Tuesday, February 27, 2007

Come non essere d'accordo con Camillo Langone?

La Scuola Holden di Alessandro Baricco arriva
in edicola: allo scrittore torinese non bastava
aver diplomato 300 corsisti, voleva i grandi numeri e con questi
dvd intitolati “Scrivere” sicuramente li otterrà.
La scrittura è l’unica bottega artigianale alla cui
porta bussano sempre nuovi apprendisti.
Purtroppo è anche l’unica i cui prodotti sono
inutili quando non dannosi (il libro più
importante è stato già scritto, basterebbe
andarsi a rileggere quello). Ma siccome
non si può andare contro lo spirito del
tempo, che sibila all’orecchio di migliaia
di ragazzi la necessità di esprimere una
personalità inesistente, anziché avvilirsi
bisogna sfruttare gli stessi metodi a fini benefici.
Che vengano diffusi dvd in cui signori
di bell’aspetto, indossanti maglioni
dai colori biologici, spieghino con sottofondo
di musica classica quanto la personalità
possa espandersi attraverso le attività
manuali. I primi titoli: “Cucire”, “Impastare”,
“Segare e piallare”, “Zappare”.

Sunday, February 11, 2007

Grazie, Eugenio.

Nella giornata di ieri la Chiesa è passata al contrattacco, guidata dal Papa in persona a rinforzo del "non possumus" emanato dalla Conferenza episcopale. Benedetto XVI, con riferimento specifico ai temi della bioetica e al disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri sulle convivenze di fatto, ha detto che c'è da pensare "che ci siano dei periodi in cui l'essere umano non esista veramente" Addirittura! Accenti simili non si erano più uditi da quando i bersaglieri di La Marmora entrarono dalla breccia di Porta Pia mettendo fine al potere elettorale e la nobiltà clericale chiuse i portoni dei suoi palazzi sconfessando la nascita dell'Italia unita e di Roma capitale.

Dev'essere accaduto qualche cosa di molto più grave a ferire la sensibilità e gli interessi della Chiesa del riconoscimento di alcuni diritti che regolarizzano le coppie di fatto ben più timidamente di quanto già non sia avvenuto in tutt'Europa, dalla Spagna all'Olanda e dalla Francia alla Germania. Che cosa è dunque accaduto?

È accaduto che quel cautissimo atto di governo, che porta la firma d'un premier cattolicissimo ed è stato redatto da un cattolicissimo ministro, ha posto un paletto al neo-temporalismo della Santa Sede, alle sue crescenti interferenze nella legislazione e addirittura nell'articolazione delle norme di legge che il Parlamento voterà nelle prossime settimane.

È accaduto che al "non possumus" dei vescovi italiani è stato opposto il "possumus" dei gruppi parlamentari del centrosinistra e in particolare dei parlamentari cattolici della Margherita, che hanno rivendicato la loro responsabile autonomia laica e - insieme - la loro costante appartenenza ai valori del cristianesimo.

Viene in mente il rifiuto di Alcide De Gasperi all'operazione Sturzo di stampo clerico-fascista, sponsorizzata da papa Pacelli e dai Comitati civici. Da allora il leader della Dc non fu più ricevuto, neppure in udienza privata, da Pio XII, il che non gli impedì di reggere le sorti del governo nazionale senza mai venir meno ai suoi sentimenti di appartenenza cattolica e ai suoi doveri verso il paese e verso la Costituzione.

Questo preoccupa Benedetto XVI e i vescovi italiani: che i cattolici democratici, messi con le spalle al muro dall'intransigenza ruiniana, abbiano rifiutato di essere passiva cinghia di trasmissione ponendo così un argine alla clericalizzazione delle istituzioni.

Non li preoccupa né Diliberto né Pecoraro Scanio né Rifondazione comunista, bensì i Franceschini, i Letta, le Bindi, gli Scoppola e, soprattutto, Romano Prodi che va a messa e frequenta i sacramenti tutte le domeniche. Si ritrovano - i vescovi - in compagnia del paganesimo berlusconiano con il rischio di un neo-temporalismo profumato alla cipria del Bagaglino anziché all'incenso delle basiliche.

