Thursday, March 29, 2007

La difficile gestione delle città

Jacques Donzelot è considerato uno dei massimi studiosi francesi delle trasformazioni urbane a partire da quell'osservatorio «speciale» che sono le banlieues. Nei suoi libri alterna una robusta ricostruzione storiografica all'antropologia, alla sociologia. Recentemente ha pubblicato un saggio nel quale ritorna sulle rivolte del novembre 2005 - Quando la città si disfa - proponendo un modello di analisi delle trasformazioni urbane ed una «decostruzione» dell'intervento pubblico nelle banlieues. Un testo che può essere considerato un nuovo capitolo di un libro iniziato a scrivere trent'anni fa e che ha avuto come tappe l'analisi de La polizia delle famiglie, dello Stato animatore. Saggio sulla Politique de la Ville con Philppe Estebe (1994) e di Fare società: le politiche urbane in Francia e negli Stati Uniti (2004). L'intervista è avvenuta a Roma, dove Jacques Donzelot è intervenuto a un seminario organizzato dall'Università di Roma Tre per poi spostarsi a Bari per partecipare a un convegno sulle periferie urbane del Meridione organizzato dalla Cgil.
In Francia, le sommosse del novembre 2005 nelle banlieues sono state interpretate attraverso la griglia di una mai sopita «questione sociale». Ci sono stati invece studiosi che hanno letto la rivolta dei banlieuesard come un fenomeno di rifiuto delle forme di governo della realtà metropolitana. Cosa ne pensa?
Direi che nella rivolta delle banlieues sono presenti entrambi i i fenomeni. Siamo, infatti, di fronte sia alla manifestazione di una «questione sociale» che ha una rivolta specificamente metropolitana contro le forme di governo urbano. Occorre, infatti, essere ciechi per non riconoscere la profonda disuguaglianza che condiziona l'accesso agli studi, all'occupazione e soprattutto ad un lavoro che sia coerente con gli studi compiuti nel caso di una persona che risiede nei cosiddetti quartieri di «relegazione». Allo stesso tempo, non possiamo che partire dal fatto che nelle banlieues si concentra la metà dell'edilizia sociale disponibile in tutto il paese. Sono insediamenti urbani che richiamano sia la forma dell'enclave che il risultato di un eccessivo decentramento amministrazione.
La discriminazione colpisce tuttavia con una precisione agghiacciante: a parità di requisiti, le possibilità di essere assunto per un giovane di banlieue rispetto ad un giovane bianco autoctono e proveniente da un quartiere benestante è di 1 a 2. È innegabile che il colore della pelle di un ragazzo beur sia considerato un handicap da parte di molti datori di lavoro, timorosi che la sua presenza risulti sgradita a molti clienti, se si tratta di un lavoro a stretto contatto con il pubblico. Allo stesso tempo, occorre essere stupidi per non vedere a qual punto e con quale rapidità la città si sia frammentata e che tale frammentazione abbia accentuato una tendenza a costituire insediamenti urbani basati su affinità elettive, sull'omogeneità sociale e di stile di vita che non eterogeneità sociale e la convivenza con il «diverso». Sembra proprio che le classi medie e superiori non vogliano più condividere lo spazio urbano con il «mondo operaio», in tutte le sue complesse articolazioni. Le classi medie e superiore vogliono cioè vivere con i propri simili.
Alcuni sociologi come Marco Oberti (autore insieme a Huges Lagrange di una recente ricerca sulle rivolte del novembre 2005, La rivolta delle Periferie, Bruno Mondadori, 2005) sostengono invece che le classi medie, soprattutto quelle che lavorano nella funzione pubblica, non sarebbero ostili alla mixité sociale. Purtroppo, le loro inchieste si sono concentrate in quei comuni dove gli eletti di sinistra compiono sforzi particolari in questo senso, dimenticando però che sono i comuni dove è altissima la percentuale di scuole private. Si tratta di una logica della separazione molto insidiosa. Nel caso delle banlieue coinvolte dalle rivolte del novembre 2005, va ricordato che hanno visto forme di insubordinazione sorrette spesso da una «logica da ghetto». Mi spiego meglio. Come in una prigione, dove si ha solidarietà esclusivamente in forma di ostilità contro il mondo esterno, nel sentimento condiviso del sentirsi tutti - egualmente - delle vittime, l'ostilità è rivolta all'interno e contro i simboli di tale universo concentrazionario. Allora, in questo caso, si brucia tutto: macchine, negozi, scuole. Dunque, nella rivolta del novembre di due anni si manifesta una «questione sociale» e il rifiuto di una certa politica della città
La banlieue francese è nata come potente meccanismo di coesione sociale, di modernizzazione del sociale per mezzo dell'urbano, per usare una definizione da lei usata. Non le sembra che ci troviamo di fronte al suo fallimento?
