sempre la stessa
sfortunata questuante. Se si riesce a
evitare il borseggio da parte degli zingarelli
– ora spediti a far razzia di vestiti
come adolescenti qualunque: sui
giornali esistono paginate di sequenze
fotografiche che raccontano il danno al
turista più jellato. Roma così si fa insopportabile,
piccolo percorso di esasperazione
quotidiana, tra lo scampare
al borseggio e il parcheggiare con un
ubriaco che ti urla vicino e ti chiede i
soldi. Una faccenda forse complementare
all’altra faccia della città, quella
dei ristoranti, dei mille ritrovi, dei cento
casini: allegra così, così da far tristezza.
Confusione senza allegria, perciò,
qualcosa che pare aver preso del
veltronismo solo l’apparenza, rifiutando
la sostanza. Veltroni, certo, molto si
spende. Evoca memoria (ogni memoria)
e altruismo e buoni esempi. Però a
Marco Lodoli succede di fare un giro
intorno a un liceo e di contare ben 92
(novantadue!) macchinine, quelle con
motore 50, lì posteggiate dagli studiosi
adolescenti. Vengono certi pensieri,
ma forse semplicemente non si fidano
del plebeo autobus. O l’hanno trovato
già pieno di turisti.

Thursday, May 17, 2007

La fuga dei nostri fratelli dall'Iraq

Nel 1976 un team di archeologi iracheni
scoprì una chiesa del quinto
secolo vicino alla città santa sciita di
Kerbala. Costruita centoventi anni prima
dell’avvento dell’islam in Mesopotamia,
la chiesa, durante quell’enorme
campo di concentramento in superficie
con fosse comuni sotto terra che era il
regime di Saddam Hussein, fu trasformata
in un poligono di tiro. “In quel periodo
un milione di persone fu deportato,
per la maggior parte curdi e cristiani”
ha detto il vicepremier Barham Salih.
Saddam pose le chiese sotto il controllo
del ministero delle proprietà islamiche,
noto come “Awqaf”, ne bombardò
a centinaia. I nuovi nati non potevano
essere chiamati con i nomi cristiani
e il siriaco fu bandito. In cambio
il regime garantiva una certa tranquillità
alla comunità caldea, alla quale apparteneva
il ministro degli Esteri di
Saddam, Tareq Aziz.
I cristiani iracheni ora stanno soccombendo
di fronte a una minaccia più
terrificante dell’arabizzazione di Saddam,
che distrusse duecento villaggi cristiani
fra il 1960 e il 1988: l’estinzione fisica
di massa, la caccia all’uomo scatenata
da al Qaida e dall’insorgenza. “Faremo
tutto il possibile per salvarli” ha
detto il premier Nouri al Maliki. Agenzie
di stampa come Fides e AsiaNews,
ma soprattutto organi di informazione
assiri e caldei, diffondono le cronache
sul massacro degli eredi degli apostoli
nella terra dei due fiumi. Un eccidio
che ricorda le immagini dei quattro padri
bianchi uccisi in Algeria nel 1992,
dei sette monaci trappisti sgozzati nel
1996 e delle tre missionarie crivellate in
Yemen nel 1998. Un’ecatombe senza
precedenti. La fine di un mondo. La distruzione
delle origini. “C’è un’altra
guerra in Iraq: la guerra contro la cristianità”
dice Arnold Beichman della
Hoover Institution. Nina Shea, che dirige
il Freedom House’s Centre for Religious
Freedom, definisce i cristiani “canarini
nella miniera del medio oriente”.
E parla di “pulizia etnica”.
Lawrence Kaplan di New Republic
scrive che “sunniti e sciiti concordano
su poco, tranne che sulla persecuzione
dei cristiani”. Andy Darmoo, presidente
di Save the Assiryans, ha parlato di
“fine della cristianità in Iraq”. Oltre la
metà dei cristiani ha già abbandonato
il paese. “Entro vent’anni non ci saranno
più cristiani” dice Wijdan Mikha’il,
ministro per i Diritti umani nel nuovo
Iraq. “Mi sono sempre considerato prima
iracheno, poi cristiano. Oggi si dice
che un cristiano è ‘infedele’”. Liquidata
la comunità ebraica, quella dei Profeti
e degli scribi del Talmud, anche
l’ottanta per cento dei mandei, il più
antico culto gnostico, ha lasciato l’Iraq.