* * *

Si dice - talvolta l'ho detto anch'io - che il potere politico è debole. Ha un pensiero debole. Inclina al compromesso. Si vorrebbe una politica che scelga senza se e senza ma. E poiché i se e i ma abbondano, se ne conclude che la politica non fa il dover suo e le si contrappone il deposito dei valori della religione, alimentati dall'intransigenza della fede.

Ma si è mai vista nella storia una politica senza compromessi? La politica si nutre di compromessi, procede per sintesi, non si ferma mai ad una tesi intransigente o ad un'intransigente antitesi, salvo in regimi di dittatura o, peggio, di totalitarismo.

I regimi liberali e ancor più quelli liberal-democratici amministrano organismi complessi, interessi plurimi e spesso contrapposti. Debbono pertanto rappresentarli tutti superandone i particolarismi, includendo e non escludendo, trovando il denominatore comune.

Il pensiero debole della politica coincide con compromessi deboli e privi di obiettivi forti. E in quei casi debbono essere vigorosamente criticati. La politica è l'arte del possibile, quindi del dialogo e dell'accordo al più alto livello possibile. Cavour voleva fare un grande Piemonte nel 1857 e si accordò con la Francia di Napoleone III. Poi l'obiettivo cambiò e divenne assai più ambizioso: volle fare l'Italia. Si alleò con Garibaldi, con Ricasoli, con Minghetti e con l'Inghilterra. Si sarebbe alleato anche col diavolo se fosse servito.

Quale politica non fa compromessi? Perfino Cesare li fece. Perfino Napoleone. Hitler no, non li fece. Voleva sterminare gli ebrei e li sterminò. Voleva conquistare tutta l'Europa e c'era quasi riuscito se non ci fosse stato Pearl Harbor e se Roosevelt non si fosse alleato con Stalin. Ma Hitler non era un politico, era un pazzo criminale. Antipolitico per eccellenza.

Anche la Chiesa ha fatto compromessi. Perfino con Hitler. Con Mussolini. Con Franco. Con Breznev. Con Jaruzelski. Con Gorbaciov. Tutte le volte che le è convenuto ha stipulato concordati. Non è forse un compromesso il concordato? Si patteggia, si dà e si prende.

La fede non fa compromessi. Ma la fede riguarda la coscienza individuale, non le organizzazioni che l'amministrano. La Chiesa e la sua gerarchia sono il corpo che riveste la fede. Talvolta il corpo esprime e realizza l'anima, talaltra la rinserra nei suoi corposi interessi mondani. Questo è sempre stato il rapporto tra la gerarchia dei presbiteri e la comunità dei fedeli. Lo scontro tra il modernismo e il Vaticano ebbe proprio questa motivazione. Finì con la persecuzione dei modernisti della quale c'è traccia evidente perfino nel Concordato del '29. Il cristianesimo diffuso dalla predicazione degli apostoli è la religione dell'amore. Ma non sempre.

* * *

È singolare che nel dibattito in corso tra il Vaticano e il governo italiano nessuno (salvo i radicali) abbia menzionato il Concordato. Come se non esistesse più. Come se fosse caduto in desuetudine. Come se non fosse stato recepito nella Costituzione del 1947.
Infatti è caduto in desuetudine. O meglio: sta in piedi soltanto a tutela dei benefici che ne riceve la Chiesa. I limiti che la Chiesa ha pattuito con lo Stato sono stati invece superati.

Il deputato Capezzone, tanto per dire, si è stupito l'altro ieri perché si aspettava che il governo protestasse con la Santa Sede per l'irritualità compiuta dalla Cei con l'irruzione palese e anticoncordataria compiuta nei confronti del potere legislativo, così come il governo aveva ritenuto irrituale l'intervento dei sei ambasciatori che ci invitavano perentoriamente a restare in Afghanistan senza se e senza ma.