Si, siamo di fronte all'esaurimento di quell'esperienza. L'idea di modernizzare la società per mezzo dell'urbano rimanda all'ultimo dopoguerra. La Francia era ancora un paese a forte dominante rurale. La città evocava l'affollamento, la mancanza di comodità ed igiene. Per attirare i lavoratori agricoli nelle città al fine di sostenere il processo di industrializzazione fordista, l'amministrazione statale decise la messa in opera di un grande progetto di urbanizzazione il cui principio fondamentale era quello di costruire dei quartieri che fossero delle anti-città; dei quartieri che in altre parole non comportassero i rischi delle città, liberi dal problema dell'affollamento e dal rischio della violenza urbana; spazi che permettessero alla classe operaia di vivere una vita familiare corretta in una condizione di igiene e di comfort, senza che i bambini giocassero in strada (come succedeva normalmente nei centri storici) o che i capofamiglia spendessero il proprio tempo nei bistros (infatti, niente bistros in banlieue). E' una modernizzazione che promuove l'integrazione della classe operaia. La casa serve al lavoro, questa è la filosofia di base.
Ma con gli anni Settanta assistiamo però anche alla fine di questa peculiare forma di urbanesimo fordista. Lo spazio urbano, nonostante la tanto decantata exception francaise, ha conosciuto ciò che in Francia è stata chiamata una modernizzazione senza modernità....
In un quadro sociale profondamente mutato, gli effetti della «promiscuità» sociale sono apparsi progressivamente intollerabili agli occhi di quei settori di classe media che risedevano in banlieue. Inizia così la fase dello sviluppo «peri-urbano» e del mito della casa individuale nel verde. Questo avviene mentre viene avviato il processo di «relegazione», cioè l'assegnazione degli appartamenti resisi liberi con la fuga della middle class dalle banlieues a nuclei familiari d'origine immigrata prevalentemente provenienti dal Maghreb. Questo ha sì permesso di salvare la vivibilità nelle banlieues più invivibili, ma al prezzo di un confinamento delle componenti più deboli della popolazione in luoghi svantaggiati e lontani - in senso sia spaziale sia sociale - dal mercato del lavoro. Si tratta di una situazione che rimanda a quel processo più ampio di riorganizzazione dello spazio tipico delle società avanzate che ho definito come città a tre velocità. Assistiamo cioè alla coesistenza di tre fenomeni: il costituirsi di questi spazi di «relegazione» dove si ha una sorta di stagnazione degli abitanti in luoghi non connessi ai grandi flussi, dove popolazioni di origine immigrata non si sentono appartenere né al proprio paese d'origine né alla società nella quale essi vivono; l'emergere degli spazi di «peri-urbanizzazione», quelli dominati da agglomerazioni di case individuali sempre più lontane dall'urbanizzazione storica, dove vivono le classi medie per meglio proteggersi dalla racaille di banlieue, ma anche perché i valori immobiliari nei centri urbani sono saliti troppo perfino per una famiglia di classe media; infine, gli spazi della gentrification: spesso vecchi quartieri popolari di grandi città che acquisiscono valore contestualmente al crescere della presenza di esponenti delle professioni legate alla nuova economia dei servizi, con la loro cultura transnazionale e la loro ricerca di servizi - specie ricreativi e culturali - di prestigio.
In Francia assistiamo a un forte interventismo delle strutture pubbliche che sempre più spesso non è coronato da successo. Si tratta, tuttavia, di un discorso pubblico dai contorni neo-coloniali nel quale la banlieue ed i suoi abitanti diventano l'eccezione da ricondurre alla norma, un vulnus del patto repubblicano o la sede di una concreta minaccia «comunitarista»...
Il fallimento dell'intervento pubblico è dovuto a un determinismo urbanistico feroce che ignora gli uomini e le donne che vivono in quello spazio urbano. Da qui, il desiderio di liberarsi di questa «popolazione pericolosa». La cosiddetta «politica della città» è diventata un meccanismo che premia le amministrazioni locali che accettano di demolire la più grande quantità possibile di immobili in cui vivono le minoranze etniche. Questi immobili sono numerosi, almeno quanto gli eletti locali che desiderano farli sparire. L'agenzia nazionale di rinnovo urbano finanzia i progetti in base al numero di demolizioni previste. Non si tratta quindi di una forma di partenariato ma di un meccanismo di ricompensa ed incitamento in stile anglosassone, con in più un autoritarismo alla francese.
Nella discussione francese si aggira il fantasma del legame sociale. Per quanto riguarda la «politique de la ville», il riferimento a una necessaria ricerca di legame sociale è costante. Di fronte al fallimento clamoroso di quanto fatto fino ad ora, lei scrive della possibilità concreta di rifare la città, di ricostruire legame urbano...