Nel gennaio 2005 una delle loro figure
di spicco, Read Radhi Habib, fu ucciso
dopo aver rifiutato di convertirsi all’islam.
Poi fu la volta dei tre fratelli
Juhily, rapiti e sgozzati. “I fanatici islamici
ci attaccano per ciò che siamo” dice
Yonadam Kanna, parlamentare cristiano
di Baghdad.
E’ stata appena assassinata la segretaria
di una clinica cristiana di Mosul.
Il giorno dopo un fedele della parrocchia
di San Paolo. Quattro mesi fa padre
Munthir, settantenne reverendo
della chiesa presbiteriana di Mosul, fu
ritrovato con un proiettile nel cranio.
“Uccideremo tutti i cristiani iniziando
da lui” avevano detto i rapitori. Poi due
suore caldee, Fawzeiyah e Margaret
Naoum, pugnalate a morte a Baghdad.
Il direttore del Museo nazionale iracheno,
l’assiro Donny George, è fuggito
in Siria. “Centinaia di cristiani sono
stati uccisi e le loro chiese distrutte”,
denuncia Romeo Hakkari, leader di
House of the Two Rivers Democratic
Party. Una buona notizia è che al monastero
di Mar Gorghis di Mosul è stato
inaugurato l’anno accademico di teologia.
Classi rigorosamente miste, nonostante
la minaccia della sharia.
Una bambina caldea di Baghdad è
stata riconsegnata morta alla famiglia
dopo il sequestro. A Tell el Skop sono
appena stati uccisi nove cristiani, fra
cui due bambini. “I cristiani sono ormai
considerati in via di estinzione”. Sono le
parole di Bashar Warda, rettore del Seminario
maggiore trasferito da Baghdad
in Kurdistan per motivi di sicurezza. La
chiesa di Baghdad dedicata alla Vergine
è stata bombardata nel settembre
scorso, uccidendo due fedeli. Il 5 agosto
2005 una studentessa assira dell’Università
di Mosul, Anita Tyadors, venne
giustiziata perché parlava inglese, vestiva
occidentale, era orgogliosamente
cristiana. Pochi giorni dopo ci fu il massacro
di quattro assiri che scortavano
Pascale Warda, l’unico ministro donna
del governo Jafaari. La Society for Threatened
Peoples pubblica un rapporto
sulle violenze contro i cristiani all’Università
di Mosul, “aggrediti come
‘agenti americani’”. I jihadisti usano
contro i cristiani la stessa accusa che la
monarchia hashemita, spodestata dal
fascismo baathista, utilizzò per la loro
collaborazione con l’impero inglese.
“Uniamoci per mettere fine a questa
follia” è la richiesta di aiuto che i vescovi
hanno lanciato al vertice di
Sharm el Sheikh di due settimane fa. Il
portavoce della conferenza dei vescovi
americani, Thomas Wenski, chiede a
Condoleeza Rice di intervenire.
La popolazione cristiana che nel 2003
contava un milione e 200 mila persone,
ora è scesa a 600 mila. A Ninive, antico
nome di Mosul, è nato il profeta Jonah.
Qui caldei e assiri, i più antichi abitanti
dell’Iraq, pregano ancora in aramaico,
la lingua di Gesù. Ancora per buona
parte del Novecento sono state censite
minoranze di ebrei, yezidi e cristiani, e,
tra questi, cattolici, protestanti, mandei,
armeni, ortodossi, nestoriani e monofisiti
giacobiti. Ora a migliaia i cristiani
fuggono verso la città curda di Ain
Kawa. Qui il mullah wahabita Krekar
aveva imposto la chiusura dei negozi
durante la preghiera, il burqa alle donne,
le parabole satellitari e la musica
strumentale, eliminando le foto femminili
da ogni prodotto importato dall’estero.
La libertà tornò sovrana nel 2003,
al seguito delle truppe americane. Città
fiore all’occhiello del generale Petraues,
Mosul è oggi terra di conquista
anticristiana. Negli ultimi quindici giorni
decine di famiglie, le poche che resistono
all’esilio, hanno ricevuto intimidazioni
in cui si chiede di pagare un
“contributo alla resistenza; pena la vita”.