Ha ragione Capezzone. Ma ha ragione anche il governo. Il Vaticano in Italia è infinitamente più forte degli ambasciatori dei sei paesi alleati. È più forte come potere temporale. Pretende di dirigere le coscienze dei fedeli anche - anzi soprattutto - quando rivestano cariche ministeriali o siano membri del Parlamento. Chiede, anzi pretende obbedienza.

Ho letto l'intervista di Rosy Bindi su Repubblica di ieri. Dice: "Abbiamo scritto una legge giusta che tutela i più deboli, riconosce diritti alle persone discriminate, non crea nessuna figura giuridica che possa attentare alla famiglia. L'insegnamento cattolico parla di valore della giustizia, di pace, di libertà personale, di accoglienza perfino dell'errore. Di carità e di misericordia... Un politico non deve sentirsi referente di nessuno. Il mio referente è il Paese e la mia coscienza cattolica".

Ebbene, questo è il punto che per i vescovi italiani ha l'effetto d'un panno rosso davanti a un toro infuriato: il fatto che il laicato cattolico democratico abbia come riferimento la Costituzione e la propria coscienza cattolica e sulla base di questi due riferimenti fondamentali arrivi a conclusioni difformi da quelle della gerarchia ecclesiastica. La considera una ribellione perché ha perso la nozione esatta della parola Ecclesia. Che non distingue tra presbiteri e fedeli. Ecclesia è la comunità cristiana, è comunione partecipata perché tutti prendono il corpo eucaristico del Cristo, tutti nello stesso momento e alla stessa mensa. La grazia non passa attraverso l'intermediazione dei presbiteri, ma il Signore la dispensa direttamente ai fedeli che credono in lui e da lui prescelti.

Il neo-temporalismo è il contrario di tutto ciò. Non a caso Paolo VI ritenne la fine del temporalismo "un fausto evento per la Chiesa". Ma in realtà a partire dal pontificato di papa Wojtyla fino ad oggi la Chiesa sta devitalizzando i contenuti più significativi del Concilio Vaticano II e i due pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI. L'ha scritto a chiare lettere Pietro Scoppola nel suo articolo di tre giorni fa su Repubblica.
Questo è il senso dell'operazione in corso, di cui il disegno di legge sulle convivenze non è che il pretesto.

* * *

Si dice che il pensiero laico sia debole. Capisco perché lo si dice: i laici (qui intesi come laici non credenti) non hanno né papi né cardinali né vescovi né preti. Ciascuno parla per sé e rappresenta solo se stesso. Per fortuna.

Non significa che un pensiero laico non esista e neppure che sia debole. Al contrario è forte, è lucido, è coerente alle sue premesse e nella sua dialettica con i clerici. Basta aver letto i più recenti prodotti di questo pensiero pubblicati questa settimana dal nostro giornale: l'articolo di Ezio Mauro e quello di Gustavo Zagrebelsky a proposito del "non possumus" episcopale.

I laici sono favorevoli allo spazio pubblico che spetta alla Chiesa, per ampio e crescente che sia, e ascoltano la sua parola con interesse traendone elementi di positiva riflessione e di rispettosa accoglienza quando ve ne siano, contestando elementi di intolleranza e tentazioni teocratiche che spesso, purtroppo, vi sono.
I laici non sono anticlericali, anche se l'episcopato italiano sta facendo il possibile per farceli diventare. Ma i laici hanno come solo punto di riferimento il patto costituzionale. Su quel patto si fonda la Repubblica italiana e in esso ciascuno trova le radici della sua identità.

Perciò mi stupisco molto di coloro che sarebbero pronti ad accettare i patti di convivenza purché limitati agli eterosessuali. La Costituzione vieta in modo esplicito che la legislazione possa introdurre norme discriminanti nei confronti dei cittadini per ragioni di etnia, di religione, di sesso. Un regime di convivenza che discriminasse gli omosessuali cadrebbe ovviamente sotto la scure della Corte costituzionale e, prima ancora, sotto quella del Capo dello Stato secondo i poteri e le modalità che gli sono attribuiti.