Il volume Quand la ville se défait è proprio dedicato a questa possibilità. Rifare la città e re-imparare a fare società significa prima di tutto riequilibrare il rapporto fra luoghi e flussi, limitando il tempo di permanenza in questi ultimi, per esempio. Più in generale, attraverso una combinazione di interventi a sostegno della mobilità delle persone e dell'elevazione di quella che io chiamo la capacità di potere del soggetto sul luogo in cui vive, possiamo forse ritrovare lo spirito della città, la facoltà cioè di slegarsi e legarsi liberamente in uno spazio che offra a ciascuno una dimensione intima e privata che sia però aperta all'esterno ed al movimento. Per quanto riguarda la realtà dei quartieri di «relegazione», è evidente che i grandi programmi di demolizione siano molto amati dal sistema politico, perché è la strada più spettacolare, più mediatica.
E tuttavia la «riqualificazione urbana» tramite demolizioni non funziona se non c'è partecipazione delle popolazioni interessate. Secondo alcune ricerche condotte in Francia abbiamo appreso che i disordini del novembre 2005 hanno avuto luogo specialmente nelle banlieues coinvolte in programmi di demolizione. Sono rivolte che muovono dal sentimento di persone che si sentono ridotte a cose, che si possono spostare senza che abbiano alcun diritto di parola ed espressione. Le operazione di riqualificazione hanno senso solo se sono l'occasione del processo inverso: quello di un'elevazione della capacità di potere delle popolazioni nei loro quartieri, nelle loro città e soprattutto nelle loro vite.

Friday, March 23, 2007

Waiting for the Bubble

La «bolla del Web 2.0: perché la rivoluzione dei social media scomparirà frignando». Questo il titolo di una puntigliosa analisi del fenomeno del momento, a firma di Michael Hirschorn sul numero di aprile di Atlantic Monthly. L'autore è uno dei dirigenti di Vh1, network televisivo di New York, giornalista e saggista. Un testo impietoso che rafforza il pensiero critico nei confronti dello stralodato Web 2.0: una moda, una 'buzz word' ben inventata per attirare capitali. Con il risultato del tipico hype che va generando una bolla speculativa simile a quella della prima Net-mania nel 2000.
Non è certo da ieri che queste avvisaglie vengono rilanciate negli Stati Uniti, ai convegni, online e sulla stampa, pur se raramente conquistano la prima pagina. Qualche mese fa un editoriale della rivista ZDNet, commentando proprio il «Web 2.0 Summit» di San Francisco, puntualizzava l'evidente scarsità di innovazioni concrete, con una «miriade di start-up alla rincorsa di MySpace». La cui strategia, incalzava un'articolata analisi di Technology Review, minaccia di sfruttare «l'energia populista degli utenti» per intrappolarli nel solito «mondo del commercialismo dei big media». Non a caso la pagina personale del gigante degli hamburger BurgerKing vanta oltre 135.000 'amici', e più di 200 mila il produttore di cellulari Helio. Di fatto MySpace è sempre più un giardino recintato, zeppo di esche per il business e lontano quelle caratteristiche di partecipazione e condivisione che sono sembrate animare il Web 2.0.
Eppure la creatura di Rupert Murdoch, insieme a YouTube e pochissimi altri, rimane l'esempio più citato nell'immaginario popolare e il più imitato da enterpreneur vecchi e nuovi. Alzando, appunto, un gran polverone e dimenticando (anzi, facendo dimenticare) come il social networking online sia tutt'altro che una novità. Semmai fu il senso stesso di Internet fin dalla sua nascita, con le prime email tra i ricercatori di Arpanet nel 1971 e il WWW ideato da Sir Tim Berners-Lee nei primi '90. E cos'erano le Bbs e i conferencing system dei primi '90? Rigorosamente text-only, con modem a 2400 o 4800 bps e una lenta connessione risolta dal fischio liberatorio del contatto stabilito, quando andava bene. Ma già allora reti di socialità, condivisione, discussione aperta.
Insiste Hirschorn: «I social media sono stati in giro fin dall'alba del Web. Ricordiamo GeoCities? L'innovazione chiave che lanciò l'attuale moda era semplice: mettere in rete gli utenti e consentire loro di interagire come si fa nella vita reale - o almeno come avremmo voluto fare nella vita reale. Sono anni ormai che usiamo i blog».
Per passare poi in rassegna alcuni esempi che tentano di sfruttare quest'ondata di esagerazioni online a puro scopo monetario ecco quanto riporta la società di consulenze VentureOne: solo in Usa «nei primi mesi del 2006 quasi 500 milioni di dollari di venture capital sono stati versati in aziende di social media». A sua volta il Wall Street Journal cita il venture capitalist Todd Dagres: «Molti progetti sono incompleti e incompetenti, con modelli di business basati più sulla pura visibilità che sul cash flow, e una corsa esponenziale verso contratti del tipo 'aspetta, ci sono anch'io'».