A Baghdad la famiglia di Mazen
Sako è stata attaccata da miliziani vestiti
di nero: “Siamo venuti a sterminarvi.
Sarà la fine per voi cristiani”. Hanno
ucciso Majed di dieci anni. Il patriarcato
caldeo ha trasferito nel Kurdistan il
Babel College, che detiene la più antica
biblioteca cristiana, e il Seminario di
San Pietro. A nord i cristiani sono protetti
dai peshmerga, leggendaria milizia
curda. Gruppi islamici vanno imponendo
la tassa sui “sudditi” a Baghdad e
Mosul, la celebre jiza, l’imposta abolita
dall’Impero ottomano. “I non musulmani
devono pagare il tributo al jihad se
vogliono avere il permesso di continuare
a vivere e professare la fede in Iraq”.
I cristiani sono anche costretti a lasciare
le case dopo che lettere minatorie ne
assegnano la proprietà a musulmani.
Quelli che vogliono vendere non riescono
a trovare acquirenti, gli imam hanno
detto: “Non comprate dagli infedeli, lo
avremo gratuitamente”.
Una fatwa vieta di compiere in pubblico
gesti rituali. “Togliete le croci dalle
chiese o le daremo alle fiamme”. E’
la minaccia alla chiesa caldea di San
Pietro e Paolo di Dora, il grande quartiere
cristiano di Baghdad. Nel febbraio
2004 a Erbil, i tagliateste di Ansar al
Sunna, assassini dei dodici nepalesi,
provocarono cento morti nelle sedi dei
partiti curdi. “I crociati sono entrati nelle
province di Kirkuk” si lesse nella rivendicazione.
Nel 2004 fu ucciso l’assiro
Ra’aad Augustine Qoryaqos, docente di
medicina della al Anbar University.
Nella rivendicazione Zarkawi mise assieme
“la Guardia nazionale pagana” e
i “collaborazionisti crociati”. Nel marzo
2004 due cristiani di Baghdad, Ameejon
Barama e sua moglie Jewded, furono ritrovati
con la gola recisa. Il 21 ottobre la
morte si avventò sul traduttore assiro
Layla Elias Kakka Essa. Sono oltre trecento
i traduttori assassinati dai terroristi.
Un numero di poco superiore a
quello degli accademici uccisi dal 2003.
Un mese dopo al Qaida passò al lancio
di granate sulle chiese. Shlemon
Warduni, vescovo dei caldei di Baghdad,
ha detto che “da due mesi molte
chiese non hanno più croci sulle loro
cupole”, come la chiesa assira di San
Giorgio, a cui gli islamisti hanno staccato
la croce, per quella caldea di San
Giovanni ci hanno pensato i fedeli. L’agenzia
Sir rende noto che i cristiani di
Dora possono rimanere solo se accettano
di dare in moglie una figlia o una sorella
a un musulmano, creando i presupposti
di “una progressiva conversione
dell’intero nucleo familiare all’islam”.
Raymond Moussalli, portavoce
dei rifugiati cristiani, ha detto che sette
chiese a Dora hanno chiuso. Una
fatwa vieta di portare la croce al collo.
“I cristiani stanno morendo” dice Louis
Sako, arcivescovo di Kirkuk, mentre
giungono notizie di autobombe e uccisioni
di cristiani anche dalle zone curde.
Padre Adris Hanna avverte che “i
preti vengono rapiti, le donne violentate,
a Bassora un ragazzo di 14 anni è stato
crocefisso”. “Quella dei cristiani iracheni
è stata fra le prime comunità al
mondo, con il rito siriaco e la lingua
aramaica” dice padre Bernardo Cervellera,
direttore di AsiaNews. “E’ in
corso una guerra contro il cristianesimo
e ‘la’ radice cristiana. Queste comunità
sono importanti nella storia dell’evangelizzazione.
La difesa dei cristiani
non è confessionale, ma di civiltà. Il tradimento
dell’occidente è complice dell’islamismo
panarabo”.