Quindi tutto è molto chiaro. I laici vogliono il rispetto della Costituzione e di conseguenza anche del Concordato. Qualcuno, prima o poi, chiederà alla Corte se il Concordato sia ancora in vigore o sia gravemente leso. E qualora lo fosse, quali siano gli strumenti atti a recuperarne il rispetto o a proclamarne la decadenza per doveroso recesso della parte lesa.

Saturday, February 03, 2007

Jean- Noel Schifano e Napoli

Jean-Noel Schifano è innamorato di Napoli oltre il limite della provocazione, tanto da mettere in imbarazzo chi all’ombra del Vesuvio ci vive, sospeso tra inferno e paradiso, accerchiato da una quotidianità disperata. Ventitrè anni dopo la prima edizione con Pironti, ora lo scrittore francese, che per lungo tempo è stato direttore del Grenoble, ripubblica Cronache napoletane (Marlin, pagg. 177, euro 11,90, con la nuova versione di Tjuna Notarbartolo, precedentente tradotto da Felice Piemontese). Ma la vera novità è l’uscita in Francia, il prossimo aprile, del Dizionario innamorato di Napoli (Plot). Sempre innamorato? «Ora più che mai. Proprio in questi mesi in cui in Italia è in atto una scandalosa campagna-stampa contro Napoli, a colpi di copertine di settimanali. Napoli perduta? Ma quando mai? Non hanno capito niente di questa città. L’Italia la odia perché la invidia». Cominciamo subito con un’esagerazione. Napoli sembra una città senza futuro, almeno per chi ci vive. «Napoli nella sua grammatica esistenziale non ha futuro. Nel suo presente c’è il passato e nel suo passato c’è il presente». Stiamo freschi, allora. «Napoli vive un eterno presente. Per questo i napoletani fanno una grande fatica ad andare avanti ma voi sapete prendere il meglio, quando il resto d’Italia cerca di buttarvi addosso il peggio di sé». Insomma, è colpa degli italiani? Un po’ vittimistico. «Tra tutte le metropoli del mondo, Napoli è quella dove si vive meglio». Stentiamo a crederci. Basta spostarsi di qualche chilometro. «Bisogna avere altri occhi. Per leggere Napoli bisogna pensare a Rabelais e a Basile, non a Camus, perché Napoli non sopporta l’utopia». Un momento. Approfondiamo. «Sì, Napoli ha sempre rifiutato la purezza dell’utopia. Lo ha fatto non accettando l’Inquisizione spagnola e, poi, impiccando i rivoluzionari del 1799. Ama la corruzione della materia, perché la corruzione è la vita. Nasciamo dal fango e dalla merda e torniamo al fango e alla merda. Per questo Napoli non ama il fuoco purificatore, perché ha capito la vera essenza della vita». Insomma dovremmo tenerci l’immondizia e ringraziare pure? «Come gli alchimisti bisogna trasformare l’immondizia in oro». A questo ci ha già pensato la camorra. Ora lei attacca il mito dei martiri del '99. È diventato neoborbonico? «Non scherziamo. I napoletani possono avere nostalgia borbonica, ma non potranno mai avere nostalgie savoiarde. Garibaldi ha messo in tasca ai piemontesi tutto il Sud in modo inaspettato. E Vittorio Emanuele ha chiamato la camorra a guidare una città che ha depredato e che non capiva. La camorra era l’unica forza sociale che poteva controllare questo caos. I Savoia si sono impossessati anche della toponomastica. Io vorrei che piazza Plebiscito tornasse a chiamarsi Largo di Palazzo, come via Roma ha ripreso il nome di via Toledo». Ma ormai i napoletani si sono affezionati al nome Plebiscito. «Ma è un nome bruttissimo. Lo stesso concetto di plebiscito è terrificante. È un segno di dittatura. I Savoia sono partiti dai plebisciti e hanno portato al potere Mussolini. C’è una linea diretta tra Garibaldi e il fascismo». Le sue sintesi sono da brivido. Si rende conto che molti storici stanno saltando sulla sedia? «Bah, io so soltanto che sono secoli che i napoletani ricevono botte dall’esterno e resistono. Non cambiano. Tra un napoletano di