Come per lo storico boom di America On Line poi andato in cenere, MySpace & Co. puntano a strategie da 'giardini recintati', deliziosi e profumati quanto vogliamo, ma che prima o poi finiranno per sciogliersi nell'enorme territorio assai più libero e meno controllato (e commerciale) del magma digitale. Il vero valore di questi mega-spazi sociali sta nella loro capacità di monetizzare, soprattutto tramite inserzioni e marketing, il traffico generato dai propri utenti. I quali, specialmente se attirano un gran numero di visitatori, vanno rendendosi conto invece che il «loro futuro sta nel guidare la gente fuori da MySpace su pagine proprie, più robuste e personalizzabili ... perché lì la baraonda digitale vive all'interno di un ambiente fermamente sotto controllo».
Mentre questi strumenti social vanno diventando inevitabilmente meno attraenti e più scontati, chiude l'articolo, utenti popolari come l'ormai leggendaria Tila Tequila di MySpace cominceranno ad emigrare altrove portandosi dietro gli oltre 1,5 milioni di amici. Già, perché con tutti i piagnistei degli accoliti di ieri e di domani, l'esodo continuo rimane la norma del cyberspace. Soprattutto quando è in gioco la convivialità. Mentre questi recinti andranno facendosi giocoforza più angusti, vedi già i divieti ai widget su MySpace o le restrizioni anti-copyright di YouTube, è assai probabile che la bolla continuerà a gonfiarsi prima del botto finale.

Thursday, March 22, 2007

Kareem Abdul Jabbar

Kareem Abdul Jabbar è sempre stato un
profeta. Uno che indica la strada. E’ stato
il più carismatico giocatore di basket professionistico
d’America – più di Magic Johnson,
Doctor J e Jordan – perché la sua presenza
in campo, nella squadra, nel campionato,
ha sempre travalicato il fattore meramente
sportivo, l’eccellenza atletica, la
sua attitudine alla leadership, portando con sé un
fattore aggiuntivo imprescindibile, fatto di dignità,
consapevolezza,quoziente sociale che andava oltre infilare
con inquietante regolarità la palla nel cesto, a colpi di
“ganci cielo” – il suo tiro prediletto. Kareem
era lì anche per dare spessore allo sport, per
dargli significati ulteriori e condivisibili, per
attenuare le tensioni e gli eccessi e per fungere
da pesce pilota per tanti ragazzi che
guardando a lui vedevano un raggio di luce.
Kareem, del resto, quella vita l’aveva fatta da
sempre. Venuto su ad Harlem in una famiglia
in cui la cultura veniva al primo posto,
quando, a soli dodici o tredici, capisce che
con la sua messe di centimetri (217) e con la
grazia con cui si muove per il campo e tratta
la palla, avrebbe costruito il proprio futuro e
avrebbe avuto l’opportunità di parlare al
mondo, si assoggetta con tranquilla disciplina
al proprio destino. Jabbar, che prima della
conversione all’Islam si chiama Lew Alcindor,
è stato una stella praticamente per
tutta la vita, a cominciare dal playground sulla 125sima,
lo stesso in cui sono fiorite le più
straordinarie leggende sportive di New York
(e le più affascinanti sono quelle su coloro
che non ce l’hanno fatta, che si sono persi
per strada, restando modeste glorie locali invece
che proiettarsi sul palcoscenico assoluto).
Il giovane Lew invece la trafila la fa tutta:
da ragazzino porta la sua scuola, la Power
Memorial, a diventare la più famosa d’America,
facendole vincere settantadue partite di
seguito. Poi, al servizio della losangelina
UCLA domina il campionato universitario,
vincendo tre titoli in quattro stagioni, due
volte miglior giocatore assoluto, addirittura
responsabile della temporanea messa fuorilegge
della schiacciata, che secondo rendeva
la sua presenza troppo dominante. Tra i
“pro” Lew diventa, a inizio 70, “il nobile servitore
del Potente” (come si traduce il nome
di Kareem Abdul Jabbar) e anche il faro assoluto
della Lega: vince campionati a grappoli,
prima coi Milwakee Bucks, poi coi LA
Lakers e più diventa adulto più la sua figura
diventa quella di un riverito leader, sia razziale
che di un attitudine allo sport e alla cultura
americana, fatta di decenza, dedizione,
sforzo. Mentre il suo corpo poco a poco invecchia
sul campo, la sua mente resta vulcanica:
apprende le arti marziali da un maestro d’eccezione
come Bruce Lee, vede malinconicamente
bruciare la sua casa di LA dentro la
quale conservava la sua celebre collezione
di dischi jazz, una passione trasmessagli dal
papà musicista e al momento del ritiro, a fine
anni Ottanta è salutato dalla commozione
e dalla devozione che si riserva al primo sacerdote
di un onorato culto. Ma Jabbar non
diventa un ex. E ha finalmente il tempo per
dedicarsi alle sue vere passioni, quelle sempre
sacrificate al dovere – lungo una vita –
d’infilare la palla nel canestro. L’ha sempre
detto: non avesse avuto in sorte “l’obbligo” di
diventare un atleta professionista, avrebbe
fatto il professore di Storia. E adesso, la sua
passione per la storia afroamericana gli ha
ispirato un libro bellissimo, raro esempio di
come la descrizione di un’epoca e di un ambiente
possa essere interpetato dall’autore
con una compartecipazione motivata dall’essere
stato lui stesso uno dei protagonisti di
quello scenario.