Nel mirino anche i pagani. Tre settimane
fa sono stati giustiziati 23 yazidi,
antichissima setta prezoroastriana, sulla
strada fra Mosul e Ba’ashika, villaggio
a maggioranza cristiano. Hanno fermato
l’autobus e li hanno uccisi dopo
aver fatto scendere i cristiani, a cui
hanno imposto la tassa. Il 21 ottobre
2004 i corpi di due yazidi furono trovati
senza testa fra Talafar e Sinjar. Alle
donne cristiane viene chiesto di rispettare
la sharia, altrimenti rischiano la
morte, e alcune sono state uccise.
Anche la nuova Costituzione, la prima
antifondamentalista del mondo islamico
e sostenuta dai cristiani, è al centro
della furia jihadista perché all’articolo
14 dice che “gli iracheni sono tutti
uguali senza distinzione di sesso, etnia,
nazionalità, origine, colore, religione”,
e all’articolo 7: “Ogni comportamento
che appoggi, aiuti, istighi o propaghi il
razzismo, il terrorismo, il takfir (dichiarare
infedele), la pulizia etnica sono
proibiti”. Nell’ideologia takfir è lecito
uccidere gli “infedeli”, compresi i musulmani
che non seguono la sharia. E’
ammesso l’omicidio di bambini perché
non pecchino in futuro. “Avete goduto
della pace nella terra dei musulmani.
La vostra malevolenza è diventata evidente
quando sono penetrati gli invasori.
Hanno trovato grande sostegno fra i
cristiani come interpreti e informatori.
I cristiani sono agenti degli occupanti”.
Questo mandato di morte fu diffuso dalle
“Brigate per la liquidazione degli
agenti cristiani”.
A settembre fu decapitato padre
Amer Iskander, sequestrato dopo il discorso
a Ratisbona di Benedetto XVI
dai “Leoni dell’islam”. “Il ciarlatano
Benedetto XVI ricorda Urbano II a Claremont”
disse il successore di Zarkawi,
Abu Ayyub al Masri. L’uccisione del coreano
Kim Sun-il fu rivendicata contro
“un cristiano che voleva evangelizzare
la terra dell’islam”. I rapitori di Iskander
volevano trenta cartelle di scuse affisse
sulle chiese di Mosul. Il ministro
curdo Sarkis Ghajan doveva bloccare la
costruzione di case per i cristiani in arrivo.
Il giorno della morte di Iskander,
padre Joseph Petros fu ucciso a Baghdad.
All’Agenzia Fides una suora dice
che “la responsabilità è degli imam che
dicono che uccidere un cristiano non è
reato. E’ una caccia all’uomo”. Tra i mestieri
più colpiti i commercianti di alcolici,
un lavoro permesso sotto Saddam.
Dalla “Rabbia di Allah” all’“Organizzazione
della dottrina islamica”, i wahabiti
vanno a caccia di mercanti di alcol.
Il 95 per cento dei negozi di liquori gestiti
da cristiani ha già chiuso. Nel maggio
2003, lo sceicco sadrista Mohammed
al Fartousi emise una fatwa contro alcolici
e cinema. Fra i primi a morire ci
fu Sabah Sadiq, mentre andava a pagare
il riscatto del fratello. La categoria
dei barbieri è un’altra fra le più insanguinate.
Dopo Baghdad e Mosul, negli
ultimi giorni sono stati colpiti a Kirkuk.
Nel 2005 a Baghdad quaranta barbieri
crivellati o sgozzati.
A Mosul situazione anche peggiore.
Sulle vetrine ci sono volantini di “Monoteismo
e Jihad”, l’organizzazione di
Zarqawi. Il testo invita i barbieri a non
offendere l’islam col taglio rasato. Pena
“la decapitazione del barbiere e del
cliente di fronte ai famigliari”. Altri crimini:
ascoltare musica occidentale, indossare
jeans, vendere film, danzare,
commettere adulterio e, nel caso delle
donne, non coprirsi o camminare senza
un uomo. Una campagna è stata lanciata
contro l’“arte non islamica”. Una serie
di sculture pagane sono state polverizzate.
Una famosa statua nella parte
nord di Mosul è stata distrutta perché
ritraeva donne con le giare sulle spalle.
Sono stati frustrati dei cristiani accusati
di bere alcol. Il corpo di una donna in
vestaglia è stato ritrovato per strada.