cento anni fa anni fa e un napoletano di oggi non c’è differenza». Purtroppo. «È sempre colpa del governo centrale che tratta Napoli come una vecchia da assistere, mentre invece è la città più giovane d’Italia. E la sua vitalità deve sfogare in qualche modo». In che modo? «Liberandosi dal provincialismo di Roma, schiava del Vaticano. Ci vuole un’altra breccia di Porta Pia». Allora qualcosa dei Savoia lo salva. «Be’ sì. Comunque, la classe politica napoletana di oggi è succube di giochi di potere romani, come tutta l’Italia». Che fa il leghista ora? Roma ladrona? «La salvezza dell’Italia è nell’indipendenza delle Regioni e delle città. L’Italia ha perso l’unità. Non so se sia un bene o un male. È un fatto. E per fare rinascere Napoli ci vuole un’altra Italia, diversa, una Confederazione, come la Svizzera per esempio. Là le specificità delle singole parti del paese sono tutelate e incentivate, come i dialetti, per esempio». Mica ci potranno salvare le poesie di Salvatore Di Giacomo? «Certo che no. Ma Napoli ha una capacità imprenditoriale unica al mondo. Qui ci sono delle vere potenze legali e illegali». Delle seconde ce ne siamo accorti da tempo. «Voglio fare un discorso provocatorio, ma serio. Oggi la camorra non è la delinquenza dei Quartieri Spagnoli. La criminalità organizzata è fatta di imprenditori che hanno rapporti commerciali strettissimi con la Cina. Gran parte delle merci che arrivano in Europa, legalmente e illegalmente, fanno capo al porto di Napoli. I camorristi hanno capacità commerciali enormi, riescono a stabilire rapporti legali con la Cina e addirittura con il suo governo». Guardi che sta creando un caso diplomatico. «Ma sono cose note a tutti. Secondo me, bisogna fare uscire dall’illegalità gli imprenditori camorristi, loro saprebbero rilanciare l’economia napoletana e italiana». Un condono, una sorta di «chi avuto avuto avuto, chi ha dato ha dato ha dato»? «Ma no. Bisogna ripulirli del loro passato. Devono restituire una gran parte dei guadagni illeciti allo Stato, alla comunità alla quale le hanno tolte e lo Stato li sdogana». Insomma, per dirla con Marx, accettiamo la loro accumulazione originaria e li traghettiamo nel salotto buono dell’economia? «È quello che hanno fatto e fanno in America. Così è stato per grandi famiglie dal passato controverso, come i Kennedy, per esempio. Quando lo stato centrale soffoca l’economia, è naturale che nascono contropoteri come la camorra. La soluzione sta nel trasformare queste forze che lavorano per sé stesse in forze che lavorano per tutti. Integrarle nella società, non disintegrarle. Pensi che io farei addirittura un museo della camorra». Boom. «Non è uno scherzo. Anche i lager nazisti sono visitati dai turisti. Museificare è affidare alla Storia, allontanarsi dal male e recupare le forze vive». Ma la camorra non si batte con i musei. Sarebbe troppo facile. «Napoli ha generato la camorra e saprà riassorbirla. La gente trattata come monnezza si trasforma in monnezza. Bisogna uscire da questa logica». Sono stordito. Ha qualcosa da dire anche alla classe politica, quella legale? «Chi governa Napoli deve uscire dall’ideologia, deve capire la città in cui vive e tirarne fuori tutte le energie creative. Non bisogna avere paura di essere napoletani. Per salvarvi dovete esserlo profondamente». Come si fa a essere profondamente napoletani? «Puntando sulle qualità che avete». Ci rincuori, quali sono queste qualità? «La grande capacità di comunicare, la disponibilità a comprendere l’altro, l’assoluta mancanza di razzismo, la curiosità, l’intelligenza permanente, la vivacità nelle decisioni, quando vi è data la possibilità di decidere». Non ci resta che leggere il suo «Dizionario». «Resterete a bocca aperta»
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