Il volume s’intitola “On the Shoulders Of
the Giants”, sulle spalle dei giganti, frase
Jabbar che prende in prestito da Isacco
Newton, per significare l’importanza da attribuire
a coloro che ci hanno fornito gli
esempi coi quali siamo cresciuti. Organizzato
in forma di domanda e risposta secondo il
canone dell’insegnamento orale della cultura
dell’Africa occidentale, il saggio raccoglie
una serie di “lezioni” sul Rinascimento di
Harlem, il quartiere del giovane Lew in quel
particolare ventennio tra anni Venti e Quaranta,
durante i quali il quartiere Nero di
New York riscatta la propria natura miserabile
e marginale, per imporsi come motore
culturale dello splendore artistico cittadino,
come vettore dell’integrazione del black culture
e come teatro del laboratorio creativo di
strada che mette nello stesso calderone arte
e coscienza, musica e sport, poesia e politica,
jazz ed educazione civica, sessualità e ambizioni.
Duke Ellington e Louis Armstrong,
Langston Hughes e Jacob Lawrence in quel
periodo convergono nel modesto rettangolo
urbano di Harlem, attirati non tanto da un
senso di unità (“questa è la visione disneyana
dei fatti”, sostiene Jabbar) ma dal fatto
che quello fosse un buon posto dove rifugiarsi,
organizzarsi e cercare i modi per dare l’assalto
alle durezze della società americana
del tempo, tanto più per una mente creativa
in un corpo nero. “La gente di cui scrivo, ha
combattuto e sofferto, e io desidero che di
ciò si tenga conto. Vorrei che la loro storia
ispirasse il lettore così come ha ispirato me”,
scrive Kareem. E le sue pagine rendono
omaggio a tutti quegli intellettuali che hanno
formato la sua giovinezza, Malcolm X in
testa, e poi a quegli artisti, Miles Davis in testa,
che hanno dato forma alla spericolata
esperienza della sperimentazione creativa.
Su, fino alla storia più appassionante di tutte:
quella dei dimenticati Harlem Renaissance
– Rens per gli appassionati – che in una
nazione nella quale ancora agiva indisturbato
il Ku Klux Klan, ebbe l’ardire di presentarsi
come squadra di pallacanestro fatta solo
di giocatori neri, puntualmente esclusi
dalle competizioni ufficiali. “Senza i Ren e
senza quei grandi giocatori, la vera storia del
mio sport in America non sarebbe mai stata
scritta”. I Rens giocavano ai margini, venivano
invitati per qualche sfida estemporanea,
in cui puntulmente davano lezione agli educati
atleti bianchi. Ma ogni partita non faceva
altro che offrire un motivo di riflessione
in più. Adesso il sessantenne campione dei
campioni di questo sport ha messo giù un
racconto appassionante, orgoglioso e affettuoso
di quelle vicende trascurate e dell’irripetibile
ambiente metropolitano che, proteggendole,
permise loro di germogliare. Sono
storia di come una società ha imparato a diventare
migliore. E l’uomo che le ha vergate
è la sublime incarnazione di come tutto ciò
abbia senso, sviluppo e dimensione.

Sunday, March 18, 2007

Addio, Jean Baudrillard

I filosofi muoiono in modo complicato.
Spesso si decostruiscono. Pochi
hanno studiato bene la questione,
e Jacques Derrida, in un saggio
intitolato “Il filosofo desidera morire?”,
ebbe l’idea di scrivere: “Noi
sperimentiamo solo la morte degli
altri, da cui ricaviamo mimeticamente
e allegoricamente l’idea della nostra
mortalità, proprio come solo dalle
parole degli altri perveniamo all’autocoscienza
(…). Tutta la coscienza
appare allora come Verwindung o,
detto altrimenti, différance, e la presa
di coscienza si rivela strutturalmente
e trascendentalmente come
un autoinganno”. Più che una frase
lucida, sembra una frase lucidata, in
ogni caso non importa, perché probabilmente
il ribobolo derridiano va
inteso allo stesso modo del titolo che
Libération ha scelto per dare la notizia
della morte di Jean Baudrillard,
filosofo e sociologo francese scomparso
il 6 marzo all’età di settantasette
anni: “Jean Baudrillard au-delà
du réel”. Da tutto questo si possono
trarre due indicazioni: la prima è
che essendo andato al di là del reale,
Jean Baudrillard sia effettivamente
morto (in realtà, e lo so che cerco il
ridicolo, io non credo che la morte
esista, perché morire significherebbe
ritornare al nulla, ma ritornare al
nulla è impossibile, visto che il nulla,
in quanto nulla, non esiste; detto
altrimenti: visto che è logicamente
contraddittorio pensare alla creazione
dal nulla, essendo assurdo che
dal nulla possa venire fuori qualche
cosa di diverso dal nulla, il fatto che
esista il mondo presuppone che questo
mondo sia eterno, e laddove c’è
eternità non può esserci la morte); la
seconda indicazione che ci viene dal
titolo di Libération è che la filosofia
di Baudrillard abbia a che fare con il
reale e con il suo superamento. Ed è
questo, forse, il centro del discorso.