“Una prostituta punita” diceva il cartello.
Che tutti prendessero nota. I barbieri
hanno esposto cartelli in cui si legge
che “non si effettuano né il taglio rasato
né la rasatura della barba”. I cristiani
che non si sono dati alla clandestinità
hanno messo scritte cautelative:
“Niente massaggi al viso”. Su un autobus
di linea il conducente ha imposto la
divisione fra uomini e donne. Altri volantini
obbligano i negozi di abbigliamento
a coprire i manichini. I bagni
pubblici hanno chiuso a causa di una
fatwa sul sapone, “non esisteva all’epoca
di Maometto”. Gli ordini arrivano fino
all’assurdità: i ristoranti, molti cristiani,
non possono preparare insalate
di cetrioli e pomodori, uno è femmina e
l’altro maschio. Le donne cristiane non
si mostrano in pubblico senza il velo. I
muri della città sono tappezzati di volantini
che intimano di “seguire le orme
della nostra signora Maria che si copriva
il capo. Pena la morte”.
All’indomani dell’11 settembre, le televisioni
di tutto il mondo trasmisero
uno spot di al Qaida. Un drappello di
jihadisti fa irruzione in una casa, marcia
sotto il funebre stendardo, spara
contro un bersaglio. Una croce cristiana.
Simbolo da abbattere, come le bellissime
giare di Mosul, come i meravigliosi
Buddha di Bamyan, come padre
Iskander. Pochi compresero la simbologia.
Nel 1998 il vescovo pachistano John
Joseph si sparava alla tempia davanti a
un tribunale in cui era stato condannato
a morte il cristiano Ayub Masih. Oggi
come allora, le ciglia del mondo libero
si abbassano sulla sorte dei cristiani. In
Iraq, la terra dell’Eden, la patria di
Abramo da cui partirono gli evangelizzatori
della Cina, una storia millenaria
si sta spegnendo come cenere fredda.

Wednesday, May 16, 2007

Ayaan Hirsi

E’ dal gennaio del 2003 che Ayaan Hirsi
Ali cammina guardandosi le spalle. Da
quando il quotidiano Trouw pubblicò un’intervista
in cui riservava parole durissime
all’islam. Nella segreteria telefonica trovò
il messaggio di un arabo che minacciava di
farle saltare in aria la casa. La polizia organizzò
ronde per difenderla. Era impreparata
alla caccia scatenata contro la più celebre
dissidente islamica. Una fatwa che nel
paese di Spinoza si concluderà con il suo
esilio negli Stati Uniti. Dopo quattro anni,
anni trascorsi in basi navali e caserme militari,
Ayaan vive protetta dalla scorta. Anche
adesso che abita a Washington, anche
in Italia dove è venuta a presentare il suo
“Infedele” (Rizzoli).
Era lei l’obiettivo di Mohammed Bouyeri.
Troppo protetta, fu scelto l’amico e collega
Theo van Gogh. Lasciò una lettera infilzata
sul suo petto, rivolta alla “guerriera
del male” Hirsi Ali, “malefica infedele”. Il
testo si apriva con le parole “Nel nome di
Allah clemente misericordioso”, seguite da
una citazione del Profeta. Poi l’elenco di
tutti i “crimini” che Ayaan aveva commesso.
Contro di lei si sono scomodati gli ambasciatori
di Malesia, Pakistan e Arabia
Saudita, che ne hanno chiesto l’espulsione
al governo dell’Aia. Non c’è alcun terrore
sul suo volto, ma la luce rincuorante di
una giovane donna abituata a sentirsi chiamare

“aswad abda”, schiava nera, durante il periodo
trascorso fra i custodi dei luoghi santi
dell’islam. Abituata a vivere anche nel
cortile dell’ambasciata d’Israele all’Aia.
Nell’intervista che segue concessa al Foglio,
questa partigiana somala stile Gertrude
Bell dice che rifarebbe il film “Submission”,
costato la vita a Van Gogh. Ayaan parla
la lingua di un ghetto vivo che reclama libertà.