Ma è meglio arrivarci con calma.
Non è infatti pensando alla morte, a
Caronte traghettatore, allo psicopompo,
che vorrei ambientare la discussione
che riguarda Baudrillard su una nave
ormeggiata al porto di Pola, verso la fine
dell’Ottocento. Lo faccio per un altro
motivo, perché a bordo di questa nave, il
panfilo Pelikan, l’imperatrice d’Austria
Sissi pronunciò una frase fondamentale
che è al centro del discorso su Baudrillard.
Racconta Constantin Christomanos,
l’insegnante di greco dell’imperatrice:
“Il Miramare ha fatto scalo a Pola
perché l’Imperatrice aveva intenzione
di visitare il panfilo Pelikan, sul quale
sono in corso lavori di ammodernamento.
La nave l’aspettava tutta imbandierata.
Vi si è diretta con la sua dama di corte
su una scialuppa del Miramare. Le è
andata incontro un’altra scialuppa, con
ammiragli e diversi dignitari del porto.
Dai deserti dello spirito in cui dimorava,
l’Imperatrice è rientrata nell’atmosfera
imposta dal suo rango. Ma anche lì ha
portato l’indescrivibile grazia e nobiltà
della sua natura. Tutti i presenti – lo si
leggeva in volto a ciascuno – erano abbagliati,
ma non ne capivano il vero motivo
e credevano di dover attribuire le loro
impressioni all’augusta dignità della visitatrice”.
Impressioni sbagliate, come
giustamente fa notare Christomanos,
perché in Sissi si agitava altro: stava registrando
un’epoca, la stava riassumendo
tutta in se stessa, per esempio in
quella fotografia storica in cui, tanto per
rappresentare l’idea della scomparsa
della realtà, si era fatta ritrarre a cavallo
con il ventaglio che ne copriva perfettamente
il volto (scrive Guido Ceronetti:
“Elisabetta Wittelsbach, imperatrice
d’Austria, soffriva di fobia dello sguardo.
Il suo assassino gli piantò in cuore un
punteruolo senza guardarla. I medici,
fosse morta tra i pizzi e sotto baldacchini,
l’avrebbero fatta molto più soffrire,
guardandola in faccia”).
Sissi avvertiva la presenza soffocante
del nichilismo, l’idea cioè che i valori
supremi si fossero svalutati, che mancasse
il fine, mancasse la risposta al perché,
che la realtà, una volta per tutte,
fosse svaporata e fosse ormai diventata
un fantasma. Questo, e soltanto questo,
spiega il suo contegno, il deserto dello
spirito in cui dimorava. Infatti, durante
la visita al Pelikan, Sissi confessò a Christomanos:
“Gli uomini credono di dominare
la natura e gli elementi grazie alle
loro navi e ai loro treni espresso. Ma
è vero il contrario – ormai la natura ha
assoggettato gli uomini. Un tempo ci si
sentiva simili a Dio pur abitando in una
conca desolata da cui non si usciva mai.
Ora siamo sempre in moto, perenni globetrotter,
come gocce del mare, e alla fine
ci accorgeremo che non siamo più altro
che questo”.
Quest’immagine del moto perpetuo,
delle gocce del mare, questo fatto che
l’uomo, e tutto ciò che lo riguarda, è diventato
spruzzo, si ritrova quasi identico
in un passo che Jean Baudrillard pubblicò,
nel tentativo di descrivere il collasso
nichilistico della modernità, in
uno dei suoi libri più importanti, “La
trasparenza del male. Saggio sui fenomeni
estremi” (Sugarco editore): “E’ altrettanto
impossibile calcolare in termini
di bello e di brutto, di vero o di falso,
di bene o di male, che calcolare nello
stesso tempo la velocità e la posizione di
una particella. Il bene non si colloca più
sulla verticale del male, nulla si dispone
più in ascisse e ordinate. Ogni particella
segue il proprio movimento, ogni valore,
o frammento di valore, brilla un
istante nel cielo della simulazione, poi
scompare nel vuoto seguendo una linea
spezzata, che solo eccezionalmente incontra
quella degli altri. E’ lo stesso
schema del frattale, ed è lo schema attuale
della nostra cultura”. Si tratta di
un punto di arrivo. Ma per Baudrillard
anche di un punto di partenza. Partenza
certo complicata, visto che in quello che
lui chiama “schema frattale”, almeno
per come lo descrive, è impossibile trovare
un inizio e una fine, un ordine su
cui costruire. Il punto di arrivo è invece
piuttosto chiaro e si può riassumere affermando
che il nichilismo è un processo,
una storia, e non è un fatto che, a un
certo punto, arriva per caso o una nuova
teoria del mondo con cui all’improvviso
fare i conti. Persino Cartesio è un nichilista
quando riprende le idee di Platone,
modello imperituro di qualsiasi cosa c’è
nel mondo, e le trasforma in enti percepibili
e conquistabili. Il nichilismo si caratterizza
quindi come un processo di
indebolimento del reale: così Kant, per
cui il mondo della natura è ordinato secondo
le categorie a priori dell’uomo,
cede il passo a Schopenhauer, per cui il
mondo è una rappresentazione del soggetto
assoluto, fino ad arrivare Nietzsche
che decreta apertamente la disponibilità
del mondo alla volontà di potenza,
unica e libera legislatrice di tutto ciò
che esiste. Di fronte a tutto questo Heidegger
sentenzia: “Alla fine della metafisica
sta la tesi: homo est brutum bestiale”
mettendo una pietra tombale sulla
gloriosa storia fin qui culminata. Ed è in
questo momento del processo, che spunta
Baudrillard con la sua idea di schema
frattale, con la sua geografia del mondo
nichilista e postmoderno.
Baudrillard parla di fine dell’orgia,
spiega cioè che la modernità, nella sua
volontà illuminista e liberatoria, ha
esaurito ogni pulsione vitale e ha portato
l’umanità ormai esausta a quella che
un filosofo eccentrico e imprevedibile
come Alexandre Kojève aveva definito
“Fine della storia”: “La fine della storia
è la morte dell’Uomo propriamente detto
– dice Kojève – dopo questa morte restano
dei corpi vivi dotati di forma umana,
ma privi di Spirito, cioè di Tempo o
di potenza creativa”. Se si vuole è un altro
modo di descrivere il nichilismo, certo
più ironico e amaro, visto che la morale
della modernità è quella delle grandi
minchionature faustiane: io modernità,
io filosofia, ti ho liberato, uomo, ho
realizzato tutti i tuoi desideri, ma ora
che hai ottenuto tutto quello che volevi,
non ti resta in mano nulla, sei tornato
animale e, come uomo, sei morto.
Scrive Baudrillard: “Se si dovesse caratterizzare
lo stato attuale delle cose, direi
che è quello del dopo orgia. L’orgia è
tutto il momento esplosivo della modernità,
quello della liberazione in tutti i
campi. Liberazione politica, liberazione
sessuale, liberazione delle forze distruttive,
liberazione della donna, del bambino,
delle pulsioni inconsce, liberazione
dell’arte. (…) Oggi tutto è liberato, tutti i
giochi sono fatti e ci ritroviamo collettivamente
di fronte alla domanda cruciale:
che fare dopo l’orgia? Possiamo ormai
soltanto simulare l’orgia e la liberazione,
far finta di muoverci nella stessa direzione
accelerando, ma in realtà acceleriamo
nel vuoto (…). Che fare allora? E’ questo
lo stato di simulazione, quello in cui possiamo
solo rimettere in gioco tutti gli scenari
perché hanno già avuto luogo”. Non
resta che la ripetizione addormentata, un
po’ museale, della storia passata; la
realtà si scopre immagine, si sbriciola, vive
nel ricordo, gli uomini si vedono mummie
prive di ombra. Politica, scienza, economia,
sessualità e arte si volatilizzano, si
trasformano in vapore acqueo, gocce del
mare: piccole Sissi che si coprono il volto
perché hanno perso lo sguardo. Diamine.
Ogni cosa si estetizza, Andy Warhol e
Marcel Duchamp mettono sul piedistallo
il primo una scatoletta di fagioli e il
secondo un orinatoio, tutta l’insignificanza
del mondo viene trasfigurata dall’estetica;
la politica si estetizza nello
spettacolo, il sesso nella pubblicità;
nello stesso tempo tutto diventa sessuale,
il sapere si risolve in una dialettica
della libidine (psicoanalisi), e tutto diventa
anche politico: la vita quotidiana,
ma anche la follia, il linguaggio, i media,
il desiderio, eccetera diventano politici
in quanto parte del processo liberatorio
della modernità. Tutto è in tutto.