“Il mio è stato un viaggio dalla sottomissione
all’islam, al clan e alla famiglia
verso la possibilità di determinare il mio
destino. Ho lasciato il mondo della mutilazione
genitale per quello della ragione. Sto
lavorando a un nuovo libro e al sequel del
film. Il primo era sulle donne. Il secondo su
quattro uomini: uno che odia gli ebrei, un
gay, un bon vivant e un martire. Dobbiamo
girarlo nell’anonimato. Dagli attori ai tecnici
nessuno sarà riconoscibile. Non si dice pentita
pentita del lavoro realizzato con quell’olandese

dal nome altisonante. “Chi dice che
il film era offensivo non vuole vedere la
condizione delle donne nell’islam. I versetti
che incitano alla violenza li ho presi dal
Corano e li ho incisi sul corpo della protagonista.
Non ho inventato nulla. Gli imam
ripetono quel messaggio nelle moschee,
mariti e fratelli perpetuano nelle case la
sottomissione”.
Ayaan non partecipò al funerale di
Theo. Avrebbe messo a rischio la vita degli
altri. Le fu concesso un saluto all’obitorio.
“Arrivai con un convoglio di automobili e
una schiera di uomini armati. Lo baciai
sulla fronte e gli dissi: ‘Perdonami per
quello che ti ho fatto’”. Durante la commemorazione,
la madre di Theo si rivolse simbolicamente
ad Ayaan. “Disse che non dovevo
sentirmi in colpa per l’omicidio del figlio:
erano quindici anni che veniva minacciato.
Mi chiamò per nome, si rivolse a
me direttamente: mi disse di portare avanti
la mia missione. Dopo qualche giorno
scrissi una lettera alla famiglia di Theo. Gli
uomini della sicurezza la lessero, prima di
recapitarla, per controllare che non ci fosse
alcun indizio che potesse rivelare dove
mi trovavo”. E’ la vita di “una delle donne
più coraggiose del nostro tempo”, secondo
la definizione del Jerusalem Post. Quando
il personale di un hotel scopre chi è, la
scorta la fa subito trasferire.
Ayaan Hirsi Ali non aveva nulla in contrario
a che Tariq Ramadan parlasse in un
Festival della filosofia, come è successo a
Roma: “Credo nella libertà di opinione, è
questo ciò che mi ha insegnato l’occidente.
Anche se le idee sono orribili.
Le persone possono ascoltare e giudicare.
Però deve esserci contraddittorio.
Ramadan è in cerca di proseliti.
E’ un seguace della ‘dawa’, la
chiamata, le terre non islamiche come
zona di conquista, ogni convertito ha
l’obbligo di predicare l’islam agli altri. E
non è un ‘riformista’: non mette in discussione
il fatto che Maometto avesse per moglie
una bambina di nove anni, non denuncia
l’uccisione di ebrei, omosessuali,
‘infedeli’ e il jihad. Come Ramadan è lo
sceicco Yusuf al Qaradawi. Dice che
l’apostata non ha diritto di vivere. E’ la fine che

dovrei fare io. Per gli agenti dell’islam,
quelli che vogliono creare un califfato, non
importa che tu sia conservatore o liberal.
Sei comunque ‘infedele’. L’occidente può
vincere solo se prima riconosce di essere
in guerra. Una guerra contro una mentalità,
un’ideologia, una filosofia. L’islam ha
tre metodi di conquista: la ‘dawa’, la natalità
e il jihad. Dobbiamo dichiarare guerra
alla propaganda islamista”.
Ayaan parla della funzione della dissidenza
contro il “nuovo totalitarismo”, a
Berlino tenne un discorso memorabile su
questo tema. “I dissidenti sono importanti
come lo erano durante il comunismo. Gli
unici che mettono in discussione la cultura
del martirio e del jihad. Ma la società occidentale
preferisce affidarsi a gente come
Ramadan: non si parla con un apostata, non
si dà credito a chi è uscito dall’islam, i dissidenti
sono pazzi. E’ quello che si diceva di
quelli russi. Erano pochi e oppressi, i liberal
ne fecero una caricatura. I nostri avversari
ricorrono a ogni genere di manipolazione,
dicono che siamo deboli di mente.