E niente è in niente. Spruzzi. Jackson
Pollock. Bianco assoluto. Il corpo
ambisce al protozoo, intende riprodursi
per clonazione, mutarsi in una piccola
macchina celibe. Scrive Baudrillard:
“E il sesso che abbiamo, questa piccola
parte di destino che ci resta, questo minimo
di fatalità e di alterità, anche questo
lo si potrà cambiare a piacere. Senza
contare la chirurgia estetica degli
spazi verdi, della natura, dei geni, degli
eventi e della storia (la Rivoluzione rivista
e corretta, con un lifting in direzione
dei diritti dell’uomo). Tutto deve
essere postsincronizzato secondo criteri
di convenienza e di compatibilità ottimale.
Ovunque si arriva a questa formalizzazione
inumana del volto, della
parola, del sesso, del corpo, della volontà,
dell’opinione pubblica. Qualunque
barlume di destino e di negatività
deve essere espulso per qualcosa che
assomiglia al sorriso morto nelle funerals
homes, per una redenzione generale
dei segni, in una gigantesca manovra
di chirurgia plastica”.
Ripetendo un ragionamento simile a
quello che fece Pier Paolo Pasolini a
proposito dell’aborto, quando Pasolini
sostenne che il reato di aborto si poteva
includere in quello di eutanasia, in un
piccolo patto criminale a opera della
natura per evitare la fine dell’umanità
per sovrappopolazione, per pletora planetaria,
Jean Baudrillard sostiene per
esempio che l’Aids e il terrorismo non
siano altro che sinistre terapie messe in
atto, (sempre dalla natura?), per cercare
di limitare l’esplosione nichilista.
“Conosciamo bene – scrive Baudrillard
– l’autoregolazione spontanea dei sistemi
che producono i propri incidenti, i
propri arresti, al fine di sopravvivere.
Non c’è società che non viva contro il
proprio sistema di valori – bisogna che
ne abbia uno, ma è altrettanto necessario
che essa si determini contro di esso.
Ora, noi viviamo su due princìpi almeno:
quello della liberazione sessuale e
quello della comunicazione e dell’informazione.
Tutto avviene come se la specie
producesse da se stessa, attraverso
la minaccia dell’Aids, un antidoto al suo
principio di liberazione sessuale, attraverso
il cancro, che è un’irregolarità del
codice genetico, una resistenza nei confronti
del principio onnipotente del
controllo cibernetico, e, attraverso tutti
i virus, un sabotaggio del principio universale
di comunicazione. (…) Altrettanto
va detto per il terrorismo: (…) non ci
protegge forse da un’epidemia di consenso,
da una leucemia e da un deliquio
politici crescenti, e dalla trasparenza
dello stato? Tutto è ambiguo e reversibile.
In fondo è con la nevrosi che l’uomo
si protegge nella maniera più efficace
dalla follia”. A proposito del ragionamento
di Pasolini sull’aborto e sul problema
demografico, Giorgio Manganelli
diceva: “Questo non è un glissando, è
uno slalom. A questo punto, viene una
gran nostalgia di Voltaire, di Swift, di
Bertrand Russell, magari della logica di
Aristotele, aio e pedante”, e lo stesso si
potrebbe, anzi si dovrebbe, ripetere qui,
con una differenza: non è slalom, Baudrillard
è già all’intertempo della sua
discesa libera. Perché al traguardo,
quando cioè viene ripreso l’argomento
del terrorismo alla luce dell’11 settembre,
Baudrillard scrive che il terrorismo
è colpa nostra, è colpa della nostra società
globalizzata e mercantile: “L’instaurazione
del sistema mondiale è il risultato
di una gelosia feroce: quella di
una cultura indifferente e di bassa definizione
nei confronti delle culture a alta
definizione – quelle dei sistemi disincantati,
disintensificati, nei confronti
delle culture a alta intensità – quelle
delle società desacralizzate nei confronti
delle culture o delle forme sacrificali.
(…) Oltre che sulla disperazione degli
umiliati e degli offesi, il terrorismo si
fonda (anche) sulla disperazione invisibile
dei privilegiati nella globalizzazione,
sulla nostra stessa sottomissione a
una tecnologia integrale (…). Il terrorismo
è il verdetto e la condanna che la
nostra società pronuncia su se stessa”.
E’ il nichilismo, bellezza. E’ lo schema
frattale che rende difficile, se non
impossibile, ogni partenza, ogni tentativo
di superare l’orgia della modernità,
e che tutto avviluppa e che trattiene a
sé, mordendo, con il veleno del paradosso,
lo sforzo di andare oltre, di rispondere
alla domanda su cosa è necessario
fare dopo l’orgia.
Si diceva che i filosofi muoiono in
modo complicato. Ecco, per avere troppo
frequentato le esuberanze della modernità,
Baudrillard è morto forse di
quello stesso nichilismo che non ha
mai smesso di indagare. Magari è
scomparso al di là del reale, afferrato
da quegli spruzzi che avevano già colpito
il volto nascosto dell’imperatrice
Sissi mentre passeggiava sul ponte del
panfilo Pelikan in compagnia del suo
insegnante di greco.
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