Anche i difensori del comunismo usavano
questi metodi. Mi hanno accusato di aver
creato un ‘trauma’. Dipendono da me le
Torri gemelle abbattute con tremila persone
o le vittime di Londra nel 2005?”. Si parla
spesso di “equivalenza di fondamentalismi”.
“Il relativismo non è altro che razzismo
di basse aspettative. La sinistra crede
che musulmani, arabi e gente di colore non
vadano trattati come adulti. Prendi Paul
Wolfowitz e il linciaggio a cui è stato sottoposto
con la compagna Shaha. Kofi Annan
era un corrotto e suo figlio era in affari con
Saddam Hussein. Ma nessuno gli ha mai
chiesto di dimettersi. Questo vale anche per
gente come Ian Buruma e Timothy Garton
Ash, che mi accusano di essere una fanatica
dell’illuminismo. Sono cresciuti in un
ambiente in cui era di moda e scontato criticare
la cristianità. Però dicono che non
dobbiamo mettere in discussione l’islam”.
La famiglia di Ayaan possedeva una pecora.
“La prendevo di punta e scappava.
Mia nonna diceva: ‘Accarezzala sulla fronte’.
Così diventava mansueta. E’ quello che
stiamo facendo con l’islam, lo accarezziamo
nella speranza che non attacchi. In Africa
usavamo gli animali come metafora. Per lo
struzzo ci sarà un islam europeo. Un islam
stile Prada sostituità quello rurale. Il gufo,
l’animale notturno che attraversa le tenebre,
vede invece ciò che lo struzzo ignora.
Come il successo del totalitarismo islamista”.
L’ex ministro della Giustizia olandese, Piet Hein Donner, dice che se i musulmani
fossero maggioranza, la sharia potrebbe essere
adottata per vie democratiche. “Sono
le parole di chi ha conosciuto solo la libertà.
E ha smesso di darle valore. Ma sono
dei musulmani i primi sospetti sui liberal,
sanno che non li prendono sul serio. I liberal
vorrebbero rendere uguali a loro tutti i
musulmani”. La “colpa” di Ayaan è aver attaccato
il cuore dell’islam. “A Beslan, Madrid,
Bali o nel caso dei cristiani sgozzati in
Turchia non vi è odio all’opera, ma la fede.
Gli assassini degli innocenti credono di avere
mandato divino. L’islam ha caratteristiche
che possono coesistere con la democrazia.
Mi è stato insegnato a essere generosa
con i vecchi e i poveri. Ma i principi
fondamentali dell’islam e della democrazia
sono incompatibili. Ha visto cos’è successo
a Robert Redeker? Linciato. I vignettisti danesi
vivono in clandestinità. L’unica distinzione
è fra l’islam e i musulmani, non credo
in una riforma della fede. Ricordo in Arabia
Saudita le impiccagioni, il taglio delle
mani, le donne lapidate. Il rispetto letterale
del Profeta è incompatibile con i diritti
umani. Credo invece nella persona, nel musulmano.
A lui è concesso di cambiare, come
a me, cresciuta nell’odio degli ebrei”.
Il suo nome in somalo significa “fortunata”.
In un inglese macchiato dalla malinconia
dell’esilio che la spinge a chiamare Amsterdam
con il nome ebraico di Mokum,
Ayaan dice di aver maturato un amore atleatletico
per l’America. “Un paese dove non conta
colore, sesso o religione. L’America è un
concetto di libertà. Non ho intenzione di lasciarla.
L’occidente dà per scontata la libertà.
Deve proteggerla dai predatori. Ho
sostenuto la guerra in Iraq e continuo a farlo.
Detesto la codardia di chi votò per la liberazione
di Baghdad e oggi balbetta: ‘Sono
contrario sono contrario’. Sono solo degli
stupidi”. Il giorno dopo la visita al corpo di
Theo all’obitorio, Ayaan fu portata in un
centro per l’addestramento degli agenti di
polizia nei pressi di Hoogerheide. Passò la
notte in una delle cuccette. Le tornarono in
mente le parole di Theo alla fine delle riprese:
“Sono fiero del mio lavoro”. Quella
speciale fierezza che lei adesso predica in
giro per il mondo, nobile ambasciatrice di
un’idea che ha imparato a difendere come
pochi altri sanno fare. La libertà.
Directory of General Blogs BlogRankings.com